(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
di Salvatore Sfrecola
La “Disfida di Barletta”, com’è definito il torneo che il 13 febbraio 1503 ha opposto 13 cavalieri italiani ad altrettanti francesi, in un tratto di campagna tra Andria e Corato, nei pressi della città di Trani, all’epoca sotto la signoria di Venezia e, pertanto, in campo neutro, è da sempre oggetto dell’interesse degli storici, non solamente di questioni militari, perché ci fa conoscere una realtà che spesso è rimasta in ombra. Quella che nei ”secoli bui”, quando l’Italia era terra di conquista e di scontro tra potenze straniere, c’era chi, pur suddito di qualche principe o re o di un comune, nondimeno si sentiva italiano e rivendicava l’onore di una storia straordinaria, quella di Roma, l’emblema stesso della civiltà occidentale e cristiana. L’evento ha anche interessato una personalità della cultura e della politica risorgimentale, Massimo d’Azeglio che nel 1833 scrive “Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta”, un romanzo storico “per fare l’Italia”, scrive Guido Davico Bonino in apertura della presentazione del volume nell’edizione del 2010.
Era il 15 gennaio 1503, quando, nel corso di un banchetto organizzato da Consalvo da Cordova in una cantina locale (oggi chiamata Cantina della Sfida), Guy de la Motte, capitano francese, contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia. Lo spagnolo Iñigo López de Ayala, invece, li difese con forza, affermando che i soldati che aveva avuto sotto il suo comando potevano essere comparati ai francesi quanto a valore.
E così, come si legge nel “De pugna tredecim equitum”, che in data 28 febbraio 1503, quindi proprio all’indomani della disfida, Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, inviò al suo collega e amico Crisostomo Colonna, riferisce che i francesi, presentati come degli sbruffoni che, per bocca del Signor de la Motte osano “contra Italos… blaterare” definendoli “infidos et perfidos” che “haveano fede di vento e che nessuno si potea fidare di loro”, e, in quanto tali, indegni di essere annoverati tra i cavalieri. Gli italiani rispondono ricordando loro di essere degni eredi dei romani che avevano dominato il mondo e che avevano soggiogato proprio quei Galli dei quali ricordavano anche le consuetudini barbare, dediti com’erano stati a sacrifici umani. Da parte loro i siciliani, che parteciperanno alla disfida, ricordavano di essere discendenti di coloro che, insorti contro l’occupazione francese, li avevano cacciati il lunedì dell’Angelo del 1282, all’ora dei Vespri.
Si decise così di risolvere la disputa con un torneo: la Motte chiese che si sfidassero tredici (in origine dieci) cavalieri. E rifulse il valore degli italiani, la loro capacità di gestire il torneo, di contrastare ed abbattere gli avversari, a cavallo ed a piedi, con la lancia, la spada e l’ascia. Chi li guidava, Ettore Fieramosca, nobile capuano al servizio di Prospero Colonna, serbava il ricordo e lo sdegno per lo scempio che nella sua città avevano operato i francesi, senza pietà per vecchi, donne e bambini, “scelleratezze degne di eterna infamia”, scrive Francesco Guicciardini.
E l’insolenza francese fu castigata dalle spade italiane.
La disfida di Barletta, un episodio che è divenuto presto un evento, dà luogo a varie riflessioni tra le quali mi sembra importante sottolineare come emerga un sincero senso di appartenenza, di italianità in un momento storico particolare, in una Italia nella quale si scontrano eserciti stranieri, in questo caso francesi e spagnoli, per la supremazia di una fetta del territorio italiano, il regno di Napoli. Tuttavia, pur se non si combatte per l’Italia questi uomini hanno il senso forte della italianità, l’onore di tutta l’Italia e si sentivano di dover rivendicare il valore degli eredi di quei romani che “già tutto il mondo domato avevano”.
E se l’Italia da anni era percorsa da eserciti stranieri, i principali responsabili di ciò erano i suoi principi con le loro ambizioni e le loro rivalità. Pertanto viene considerato traditore l’italiano, piemontese di Asti, Graiano, il quale combatte con i francesi. Ora quando Dante dice “ahi serva Italia” è questa condizione che denuncia e questi italiani rivendicano l’onore nei confronti dei barbari che l’avevano invasa e saccheggiata. Questa rivendicazione costituisce il filo conduttore delle appassionate pagine di Guicciardini. L’Italia vi è descritta come un territorio di libertà, i cui abitanti neque jugum neque injurias, nisi vi coacti, ferre queunt. È tutto un elogio della libertà italiana, tanto più significativo in quanto viene attribuito a uno spagnolo, Iñigo López che nella sua replica alle provocazioni di La Motte non aveva mancato di ricordargli che gli italiani nos et vos, et barbaros et mancipia regum dictitant.
Di tale libertà i 13 di Barletta sono i difensori.
Lo ricorda bene Francesco De Santis nel suo volume nel quale, nel 1866, commemorando d’Azeglio a Napoli, nella chiesa di San Francesco da Paola, racconta delle speranze dell’Italia del 1833 e ricorda che correva di mano in mano l’Ettore Fieramosca. “E bevevano a larghi tratti l’orgoglio di quello che fummo e accompagnavamo palpitando alla pugna Ettore e Fanfulla. Ricordo con quanta indegnazione seguivamo i passi di colui, che italiano combatteva contro italiani accanto allo straniero. Ricordo con quale accento dell’anima accompagnavamo le parole di Ettore, quando, gettatolo giù del cavallo, gli diceva: “sii maledetto! o nemico del tuo paese”. E noi raggiungevamo: “Siate maledetti, voi che pregate per la vittoria dello straniero, voi che desiderate lo straniero a casa!”. Ne’ nostri animi c’era il 48, c’era già l’Italia, e noi ne dobbiamo essere grati a quella eletta schiera di cittadini che cospiravano alla faccia del sole col pennello e con la penna”.