di Daniele Capezzone

(dal sito: www.atlanticoquotidiano.it)

Ci sono monarchie che sanno creare unità e appartenenza molto più delle repubbliche dei partiti, delle istituzioni monopolizzate da uomini di fazione

Da giovane, in modo automatico e quasi inintenzionale, tendevo a immaginare le monarchie (tutte le monarchie) come fenomeni fuori dalla storia, impensabili, retaggi del passato. Ma come: un sovrano per diritto familiare e di sangue?

Certo, da anglofilo convinto, sapevo bene come alcune monarchie fossero state capaci di aiutare il loro paese a resistere agli incubi del Novecento. Eppure, la sensazione di stravaganza (la regina, i principi, il protocollo, eccetera) rimaneva.

Con il passare del tempo, il dubbio ha preso il posto delle certezze. Guardate il matrimonio che ci sarà oggi in Inghilterra, le immagini di una coppia di giovani (e anche un’altra coppia: il fratello maggiore e sua moglie, con i loro bimbi), un paese che vive una giornata di festa, di fiaba, di sorriso.

Non sono esattamente nelle mie corde le propensioni “politically correct” e le conversazioni radiofoniche con Barack Obama del principe Harry. Ma l’idea che un membro della famiglia reale inglese sposi una divorziata americana, che non abbia avuto paura di parlare del suo disagio esistenziale dopo la morte della madre, che ora si faccia carico anche dei problemi di salute mentale di veterani e vecchi soldati (perché le ferite non sono solo quelle fisiche…) mostra plasticamente che la monarchia può essere – nello stesso tempo – un bastione della tradizione e un elemento di modernizzazione, accompagnando dolcemente le trasformazioni della società, incoraggiandole e insieme rispecchiandole.

Ovvio che in politica a decidere sia il Parlamento, in base al voto dei cittadini. Dalla Magna Charta in poi, i britannici hanno spiegato al mondo cosa siano le istituzioni rappresentative e quanto sia sana la limitazione del potere. Ma è significativo che, al di là della contesa politica, ci sia un punto (un luogo “simbolico”) capace davvero di esprimere unità, senso di appartenenza e condivisione. Molto più di quanto possano farlo le repubbliche dei partiti, o cariche istituzionali monopolizzate da uomini di fazione, che difficilmente – nonostante la “grazia di stato” – possono essere o apparire o diventare del tutto “terzi”.

E’ evidente che il Regno Unito ha una storia del tutto peculiare, ben diversa da altre monarchie e altre case reali. Ma sarebbe il caso di discutere laicamente anche di questi temi, senza anatemi, senza pregiudizi, senza schemini precostituiti. La storia umana è complessa: perché precludersi la sfida intellettuale di ammirare nel mondo anche architetture istituzionali diverse, e magari imparare qualcosa?

CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA: ISTITUITO IL PREMIO SPANO' DI REGGIO CALABRIA

 

L'Unione Monarchica Italiana, per volontà e con il contributo della Famiglia Spanò di Reggio Calabria, istituisce il "Premio Spanò di Reggio Calabria", per la migliore tesi di laurea su il ruolo di Casa Savoia nel Primo Conflitto Mondiale (1914-1918). Al Premio possono concorrere i laureandi di qualsiasi Facoltà Universitaria italiana o straniera che conseguano la laurea entro il 31 ottobre 2018.Apposita Commissione valuterà le tesi concorrenti e designerà la migliore. Tutte le tesi concorrenti saranno conservate nella Biblioteca  dell'U.M.I. e saranno menzionate in apposita pubblicazione.

La Segreteria è a disposizione per qualsiasi informazione.

Ecco il bando del "Premio Spanò di Reggio Calabria":

 

D'intesa con la Famiglia Spanò di Reggio Calabria, ispirata da alto senso civico e da spirito mecenatico, l'Unione Monarchica Italiana emana il seguente bando:

Art. 1
E'  stanziata la somma di  mille euro per la miglior tesi di laurea approvata nelle Università sul tema:
IL RUOLO DI CASA SAVOIA
NEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE (1914-1918)

Art. 2
Possono concorrere gli autori di tesi di laurea magistrale (al temine del corso quinquennale) di qualsiasi Facoltà universitaria pubblica o privata sul tema indicato, discusse entro il 31 ottobre 2017.

 Art.3

I candidati al premio debbono far pervenire il testo per posta elettronica e copia cartacea alla sede dell'Unione Monarchica Italiana (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.  - via Riccardo Grazioli Lante 15/A 00195 Roma) entro e non oltre il 9 novembre 2017, accompagnandolo con attestato di conseguita laurea.
Le copie cartacee non saranno restituite ai mittenti, quale sia l'esito del bando. Esse verranno conservate nella Biblioteca dell'U.M.I. e verranno menzionate in apposito Notiziario.

 

Art. 4
L'esame dei lavori è affidato a una Commissione formata dal Presidente dell'U.M.I. o suo delegato, dal Presidente della Consulta dei Senatori del Regno o suo delegato, da uno studioso di chiara fama concordato dai predetti.

