di Salvatore Sfrecola
( tratto da. www.unsognoitaliano.eu)
Ho difficoltà a scrivere della vicenda che in questi giorni tiene banco su alcuni giornali, relativamente ad una polemica che ha seguito la definizione di una terna di candidati a Presidente della Corte dei conti, presentata al Governo, che l’aveva richiesta, da parte del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, organo di autogoverno della magistratura contabile. Ho difficoltà per vari motivi, perché, innanzitutto, tutti coloro che in qualche modo sono coinvolti o esclusi nella scelta del vertice della Corte dei conti, dopo l’elezione di Angelo Buscema a giudice costituzionale, sono da me conosciuti da molti anni, con tutti ho un buon rapporto, con alcuni ottimo, con molti una vera e autentica amicizia. In ogni caso quello che mi lascia in forte imbarazzo è constatare che qualcuno, mi auguro esterno all’Istituto, è ricorso ad un opera di dossieraggio, come si dice, nei confronti di uno dei candidati inserito nel terna, il Presidente della Sezione giurisdizionale del Lazio, Tommaso Miele, in ragione del fatto che nel suo profilo Twitter sono stati rinvenuti alcuni post ingiuriosi nei confronti dell’on. Matteo Renzi. Il tempo, quello dell’infuocata battaglia referendaria del 2016. Sono vecchi di quattro anni e questo ne sottolinea il rinvenimento strumentale. Miele sostiene che non sono suoi, che quelle parole non corrispondono al suo linguaggio, che da magistrato si è sempre tenuto fuori dalla politica. E Miele è uomo d’onore. Ed ha chiesto scusa a Renzi. Ma il danno è fatto. Gli credano o no ne esce compromessa la sua immagine e quella della Corte. È stato colpito perché, in quanto primo della terna, ritenuto probabile destinatario della nomina. Non è così, ovviamente. Tutti, infatti, ricorderanno che, in occasione della nomina del Presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, quando per la prima volta dalla Presidenza del Consiglio giunse a Palazzo Spada la richiesta di una rosa di candidati (in precedenza si chiedeva semplicemente un nome), lo stesso era in quinta posizione e fu lui il nominato.Ho imbarazzo perché, da un lato, credo si debba difendere il ruolo del Consiglio di presidenza anche quando ci pare sbagli. Sicché, come avviene per il Consiglio Superiore della Magistratura, chi ritiene di vantare un interesse o un diritto trascurato o violato si deve rivolgere al Giudice amministrativo. Perché se ritenessimo normale che il Consiglio di Presidenza possa essere contestato a suon di articoli di giornale, spontaneamente formulati da chi osserva dal di fuori le vicende della Corte, o indotti da qualcuno che avrebbe la possibilità di ricorrere nelle forme di legge, noi faremmo un torto alla nostra intelligenza e un danno gravissimo alla Corte dei conti, la quale non può comparire sui giornali come terreno di guerre intestine a base di fascicoli e veline. Ci incammineremo in un percorso pericolosissimo. Infatti, ci sarà sempre qualcuno che dirà che qualche altro, il suo antagonista, avrà ritenuto conforme a legge un atto amministrativo che a lui, invece, sembra viziato sotto vari aspetti, o che qualcun altro abbia assolto chi meritava, a suo giudizio, di essere condannato, o che qualcuno ha archiviato un procedimento che avrebbe dovuto chiudersi con un atto di citazione in giudizio con richiesta di risarcimento dei danni. Io amo profondamente questa Istituzione della quale ho voluto far parte, impegnandomi nello studio delle materie richieste dal difficile concorso in un tempo nel quale, da funzionario amministrativo, ero inserito in una realtà lavorativa particolarmente onerosa a Palazzo Chigi, in diretta collaborazione con vari Presidenti del Consiglio, un impegno che mi ha costretto a studiare spesso con grande difficoltà in orari che altri riservano al sonno ed in giornate che altri dedicano al riposo ed allo svago. Ed ho sempre ritenuto che l’immagine di un magistrato della Corte dei conti sia, in realtà, l’immagine stessa dell’Istituto, e che ognuno che ha rivestito quella toga, debba aver sentito, nel corso del suo impegno professionale, che quando metteva la penna sulla carta per firmare un atto del controllo o della giurisdizione agli occhi dei cittadini lui era la Corte dei conti. Perché sono convinto, anche per l’attività pubblicistica che ho sempre svolto, che oggi l’Istituto, come tutte le istituzioni, è costantemente sotto gli occhi dell’opinione pubblica, e quindi anche della politica, e sarebbe assurdo ritenere che un invito a dedurre, un atto di citazione o una sentenza rimangano nell’ambito del destinatario, del magistrato inquirente o del relatore. Quegli atti, sappiamo, viaggiano tra le riviste giuridiche e le redazioni dei giornali e sono la prova di quello che noi facciamo e di come lo facciamo. L’ho detto più volte da Presidente dell’Associazione Magistrati e lo ripeto: noi facciamo tante cose ogni giorno e se, di cento, novantanove sono buone nessuno ci dice grazie, perché abbiamo fatto il nostro dovere, ma se una, una sola, è sbagliata, ciò che è sempre possibile perché siamo uomini e donne fallibili, e se l’errore è