Escludere il Parlamento sulla legge di Bilancio è uno sfregio alla Carta
di Salvatore Sfrecola
Il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020, approvato dal Senato, è all’esame della Camera che lo voterà entro il 23. Un impegno inutile, perché quel documento è immodificabile. Non giuridicamente, ma perché così vuole la maggioranza giallo-rossa paventando il ricorso all’esercizio provvisorio, necessario se il bilancio non diviene legge entro il 31 dicembre.
Flebili le voci levatisi per denunciare questa gravissima lesione delle prerogative parlamentari, senza nessuna considerazione per la natura essenzialmente finanziaria delle assemblee elettive la cui storia coincide con lo sviluppo della democrazia fin da quando si è affermato il principio che il prelievo delle imposte debba essere consentito da chi sarà chiamato a pagarle. Fin dalla Magna Charta Libertatum (15 giugno 1215), quando viene istituita la Camera dei Comuni, assemblea dei contribuenti alla quale il Re Giovanni d’Inghilterra, attribuisce la funzione di autorizzazione al prelievo. In tal modo si legano tassazione, utilizzazione delle risorse così ottenute e rappresentanza popolare. È quello che si chiama “diritto del bilancio”, quale momento centrale della vita politica in quanto in quel documento sono consegnate le politiche fiscali e quelle della spesa, cioè l’assegnazione delle risorse alle politiche pubbliche, dalla sicurezza all’agricoltura, dalla scuola alla giustizia, dall’industria alla sanità, per fare qualche esempio. Per cui Camillo di Cavour soleva dire “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò con un paese è governato”, dove “ben fatto” significa chiaro, capace di rendere evidente la realtà di un paese, con la sua ricchezza ed i suoi debiti.
Posto l’inscindibile rapporto tra Governo e Parlamento, tra decisione su entrate e spese e rappresentanza popolare è evidente che il mancato approfondimento del bilancio nella apposita sessione che le Camere riservano all’esame dei documenti finanziari, costituisce una gravissima lesione della democrazia. Insufficiente l’esame, impedito l’esercizio del potere emendativo che spetta a ciascun parlamentare, il bilancio è stato approvato sulla base di un maxiemendamento monstrum con molte centinaia di commi e di pagine sul quale il governo ha posto la questione di fiducia, un istituto parlamentare del quale, chi crede nella democrazia, suggerisce di non abusare.
È un nuovo, preoccupante segnale di allarme per la democrazia rappresentativa. E non è certo il “pericolo” dell’esercizio provvisorio che può giustificare questa compressione dei diritti costituzionali delle Camere perché quello evocato come uno spauracchio non è niente di drammatico. Previsto dalla Costituzione all’att. 81, comma 2, l’esercizio provvisorio del bilancio deve essere “concesso” per legge e per periodi non superiori a quattro mesi. In questo periodo lo Stato può incassare tutte le imposte dovute e può spendere solamente nei limiti dell’ammontare di tanti dodicesimi degli stanziamenti del bilancio in fase di approvazione quanti sono i mesi dell’esercizio provvisorio, ovvero nei limiti della maggiore spesa necessaria, qualora si tratti di spesa obbligatoria e non suscettibile di impegni o di pagamenti frazionabili in dodicesimi.
All’esercizio provvisorio l’Italia è ricorsa per anni senza che vi siano stati effetti negativi. Anzi, si può dire che la spesa, in quei casi, è stata più prudentemente diluita.
Di fronte al bavaglio imposto a deputati e senatori Matteo Salvini, leader della Lega, ha preannunciato un ricorso alla Corte costituzionale. Ma al di là del giudizio che la Consulta potrà dare della procedura seguita nel dibattito parlamentare è indubbio che stiamo assistendo, come in altri casi di abuso della questione di fiducia, ad una limitazione delle prerogative dei parlamentari e quindi della sovranità che appartiene al popolo “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, come si esprime l’art. 1, cioè innanzitutto nella discussione e nell’approvazione della legge di bilancio.