di Salvatore Sfrecola

( tratto da: https://www.unsognoitaliano.eu/2020/06/20/il-magistrato-che-entra-in-politica-rinuncia-alla-toga/)

Leggo e rimango allibito. Giusy Bartolozzi, parlamentare di Forza Italia, intervistata da La Stampa, afferma, senza che nessun dubbio la sfiori, che non lascerà la toga di magistrato quando sarà terminato il suo impegno in Parlamento. Ritiene, anzi, che sia un suo diritto: “impedire a un giudice di tornare al proprio lavoro non è costituzionale”, sostiene, e minaccia di ricorrere alla Consulta nel caso le fosse impedito.

Sono allibito per la tracotanza con la quale questa Signora afferma ciò che, agli occhi dei cittadini, appare assolutamente innaturale: che un giudice, il quale si sia dedicato alla politica, pretenda di poter tornare a rivestire quel suo ruolo, una volta cessato l’incarico politico che, sostiene, ha svolto “come tecnico”.

Questa persona non ha il minimo senso di quello che, a mio giudizio e secondo l’opinione prevalente dei cittadini, deve essere la funzione e l’immagine del magistrato al quale la legge attribuisce il ruolo, fondamentale in tutti gli ordinamenti, fin dai più antichi, di garantire a tutti i componenti di una comunità organizzata in stato, la pacifica convivenza attraverso la tutela dei diritti e la punizione delle azioni previste come reato. Questo ruolo, che un tempo veniva definito con enfasi “missione”, esige indipendenza assoluta, soggezione “soltanto alla legge”, come si esprime l’art. 101 della Costituzione. Indipendenza prevista dalla legge, ma garantita soprattutto dalla persona, dalla sua etica professionale. Perché, di fronte ad un magistrato che entra in politica, che si schiera in un partito o a fianco di un partito, secondo l’ipocrita usanza dell’iscrizione in una lista elettorale come “indipendente”, il cittadino può legittimamente avere il dubbio che, nell’esercizio delle sue funzioni di magistrato, sia stato condizionato dalla sua appartenenza politica e dall’aspettativa di una candidatura. Ed è ancor più grave che una persona che ha fatto politica, che si è schierata, torni a fare il magistrato, che passi da una condizione naturalmente “di parte” ad una istituzionalmente “neutrale”.

Sembra così naturale che stupisce che una persona intelligente e colta non lo comprenda. Qui non si tratta di diritti costituzionali, che ogni cittadino ha e che quindi ha anche il magistrato, anche se l’art. 98, comma 3, prevede che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Chi ha orecchie per intendere intenda. È evidente che con la limitazione di iscrizione si vuole tenere fuori dalla politica attiva alcune categorie di pubblici dipendenti titolari di funzioni particolarmente rilevanti e di interesse generale. Per il magistrato, in particolare, si vuole che sia e appaia neutrale agli occhi del cittadino. E non appare indipendente il magistrato che scende in politica, con buona pace dell’On. Bartolozzi la quale sostiene che coloro i quali vogliono escludere il ritorno in magistratura “sognano ancora un magistrato che sta sotto la sua campana di vetro, non ha sue idee, non ha opinioni”. Non è così. Il magistrato, come ogni cittadino ha le sue idee e le sue opinioni ma non deve attuare comportamenti che possano far dubitare che opinioni e idee lo condizionano. E il dubbio viene a chi sa che quel magistrato si vuol candidare o è stato in politica, che partecipa a convegni di partito, che sottoscrive mozioni le quali dimostrano che è schiarato per una parte politica, come ha ricordato Giuseppe Valditara, Ordinario di diritto romano a Torino, nel suo libro “Giudici e legge” (Pagine editore), richiamando i documenti di alcune correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati, in particolare di Magistratura Democratica, che sono autentici proclami di partito. Perché il cittadino non debba preoccuparsi oltre degli orientamenti giurisprudenziali del suo giudice ma anche della sua fede politica che può condizionare, come è stato più volte rilevato, l’interpretazione delle leggi, quella definita “creativa”.

L’On. Bartolozzi attribuisce le tesi contrarie al rientro in magistratura agli effetti della “degenerazione del correntismo”. È vero, ma quella degenerazione non è solo nella “contrattazione” sistematica con i rappresentanti togati del Consiglio Superiore della Magistratura e con esponenti dei partiti, “rivelata”, ma a tutti nota da sempre, dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia, ma nella elaborazione non di indirizzi interpretativi delle norme di legge, sempre utili, ma nella indicazione al legislatore di scelte che sono patrimonio della filosofia politica e morale. Le intercettazioni, in particolare, pubblicate da La Verità hanno dato conto di scelte chiaramente politiche anche nei provati conversari.

Questo aspetto, che attiene all’indipendenza dei magistrati è uno dei passaggi fondamentali di una riforma che il popolo italiano attende perché da coloro i quali decidono in suo nome, come dice la Costituzione, deve pretendere il massimo di indipendenza. Credo sarebbe giusto impedire il passaggio dai Tribunali alle Camere, come conseguenza del fatto che i magistrati non si possono iscrivere a partiti politici, che tradotto in linguaggio comune, significa non devono far politica, ma è certo che tornare indietro deve essere vietato. Si troverà all’ex parlamentare una adeguata posizione all’interno dell’apparato del governo, ad esempio mediante l’inserimento nel ruolo degli Avvocati dello Stato, che hanno lo stesso trattamento economico dei magistrati ma una funzione diversa, quella di difensore del governo nei Tribunali e nelle Corti.