 

Art. 5
Entro il 30 novembre 2017 la Commissione designa il vincitore e comunica l'esito all'interessato. 

 

Art.6
La premiazione ha luogo entro il 31 dicembre 2017. Il vincitore è tenuto a partecipare a proprio carico alla premiazione, pena la decadenza.  In tal caso il premio viene ribadito per l'anno 2018 con identiche modalità.                          

Roma, 30 gennaio 2017 

del Prof. Salvatore Sfrecola

Riprende questa mattina il confronto tra Lega e Movimento 5 Stelle per individuare i termini della piattaforma programmatica, il contratto “alla tedesca”, come lo chiama Luigi Di Maio. L’ottimismo domina nelle parole dei due leader che s’incontrano al Pirellone, mentre le delegazioni continuano a valutare, punto dopo punto, la compatibilità dei “temi” suscettibili di entrare a far parte del programma di governo.

Intanto, tra i giornalisti a caccia di “indiscrezioni” prende corpo il “toto ministri”, quell’esercizio di fantasia con il quale, ad ogni cambio di governo, sulla stampa si cerca di immaginare coloro che, per vicinanza ai capi dei partiti o perché tecnici “di area”, potrebbero essere scelti per dirigere uno dei ministeri che formeranno l’esecutivo.

Contemporaneamente prende corpo con insistenza una ipotesi del tutto nuova, quella che vorrebbe i partiti alla ricerca di un Presidente del Consiglio “terzo”, cioè al di fuori dei partiti, forse anche al di fuori della politica. Se ne parla da qualche giorno, ma il discorso con il quale ieri, a Dogliani, Sergio Mattarella ha ricordato Luigi Einaudi, il primo Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, sottolineando come non avesse svolto la funzione in termini esclusivamente “notarili”, fa scrivere oggi a tutti i giornali che l’attuale inquilino del Quirinale intende ispirarsi al suo predecessore. E scegliere lui il premier, magari tra una rosa indicata da Lega e M5S.

Riprende, così, corpo il “toto premier”, nel quale campeggiano nomi noti più che al grosso pubblico agli addetti ai lavori. Come quello di Giampiero Massolo, ex ambasciatore e Segretario generale della Farnesina con Gianfranco Fini, Direttore del Dipartimento delle informazioni sulla sicurezza, oggi Presidente di Fincantieri, molto stimato negli ambienti politici italiani e internazionali, o di Giacinto della Cananea, il docente di diritto amministrativo vicino a Sabino Cassese al quale Di Maio aveva commissionato una sorta di verifica di compatibilità tra i programmi di Lega M5S, altro nome ricorrente nelle ipotesi giornalistiche. Ma non tramonta neppure il nome di Elisabetta Belloni (classe 1958), ambasciatore e Segretario generale del Ministero degli esteri dove ha ricoperto incarichi di prestigio, come Capo dell’Unità di Crisi, Direttore generale della cooperazione allo sviluppo e Capo di Gabinetto del Ministro Paolo Gentiloni. Anche a suo favore, oltre la caratura personale e il garbo che la contraddistingue, giova la stima di cui gode negli ambienti internazionali. E sappiamo quanto delicato sia il dossier Europa per Mattarella.

La lista dei “possibili” premier secondo la fantasia del giornalista che ne scrive o ne parla è lunga e comprende altri Grand Commis d’Etat, da Carlo Cottarelli, già direttore del Dipartimento affari fiscali del Fondo Monetario Internazionale, volonteroso ma inascoltato Commissario alla revisione della spesa, a Enrico Giovannini, economista, professore ordinario di statistica a “La Sapienza”, Chief Statistician dell’OCSE dal 2001 al 2009, già Presidente dell’ISTAT e Ministro del lavoro nel Governo di Mario Monti.

Sennonché l’ipotesi di attribuire la Presidenza del Consiglio ad personalità non politica o di scarsa caratura politica appare una immane sciocchezza costituzionale, una di quelle per le quali, in un esame di diritto pubblico, lo studente non otterrebbe neppure un misero diciotto. Infatti, ai sensi dell’art. 95 della Costituzione, “il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Una limpida definizione costituzionale che individua nel Presidente del Consiglio il motore del governo che dirige e del quale assume la responsabilità politica dinanzi al Parlamento, una funzione essenziale soprattutto in un governo di coalizione nel quale fondamentale è preservare l’accordo intervenuto tra i partiti. Per cui si richiede a Palazzo Chigi una personalità forte ed autorevole, come dimostra la storia costituzionale italiana nella quale i governi si ricordano proprio con il nome del Presidente del Consiglio, da Camillo di Cavour ad Alcide De Gasperi, da Giovanni Giolitti a Giulio Andreotti a Ciriaco De Mita il quale ha firmato la legge 23 agosto 1988, n. 400 che, per la prima volta, ha definito l’ordinamento della Presidenza del Consiglio e le attribuzioni del Presidente e del Consiglio dei Ministri.

