di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito permanente su attualità e attuazione della Costituzione vogliamo ricordare lo Statuto Albertino, la Carta costituzionale del Regno d’Italia, la tavola dei diritti dello Stato liberale, dotata di straordinaria sobrietà, come fu riconosciuto perfino dal repubblicano Pietro Calamandrei in un discorso pronunciato in Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, e come dovrebbero essere tutte le leggi per garantire quel valore di civiltà che è costituito dalla certezza del diritto.
In un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848, i collaboratori del Re Carlo Alberto, i ministri e i consulenti tratti dalle magistrature e dal Consiglio di Stato, prendendo spunto dalle costituzioni di impronta liberale che erano state promulgate in Francia nel 1830 ed in Belgio nel 1831, prima predisposero un “proclama reale” che già enunciava in 14 articoli, assai brevi, ed un esteso preambolo la volontà del Sovrano di concedere “un compiuto sistema di governo rappresentativo”, poi stesero lo Statuto, termine che fu preferito a “costituzione” che nell’opinione pubblica borghese evocava avvenimenti rivoluzionari ed eversivi.
In quell’anno 1848, lo Statuto Albertino, l’unico a sopravvivere alla generale dissoluzione delle istituzioni rappresentative della penisola calpestate dalla reazione dei governi illiberali protetti dalle baionette austriache, avrebbe polarizzato negli anni a venire le speranze e le idealità di coloro che aspiravano ad un’Italia unita su base costituzionale e liberale. “Per questo lo Statuto piemontese – ha scritto lo storico del diritto Carlo Ghisalberti (Storia delle costituzioni europee, Classe Unica, Roma, 1964 72) -, rappresentando la costituzione dello Stato destinato a realizzare l’unità nazionale, deve considerarsi sin dal momento della sua emanazione… Il necessario centro della storia costituzionale italiana, testimoniando, anche per il suo carattere di costituzione flessibile, ovvero modificabile con legge ordinaria, una profonda capacità di adeguarsi e di seguire l’evoluzione delle diverse circostanze politiche. Ne fu prova immediata quella trasformazione della monarchia sabauda dalla forma rigidamente costituzionale a quella parlamentare-rappresentativa, pur non prevista dallo Statuto, che nella prassi veniva ad estrinsecarsi del rapporto di fiducia necessariamente intercorrente tra governo e parlamento”.
Lo ricordiamo mentre viene messo in discussione da alcune forze politiche il sistema parlamentare rappresentativo che si vorrebbe sostituire con una irrealizzabile democrazia diretta (che non ci fu, nella realtà, neppure nella polis greca) destinata ad attribuire il potere decisionale a ristretti gruppi consultati con strumenti informatici.
Sulla base dell’esperienza statutaria vogliamo, dunque, non solo ricordare i diritti fondamentali di libertà, civile, politica ed economica, in gran parte rifluiti nell’attuale Costituzione, ma anche riaffermare la centralità del Parlamento come espressione della sovranità popolare esercitata attraverso un sistema elettorale nel quale il cittadino sia chiamato ad individuare chi lo rappresenta attraverso il voto di preferenza in una lista o in un collegio uninominale, come insegna il Regno Unito, la più antica democrazia parlamentare, datata 1215.
Chi crede nei valori della democrazia liberale consacrata dallo Statuto Albertino deve sentirsi oggi più che mai mobilitato a partecipare al dibattito sulle riforme costituzionali troppo spesso formulate ignorando la storia e la realtà del Paese sull’onda di suggestioni, sentimenti o interessi destinati a vita breve, come è accaduto con la proposta di revisione costituzionale bocciata senza appello dagli italiani il 4 dicembre 2016.