grave allora non è l’immagine del magistrato che ne risente ma della Corte. Un giorno, in una discussione vivace con un mio amico, professore di economia internazionale, dopo una mia perorazione in favore dell’Istituto e del suo ruolo istituzionale con qualche riferimento storico, l’ho visto sorridermi: “tu sei veramente un uomo del Risorgimento”. Sulle prime sono rimasto perplesso perché ho avuto il dubbio che volesse bollarmi come un uomo del passato. No, quel mio amico riconosceva in me chi agisce nel rispetto dei valori della libertà e dell’indipendenza della magistratura definiti nel corso dell’800, dei processi che si tengono a porte aperte, come si legge nello Statuto Albertino, perché la Giustizia appare realmente “uguale per tutti” solo se qualunque cittadino può entrare nell’aula delle udienze di un tribunale o di una Corte ed osservare come pubblici ministeri ed avvocati sostengono le loro ragioni e come i giudici gestiscono il dibattimento, come acquisiscono gli elementi necessari per decidere, consentendo il più ampio confronto delle idee, perché la Giustizia non tollera di essere contingentata, perché l’udienza non deve necessariamente terminare prima dell’ora di pranzo o dell’orario del treno di chi deve rientrare nella città di residenza. E da Presidente della Sezione giurisdizionale del Piemonte, confortato da Colleghi di grande professionalità e alto senso dello Stato, ho più volte chiesto al P.M. e alla difesa di fornire ulteriori chiarimenti “perché il Collegio ne ha esigenza per decidere”. Questo uomo del Risorgimento è orgoglioso di esserlo. Si sente un modestissimo erede di Camillo Benso di Cavour che in una mirabile relazione al Parlamento subalpino nel 1852 aveva detto “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, come si legge sulla base della statua che orna il cortile della Corte in via Baiamonti. E torna spesso alle parole di Quintino Sella, pronunciate nel discorso di insediamento della Corte, il 1° ottobre 1862, con riguardo al “delicatissimo ed arduo incarico” attribuito alla Corte mentre sollecitava i suoi magistrati a “vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge” con obbligo, in caso di accertamento di atto “ad essa contrario”, di “darne contezza al Parlamento”. Immaginate oggi un ministro dell’Economia o un Presidente del Consiglio che viene in Corte e, rivolgendosi ai suoi magistrati, li invita alla massima attenzione nel controllo. Magari qualcuno lo pensa pure, ma certamente non lo dice.E allora, tornando al motivo che mi hai indotto in un giorno di domenica, appena rientrato dalle ferie, a prendere carta e penna e scrivere di questa brutta vicenda che leggo sui giornali, io dico che se in una magistratura i contrasti tra chi mira ad un posto di funzione e chi l’ottiene o potrebbe ottenerlo si trasformano in una lotta senza quartiere, in un killeraggio fatto di dossier e veline, siamo alla fine. E soprattutto vuol dire che qualcuno ha sbagliato mestiere, che non avrebbe dovuto indossare quella toga che io ritengo sacra perché quell’abito identifica l’esercizio di una funzione fondamentale dello stato che, non a caso, all’origine degli ordinamenti generali, era riservata ai sacerdoti, una funzione che garantisce libertà e diritti, nel caso della Corte dei conti al buon uso delle somme che le private economie mettono a disposizione del potere pubblico. Ricordo a tutti che quella famosa frase che spesso ripetiamo “ci sarà pure un giudice a Berlino” non è una di quelle che si ripete perché suona bene. È la verità. Se noi riteniamo che fare il magistrato sia una attività che assicura un buono stipendio e non una professione che impone dei sacrifici di tempo, perché non si possono fare atti quando ci pare o depositare sentenze dopo mesi, se noi riteniamo che sia un sacrificio e non un dovere frequentare solo persone di specchiata onestà che possono essere a noi abbinate senza dover arrossire, allora possiamo fare altri lavori e ce ne sono tanti che consentono ad un brillante laureato in giurisprudenza lauti guadagni. Ricordo, quando ero Procuratore regionale a Perugia e frequentavo Presidente e Procuratore generale della Corte d’appello ci dicevamo spesso, perché invitati a partecipare a cerimonie o ad incontri vari, se fosse opportuno essere presenti perché ci saremmo potuti trovare dinanzi ad un indagato che ci avrebbe messo in imbarazzo. Abbiamo sempre adempiuto con equilibrio questi doveri di presenza, necessari in ragione del ruolo pubblico del Capo di un ufficio. Ricordo, ad esempio che, invitati a tenere conferenze e lezioni, mai abbiamo accettato remunerazioni. Ricordo, infine, che il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che conservava l’orgoglio di aver indossato la toga di giudice, in previsione di una visita in una città dell’Umbria fece chiedere dal Segretariato generale a me se vi erano fra le persone che lui avrebbe potuto incontrare soggetti indagati o condannati dalla Corte dei conti. Feci presente che alcuni amministratori pubblici erano stati citati in giudizio e li indicai. Seppi poi che il Presidente quelle persone non aveva voluto riceverle.