Ha così trovato compiuta attuazione la previsione costituzionale secondo la quale al Presidente del Consiglio spetta un potere di indirizzo non esposto alla interferenza da parte di altri organi, nemmeno da parte dello stesso Parlamento il quale solo per mezzo della legge potrebbe sostituirsi al vertice dell’esecutivo nell’indirizzo e coordinamento delle attività che vi fanno capo e degli apparati che vi sono preposti. D’altra parte, nella fase di formazione del Governo, a lui spetta l’indicazione dei ministri che, ai sensi dell’art. 92, comma 2, della Costituzione saranno nominati dal Presidente della Repubblica. Il Presidente dunque ha una posizione differenziata nell’ambito del Governo, anche se non di assoluta supremazia. A lui spetta la formulazione dell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri e, quindi, l’iniziativa delle deliberazioni collegiali, il loro coordinamento, la loro attuazione. E, naturalmente, l’iniziativa sulle numerosissime nomine di spettanza del Governo, negli enti pubblici e nelle supreme magistrature amministrativa e contabile, Consiglio di Stato e Corte dei conti.

Infine a livello internazionale, a cominciare dall’Unione Europea, molte assise, dove si decidono importanti strategie economico finanziarie e del commercio tra gli stati, come dimostrano gli eventi di questi giorni con le iniziative del Presidente USA, Donald Trump, vedono come protagonisti i capi dei governi quali garanti degli accordi. Tipico il Consiglio d’Europa che è in qualche modo il motore dell’Unione.

Partirebbe, dunque, azzoppato il governo se il ruolo di Presidente del Consiglio fosse assegnato ad una personalità minore sul piano politico, ancorché illustre per la sua esperienza amministrativa o universitaria. Se questa fosse la decisione dei partiti che compongono il governo sarebbe una scelta infausta, capace di depotenziare il ruolo del Capo del governo e sostanzialmente dello stesso Esecutivo esposto alle iniziative di singoli ministri al ricerca di una visibilità in ragione del loro ruolo nel partito di appartenenza.

Probabilmente quella del Presidente “terzo” è una idea nata nelle redazioni dei giornali e nei conversari nelle anticamere dei partiti, lì dove si discute della formazione del nuovo governo e della evidente difficoltà di individuare una personalità che possa coordinare l’azione di un Governo nel quale siedono, in funzione di ministri, due capi di partito, Luigi di Maio e Matteo Salvini, che, come si dice, hanno “messo la faccia” in una competizione elettorale che ha attribuito loro l’etichetta, rispettivamente, di leader del primo partito e della prima coalizione.

Se ne parlerà ancora tra oggi e domani, ma immagino che l’idea della personalità terza lascerà presto il posto nel dibattito politico alla individuazione di un autorevole esponente di uno dei partiti che compongono il Governo ai quali dovrà essere affidato, per esperienza o per capacità di indirizzo e di coordinamento, il delicato ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri che dovrà assicurare il massimo impegno nell’attuazione dell’accordo che ha consentito la nascita dell’Esecutivo.

E non è neppure da escludere che sulla indicazione del premier si manifestino contrasti con il Quirinale, magari in relazione alle preoccupazioni che, si dice, agiterebbero i sonni del Presidente per le prossime scadenze europee nell’ambito delle quali la partecipazione dei nostri “euroscettici” potrebbe costituire una nota dissonante. Mentre dietro le quinte c’è chi non dispera si possa tornare alle urne presto, magari dopo un governo “di transizione” o “del presidente”, tenendo conto del ragionevole desiderio di Silvio Berlusconi di tornare in Parlamento dopo la riabilitazione decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano.

( da www.unsognoitaliano.it del 13 maggio 2018)

del Prof. Salvatore Sfrecola

tratto dal sito: www.unsognoitaliano.it

Il “rito” delle consultazioni per la formazione del nuovo governo dopo le elezioni del 4 marzo 2018, che si svolgono al Quirinale, l’antica residenza dei Papi, poi dei Re d’Italia ed oggi del Presidente della Repubblica, è seguita dagli italiani con crescente preoccupazione attraverso i commenti dei giornali e dei servizi televisivi arricchiti dalle dichiarazioni, spesso polemiche, non di rado al limite dell’insulto, dei politici che a quegli incontri partecipano. Ed a molti è parso che questa attività, la quale si dipana tra il Colle più alto, Palazzo Madama e Palazzo Montecitorio, dove i Presidenti del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e della Camera dei deputati, Roberto Fico, hanno, a loro volta, svolto le consultazioni complementari richieste dal Presidente Sergio Mattarella, sia una consuetudine recente, espressione della “democrazia repubblicana”.

