di Davide Simone
Nel 1980, la finanza statunitense scoprì il grande potenziale che le piattaforme mediatiche offrivano in termini commerciali e pubblicitari. Fu così che colossi quali la General Elettric, la Disney, la Twentieth Century Fox o, ancora, la Viacom, fagocitarono le maggiori testate cartacee e i maggiori canali audiovisivi. Effetto collaterale di questa operazione fu l’"infotainment" (“intrattenimento-spettacolo”), un genere di informazione variegato e popolare nato con lo scopo di cooptare il maggior numero possibile di spettatori (e quindi di acquirenti).Se decenni dopo il concetto di “infotainment” è abbastanza familiare anche tra i non “addetti ai lavori”, la stessa cosa non si può dire del “politainment”, sua diretta emanazione e forse fenomeno ancor più importante.Conseguenza anche della “personalizzazione” della politica, altro passaggio dovuto alla crescita del ruolo dei media (tradizionali e nuovi) nella nostra società, il “politainment” è una migrazione verso il “pop” dei vari leader di partito, l'acquisizione da parte loro di atteggiamenti tipici dello show buisiness, la partecipazione a programmi “leggeri” ma di grande successo. Il “politainment” può tuttavia limitarsi alla galassia on-line e soprattutto ai social. Un grande protagonista in tal senso è ad esempio Matteo Salvini, con i suoi post virali e anti-convenzionali su Twitter, Facebook e Instagram.Indicati da molti come responsabili del peggioramento dell'informazione politica e dell'imbarbarimento della politica stessa, il “politainment” e l'” infotainment” politico più in generale trovano ad ogni modo anche estimatori e difensori. Per la Prof. Baym, volendo citarne uno, offrono un “contrappeso alle forme tradizionali di discorso politico dominate da esperti e insider ma irrilevanti per i mondi vitali dei pubblici”, sono “un correttivo a un giornalismo che è diventato subalterno ai professionisti della comunicazione politica e affetto da condizionamenti di interessi extra-giornalistici” e hanno “il potenziale di rendere l'informazione gradevole, [...] premessa per partecipare all politica”
*Una simile spaccatura si verificò con l'affermazione della TV. Gli intellettuali di area marxista e della Scuola di Francoforte assegnavano (e assegnano) alla cultura e all'arte un ruolo pedagogico, quindi percepivano i programmi di evasione e l'intrattenimento leggero del piccolo schermo come strumenti usati dal potere per tenere le masse nell'ignoranza, in modo da gestirle e controllare meglio. A loro si opponevano gli “integrati”, che vedevano e vedono nella grande distribuzione un'opportunità per l'emancipazione della gente comune. Dopo l'entrata in politica di Silvio Berlusconi, in particolare, prese piede a sinistra la convinzione che il successo nelle urne del tycoon milanese fosse dovuto ad una manipolazione continua e costante delle coscienze degli italiani messa in pratica dalle sue reti televisive. Come la DC grazie a "Lascia o raddoppia?" e "Il Musichiere", Berlusconi avrebbe creato un nuovo tipo di italiano, servendosi di "Ok, il prezzo è giusto" o "Drive in". Un cittadino superficiale, orientato esclusivamente al profitto e all'edonismo, compatibile quindi con il messaggio forzista. Si tratta di un'analisi ideologica, sommaria e grossolana, che non tiene conto dell'evidenza che i programmi offerti da Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro fossero perlopiù format stranieri e/o in ogni caso diffusi anche all'estero, mentre un fenomeno quale il berlusconismo è e resta peculiarità esclusiva del nostro Paese, senza riscontri nemmeno nelle democrazie occidentali più fragili. La chiave del successo politico dell'ex Cavaliere fu invero la sua capacità di porsi come uomo nuovo in una fase di crisi sistemica e valoriale acuta (1992-1994) e di coagulare intorno a se un elettorato già esistente e molto ben definito e definibile, quello missino, leghista e del pentapartito in disfacimento, ossia le forze che durante l'intera storia repubblicana si erano contrapposte alle sinistre comuniste, post-comuniste e ai loro alleati. Pur riconoscendo al suo arsenale mediatico e al suo prestigio come imprenditore un ruolo forse fondamentale nella sua ascesa politica, la teoria che vuole le tre reti di Cologno Monzese come oscure burattinaie della psicologia del popolo italiano non ha diritto di cittadinanza nella storiografa scientifica.