Non è così. Se l’insegnamento della storia non fosse, come sappiamo, praticamente uscito dai programmi scolastici, come quello dell’Educazione civica, forse ai giovani italiani sarebbero forniti elementi di una qualche cultura politica necessaria per essere buoni cittadini. Ricordo bene episodi di valutazione dell’offerta politica, come si direbbe oggi, in tempi in cui al Quirinale sedeva re Vittorio Emanuele III, ma ho voluto “ripassare” le regole della “democrazia parlamentare” rileggendo in questi giorni “Il Diritto Pubblico Italiano”, un bel libro del Professore Santi Romano, uno dei grandi del Diritto Pubblico, colui al quale si deve la formulazione della teoria dell’“ordinamento giuridico”, come sanno bene i giuristi. Inedito, scritto tra il 1913 ed il 1914 perché fosse pubblicato in Germania su invito di Max Huber con il titolo Staatsrecht Königsreichs Italien, il dattiloscritto, rimasto nel cassetto fino a alla sua pubblicazione, nel 1988, dall’editore Giuffrè, il volume ci offre una straordinaria ricostruzione del Diritto costituzionale del Regno d’Italia. Dove le consultazioni, che hanno dato lo spunto a queste riflessioni comparate tra Regno e Repubblica, si facevano da parte del Re che interpellava personalità politiche ed esponenti dei partiti alla ricerca di una maggioranza che sostenesse il governo “parlamentare”. “Il che implica – scrive Romano – che, date le attribuzioni che ai ministri sono dal nostro diritto deferite, specialmente quella di coordinare con la Corona e tra di loro tutti gli altri organi dello Stato, il Gabinetto è in grado di raggiungere questo suo scopo solo quando sia in armonia ed ha la fiducia degli altri organi costituzionali, e quindi, oltre che del Re, anche del Parlamento. Il Re, per conseguenza, nel procedere alla sua costituzione, deve tener conto della necessità di questo accordo fra le Camere e i ministri, e, ove questo accordo in seguito venga a mancare, occorre che il Gabinetto si ritiri, a meno che non sia possibile o preferibile eliminare il conflitto altrimenti, specie sciogliendo la Camera dei deputati”. Ricordo che essendo elettiva solamente la Camera esclusivamente ad essa spettava concedere la fiducia al Governo. Il Senato, infatti, era di nomina regia.

Sottolinea Romano le caratteristiche dello Stato italiano “monarchico e, nello stesso tempo, democratico (democrazia rappresentativa)”, come recita l’art. 2 della Carta costituzionale del Regno, lo Statuto Albertino (“Lo Stato è retto da un Governo monarchico rappresentativo”). Uno Statuto tutto da rileggere per ritrovare in quella esperienza costituzionale le ragioni di molte regole della vigente Carta fondamentale.

Delle consultazioni del Re, sempre alla ricerca di armonia e fiducia tra le forze politiche perché fosse dato un Governo all’Italia, se ne ricordano alcune particolari. All’indomani dell’assassinio del padre, Umberto I, quando il nuovo Re, Vittorio Emanuele III, ricercò con successo una difficile soluzione che impedisse il prevalere di pulsioni autoritarie che, con l’intento di colpire i nuclei anarchici nell’ambito dei quali era maturato l’attentato, volevano comprimere i diritti dei lavoratori e il crescente successo dei socialisti. Scrive Fédérc Le Moal in un bel libro di recente dedicato al Re (“Vittorio Emanuele III”, Ley Edition) che il giovane sovrano aveva “compreso le condizioni socio politiche che hanno portato al regicidio e deve aver tratto le sue conclusioni. La perennità dell’istituzione monarchica gli impone di accettare la democratizzazione della società”. E fu il decennio delle riforme guidate da Giovanni Giolitti che posero l’Italia all’avanguardia in Europa. Poi durante la Grande Guerra il Re aveva dovuto mediare nel ricostituire governi dopo i contrasti tra la classe politica ed i generali che dal fronte premevano per disporre di nuove risorse per gli armamenti. Né va trascurato che nel 1922 il Re si spese invano per ottenere dai popolari di Luigi Sturzo, dai socialisti di Filippo Turati e dai liberali diGiovanni Giolitti un impegno per affrontare la crisi economica e sociale del dopoguerra che stava incendiando l’Italia, soprattutto al Nord e in alcune aree del Centro, tra “rossi” e fascisti. In un contesto nel quale, come si legge in un bel libro di Domenico Fisichella, da poco in libreria, “Ascesa e declino dell’unità d’Italia” (Pagine Editore), forte era la preoccupazione per l’affermarsi dell’ideologia comunista tra il 1918 e il 1922, allorché il bolscevismo coltiva l’esplicito proposito di sviluppare una rivoluzione mondiale che prenda le mosse dall’oriente dal mondo coloniale in nome dell’autodeterminazione dei popoli e della lotta contro l’oppressione imperiale (e imperialista) delle potenze occidentali. “L’Italia è tra le nazioni toccate dal problema, ed è fortemente esposta al rischio del contagio. Come tutti i paesi usciti dalla guerra nel 1918, si avverte il peso dei costi umani e sociali, che il problema del reinserimento nel lavoro dei reduci dal fronte, la spesa pubblica si è sopra caricata, alta e l’aspettativa del ritorno a una vita normale e all’ordine”.

Fisichella ricorda lo stato di irrequietezza sociale che sfocia in agitazione di massa, scioperi indiscriminati nel settore della produzione industriale agricola e dei servizi pubblici, occupazione di fabbriche, con un potenziale offensivo particolarmente violento nelle campagne, con l’occupazione di terre, incendi nei fienili, distruzione dei raccolti, uccisione di bestiame, saccheggi, blocchi stradali, violenze ai proprietari e ai fittavoli. Inoltre, molteplici sono le aggressioni a ufficiali militari reduci dalle trincee, giudicati colpevoli di aver combattuto una guerra “ antipopolare””. E fu il Governo Mussolini votato da quei partiti che non avevano voluto assumersi in prima persona la responsabilità dell’Esecutivo.

Difficili molto spesso, quelle consultazioni nondimeno costituiscono un’importante occasione di riflessione storica e costituzionale e di confronto con la situazione attuale che mette anche a confronto la figura ed il ruolo del Re e del Presidente della Repubblica. Indagine e riflessione con l’apporto della rilettura di un celebre scritto di Luigi Einaudi, del 24 maggio 1946, per L’Opinione, nel quale il celebre economista, che sarà il primo Presidente della Repubblica, spiegava le ragioni per le quali al referendum del 2 giugno avrebbe votato per la Monarchia. Una riflessione importante, solo apparentemente occasionata dalla campagna referendaria tanto che quell’articolo è riportato integralmente nel ricordato libro diDomenico Fisichella.

La prosa di Einaudi come sempre si sviluppa sulla base di considerazioni che poggiano su analisi arricchite da importanti riferimenti di carattere storico. Utili anche per quanti, a giorni alterni, richiamano i “vantaggi” della repubblica presidenziale o semi presidenziale. Alla francese, per intenderci. Scrive Einaudi: “neanche la elezione del Capo dello Stato da parte del suffragio universale diretto e segreto col sistema della repubblica presidenziale, è garanzia di libertà”. Concludendo che “deve esistere un capo di Stato, il quale tragga ragioni di vita da una fonte diversa dalla elezione. Questa fonte è una forza storica, costituita da tradizioni, da opere compiute in passato attraverso secoli di lotte e che non possono essere distrutte da errori commessi in un tempo recente che è un attimo nella vita dei popoli. Noi non possiamo dimenticare che il Piemonte e la Casa Savoia con la lotta secolare avevano respinto, da un lato, sino al Ticino, spagnoli e tedeschi e dall’altro, sino alle Alpi, i francesi, … Noi non possiamo dimenticare che fu così foggiata quella spada, furono fondati e agguerriti quei reggimenti senza di cui la idea dell’unità d’Italia sarebbe rimasta vana aspirazione di pensatori e di poeti. Il patrimonio delle tradizioni e delle glorie avite è patrimonio di tutti, che dobbiamo trasmettere intatto ai figli e ai nepoti. Lo dobbiamo trasmettere cresciuto e rinnovato. La monarchia, forza storica, potere posto al di sopra delle parti, deve diventare quell’istituto di cui in Inghilterra si dice che non se ne parla mai”.

Al di sopra della parti, garante “dell’organizzazione dello Stato”, scriveRomano, “mantenuta dal Re, che partecipa a tutti e tre i poteri” (legislativo, esecutivo, giudiziario). Primus inter pares, che tuttavia non può esercitare alcuna attribuzione senza il concorso di altro organo dello Stato, normalmente di un ministro (art. 67 dello Statuto). È la controfirma ministeriale.

Al di sopra delle parti anche il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione repubblicana, laddove al comma 1 è scritto che “rappresenta l’unità nazionale”. Ma si può effettivamente considerare al di sopra delle parti una personalità che perviene al più alto seggio della Repubblica avendo alle spalle un cursus honorum che lo ha visto protagonista della vita politica, schierato in un partito, una fazione che si alimenta di specifici valori spirituali e civili non condivisi da altri. In contrapposizione, anche vivace, sui temi più vari, quanto ai diritti individuali e sociali?

Come vedono i cittadini il politico impegnato che improvvisamente, eletto Capo dello Stato dovrebbe dimenticare i tratti più duri della sua esperienza politica per essere “al di sopra delle parti”? È lecito il dubbio che quella personalità politica mantenga integra nel suo cuore i motivi della sua battaglia in Parlamento e nel Paese e che nelle decisioni che è chiamato ad assumere come Capo dello Stato sia comunque condizionato dalle sue idee politiche, dai valori ai quali ha dedicato il suo impegno in tanti anni di militanza in un partito. Penso alla nomina dei cinque Giudici della Corte costituzionale, ben un terzo del plenum del Collegio che ha il compito di giudicare della conformità delle leggi alla Carta fondamentale. In gran parte si tratta di leggi promulgate dal Capo dello Stato.

Il dubbio è lecito, inevitabile la diffidenza. Quel Capo dello Stato che “rappresenta l’unità nazionale” per molti sarà sempre l’avversario politico in tante occasioni contrastato e contestato. Anche quando la scelta cade su una personalità di quelle che si ritengono un po’ sbiadite, scelte soprattutto per assicurare un compromesso, per favorire la convergenza dei partiti. Con il dubbio, in questo caso, che il personaggio sul Colle sia facilmente condizionabile, che quello che si è presentato come un Presidente di poco spessore si riveli, poi, quanto meno imprevedibile. Che, impegnato in un compito spesso definito “notarile”, in realtà sia un personaggio inaffidabile.

Con molta ipocrisia, italico more, di tutti i Presidenti, finché in carica, si dice sempre un gran bene. Si racconta, ad esempio, di Mario Missiroli, giornalista illustre, il quale incontrando, subito dopo le votazioni, un Presidente appena eletto gli si era fatto incontro dicendo “Eccellenza siamo nelle sue mani” per continuare, quando il personaggio aveva girato l’angolo, “in che mani siamo!”

La differenza fondamentale tra un presidente della Repubblica ed un re balza subito agli occhi. Il primo viene necessariamente dalla politica, spesso con una rilevante esperienza di partito e di governo. È quindi un uomo naturalmente “di parte” e ci si attende che impari a divenire immediatamente super partes. Del re si sa che lo è naturalmente perché non deve altro che alla storia il suo ruolo, che continuerà con il suo successore. È l’anima di un popolo.

Lo hanno capito anche i partiti all’indomani del controverso referendum del 2 giugno 1946 scegliendo prima un presidente provvisorio nella persona di Enrico de Nicola e quindi il primo presidente eletto in Luigi Einaudi, entrambi di fede monarchica e Senatori del Regno, capaci di esprimere il massimo della indipendenza e dell’autonomia in ragione della loro cultura istituzionale. Si sono comportati come sapevano si sarebbe comportato un Re.

Poi la storia della Presidenza della Repubblica si è dipanata con la elezione di personaggi caratterizzati da una specifica e ben evidente impostazione politica che, anche quando si è manifestata con modalità ampiamente apprezzate dai cittadini, come nel caso di Sandro Pertini, non hanno dato dimostrazione di estraneità alla parte politica di provenienza e nella quale erano politicamente cresciuti. D’altra parte è inevitabile che la cultura politica praticata per tanti anni in posizione di responsabilità non possa essere occultata e traspaia anche solo di tanto in tanto nei comportamenti dei presidenti. Ed è naturale che i partiti che sono lontani dalla cultura politica di provenienza del Capo dello Stato lo guardino con un atteggiamento, se non di sospetto, certamente guardingo.

Da ultimo Giorgio Napolitano, immediato predecessore di Sergio Mattarella,ha dato ampia manifestazione di essere uomo di parte tra l’altro sposando apertamente la riforma costituzionale del governo Renzi, difesa a spada tratta anche durante la campagna referendaria, giungendo perfino a sostenere che la bocciatura della riforma avrebbe rappresentato il disconoscimento anche della sua eredità. Quello stesso presidente che, di fronte ad una sentenza della Corte costituzionale, la n. 1 del 2014, la quale aveva dichiarato contraria alla Carta fondamentale la legge elettorale sulla base della quale il Parlamento era stato eletto, invece di presidiare la pronuncia della Consulta e richiedere al Governo e al Parlamento di mantenersi nell’ambito di una minima attività in attesa di una nuova legge elettorale per tornare alle urne, ha lasciato che la legislatura si svolgesse pienamente e il Parlamento delegittimato non solo continuasse a fare riforme su riforme ma approvasse addirittura una legge di revisione di gran parte della Costituzione.

Domani avrà luogo una nuova consultazione dei partiti. Brevissima, di una sola giornata. In un clima di crescente preoccupazione degli italiani i quali sentono dire nei dibattiti televisivi e leggono sui giornali che il Presidente non sarebbe favorevole ad un governo di Matteo Salvini per le critiche mosse all’Unione Europea. Voci, ovviamente, ma non smentite. Quelle che passano come “negli ambienti del Quirinale si dice che”. Posizioni che sembra non tengano conto di un voto che ha premiato quanti, nel corso della precedente legislatura, si sono opposti al governo diMatteo Renzi attribuendo un numero rilevante di parlamentari al Movimento Cinque Stelle ed alla coalizione di Centrodestra, questa, tra l’altro, ulteriormente premiata nelle elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali del Molise e del Friuli-Venezia Giulia. Voci che destano, almeno, sconcerto.

6 maggio 2018

 

 

del Prof. Salvatore Sfrecola

tratto dal sito: www.unsognoitaliano.it

Non è raro che nella analisi dei fatti della politica vengano confusi cause ed effetti. E così, a proposito della rappresentazione che, alla ricerca di una maggioranza di governo, in questi giorni i partiti offrono ai cittadini Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della Sera del 28 aprile (“I veri poteri forti. Stereotipi (e bugie) sull’Italia di oggi”) fa intendere che la situazione di stallo sia dovuta all’assenza, nelle consultazioni, delle delegazioni dei “poteri forti”, che indentifica nei vertici delle magistratura (ordinaria, amministrativa, costituzionale) e nella dirigenza amministrativa.

Lettore attento e, il più delle volte ammirato del politologo bolognese, non solo per quel che scrive sul Corriere ma anche per i suoi saggi, stavolta non concordo. Non condivido, in particolare, la tesi che “gli orientamenti di queste tecnostrutture statali sono cruciali”. Nel senso che, secondo Panebianco, “può anche formarsi un governo senza la loro benedizione ma in tal caso la sua navigazione sarà inevitabilmente agitata e precaria, e i suoi esponenti saranno costantemente a rischio di decapitazione politica”.

Già in queste frasi è evidente che quei poteri sono “forti” esclusivamente perché la politica è debole. Per una elementare constatazione, comune a quanti sanno di diritto. Sono i partiti che, in Parlamento e al Governo, scrivono le regole dell’amministrazione e della giustizia, i settori nei quali il Paese offre il peggio si sé, una burocrazia asfissiante e inefficiente, un fisco rapace, la mancanza di certezza delle regole. Tutto ciò che sconsiglia ad investire in Italia, tanto gli italiani quanto gli stranieri. Entrambi, infatti, trovano migliori occasioni di lavoro a pochi chilometri di distanza dai nostri contini, in quella Europa che avrebbe dovuto assicurare a tutti lo stesso fisco e gli stessi oneri di lavoro.

Mi sembra sufficiente per affermare che la politica è venuta meno al proprio ruolo che è quello di presentare ai cittadini una proposta di governo che, se condivisa dal corpo elettorale, diventa indirizzo politico dell’esecutivo. Se non si passa dalla promessa alla realizzazione ciò non può essere addebitato al “poteri forti”, amministrativi o giudiziari. Ciò è avvenuto, scrive Panebianco, quando “con la fine della Guerra fredda finì anche l’era del predominio dei partiti sulla vita pubblica”.

Troppo semplice. In realtà, fino a “mani pulite”, l’inchiesta sulla corruzione che da Milano ha decapitato i partiti che fino ad allora avevano gestito il potere in assoluta condivisione, chi dal governo chi dall’opposizione, la politica della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati aveva seguito l’onda benefica dell’impegno pressante nella ricostruzione post bellica affidata alla Pubblica Amministrazione e alle società a partecipazione statale. L’Italia, distrutta dalla guerra, è stata rimessa in piedi da una struttura pubblica della quale oggi pochi ricordano il nome “il genio civile”, mentre gli enti pubblici economici, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (I.R.I.) l’Ente Nazionale Idrocarburi (E.N.I.), l’Ente partecipazione e finanziamento industria manifatturiera (E.FI.M) e la Cassa per i Mezzogiorno realizzavano le grandi infrastrutture e assicuravano migliaia di posti di lavoro. Quel potere politico forte fu definito “partitocrazia” da Giuseppe Maranini perché occupava ogni poltrona, distribuendo il potere tra i partiti e le correnti dei partiti con la regola ferrea del “manuale Cencelli” basata sulla misura del consenso elettorale. I “boiardi” di Stato, come venivano definiti i dirigenti degli enti pubblici e delle società a partecipazione statale, facevano riferimento ai capi delle correnti delle quali alimentavano le casse, per finanziare giornali, organizzare i convegni con i quali ci si collegava alle categorie della cultura e del lavoro ed i congressi nei quali, il più delle volte, prevaleva chi disponeva delle risorse necessarie per comprare un numero adeguato di tessere.

Il denaro proveniva dalle imprese che, adeguatamente aiutate a prevalere nelle gare di appalto, si aggiudicavano lavori e forniture per molti miliardi (di lire). Il 3 luglio 1992, nel bel mezzo delle inchieste della Procura della Repubblica di Milano, Bettino Craxi, parlando alla Camera dei deputati, fu implacabile: “tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”. Il finanziamento dei partiti e delle strutture andava avanti così da anni. Ma va anche detto che le opere si facevano e il PIL cresceva.

Caduti i capi storici della partitocrazia, AndreottiForlani, e gli altri “cavalli di razza” della D.C. e non solo, sono giunti al potere quelli delle seconde e terze file, gente modesta con scarsa esperienza della politica e dell’amministrazione che ha cercato soprattutto a tirare a campare, a sopravvivere dimenticando l’insegnamento di De Gasperi, secondo il quale “la differenza fra un politico ed uno statista sta nel fatto che un politico pensa alle prossime elezioni mentre lo statista pensa alle prossime generazioni”.

E così, in assenza assoluta di statisti degni di questo nome, la politica “debole” ha cominciato a smantellare quello che poteva apparire un potere “forte”, la Pubblica Amministrazione, dimostrando, fra l’altro, di ignorare che le realizzazioni dei governi passano attraverso la capacità degli uffici dell’Amministrazione pubblica di realizzare il programma di governo. Si è così operato su un doppio binario, quello della disarticolazione delle strutture amministrative, secondo la tradizionale regola del “divide et impera”, attraverso la moltiplicazione degli uffici e dei posti di funzione, molti dei quali sono stati assegnati, sulla base dello spoyl sistem ad estranei di provata fede politica ma, il più delle volte, di modesta preparazione professionale spesso senza alcuna esperienza. Con la conseguenza che la politica ha finito per alienarsi la simpatia dei funzionari vincitori di concorso i quali hanno visto frustrate le loro aspettative di carriera per cui, mortificati nella loro dignità di servitori dello Stato, hanno risposto nell’unico modo per loro possibile, con l’inefficienza. Nella maggior parte dei casi riducendo l’entusiasmo nell’esecuzione del lavoro.

Analoga situazione si è verificata nelle magistrature, soprattutto amministrativa e contabile, cioè la Corte dei conti (dimenticata da Panebianco) i cui vertici sono stati falcidiati dalla normativa che ha ridotto i limiti di età. Renzi lo ha fatto ritenendo (o essendogli stato fatto ritenere) che così avrebbe fatto un piacere ai più giovani, anche per aver escluso dai ruoli di grand commis d’Etatcoloro che avevano consentito ai Presidenti del Consiglio ed ai ministri di avvalersi di loro come Capi di Gabinetto, e degli Uffici legislativi o consiglieri giuridici. Funzione che so controversa ma che, se attribuita a personalità con alto senso dello Stato, non ha mai fatto confusione sui diversi ruoli ma favoriva buona amministrazione e buona legislazione. Ricordo che, da giovane funzionario, prestai servizio nel 1979 alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il cui Ufficio legislativo (oggi Dipartimento per gli affari giuridico e legislativi – DAGL) era retto da Giuseppe Potenza, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, chiamato con timoroso rispetto “il legislatore”, autore, insieme a Guido Landi, di quel Manuale di Diritto Amministrativo sul quale si sono formati migliaia di pubblici funzionari e magistrati.

Allo sbaraglio, come ha dimostrato massimamente il Governo di Matteo Renzi formato da politici di scarsa o nessuna esperienza e preparazione professionale che si è dilettato nel fare la guerra a funzionari e magistrati, il governo è nel guado e non c’è dubbio che a lungo vi rimarrà perché gli errori si pagano nel tempo, come quelle derivanti dalle “leggi Bassanini”, delle quali lo stesso autore si sarebbe pentito, le quali hanno alterato l’assetto delle amministrazioni senza che al preesistente si sostituisse un quadro normativo ed operativo più moderno ed adeguato alle esigenze del momento.

Poteri forti? Macché, caro Professore Panebianco, classe politica debole, anzi debolissima, senza esperienza dacché nella tanto vituperata prima repubblica nessuno avrebbe pensato di mettere a presidente del Consiglio una persona con la sola esperienza di sindaco di Firenze, città bellissima, nel cuore di tutti gli italiani, ma con un numero di abitanti pari a quelli di un municipio di Roma, o ministro delle infrastrutture e dei trasporti (già dei lavori pubblici, dei trasporti e della marina mercantile, da far tremare i polsi di un politico di lungo corso) un Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia, una città con poco più di 100 mila abitanti. Per non dire di Maria Elena Boschi, messa a studiare nientemeno che la riforma della Costituzione, e di Marianna Madia con zero esperienza, come si sapeva e come si è potuto verificare, incaricata della Pubblica Amministrazione e dell’innovazione, un ministero chiave dove si dovrebbe studiare il modo di far funzionare più celermente e con meno burocrazia. E si invia in Europa quale responsabile della  politica estera e di sicurezza comune e Vice presidente della Commissione europea  Federica Mogherini le cui dichiarazioni pubbliche sono di una imbarazzante ovvietà. “Lavoriamo per la pace” è la sua frase preferita.

Questi i problemi dei partiti, del governo e del Paese. Altro che dietrologie sui poteri forti. Che anche se fossero effettivamente forti dovrebbero battere il passo dinanzi ad una politica autorevole. In fin dei conti lo riconosce Panebianco per il quale “l’incultura di molti parlamentari contribuisce al risultato (riassumo: l’incapacità di far fronte ai problemi economici e finanziari del Paese; n.d.A.) ma la sudditanza della politica rispetto all’amministrazione (la sola in possesso delle competenze tecnico-giuridiche) fa sì che su quest’ultima ricadano responsabilità pesanti. O si pensi ai gravissimi danni economici a carico della collettività prodotti da avventati procedimenti giudiziari contro aziende, i quali, molti anni dopo, finiscono, spesso, con assoluzioni «per non aver commesso il fatto». Per formazione (esclusivamente giuridica) e per forma mentis , gli esponenti di quelle tecnostrutture sono spesso refrattari a qualunque calcolo economico, e disinteressati – quando non ostili per principio- alle esigenze di aziende e mercati”.

Dunque, come ho scritto iniziando, si confondono le cause con gli effetti.

2 maggio 2018