di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
La Corte costituzionale ha deciso a proposito della decurtazione delle pensioni voluta dal Governo giallo-verde Conte 1. E, all’esito dell’udienza del 20 ottobre e della conseguente Camera di consiglio, ha emesso il comunicato. Il titolo: “Pensioni di elevato importo: legittimo il “raffreddamento” della rivalutazione per un triennio, illegittimo il “contributo di solidarietà” oltre il triennio”. Ed ecco il testo:“La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Milano e dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, in relazione alle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di bilancio 2019 a carico delle pensioni di elevato importo. Le questioni avevano ad oggetto la limitazione della rivalutazione automatica per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a determinati importi (“raffreddamento della perequazione”) e la decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”). In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che è stato ritenuto legittimo il “raffreddamento della perequazione”, in quanto ragionevole e proporzionato. È stato ritenuto legittimo anche il “contributo di solidarietà” ma non per la durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato. Pertanto, il contributo rimarrà operativo per tutto il 2021. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane”. Non è bene commentare una sentenza che ancora non c’è. Infatti non lo facciamo, ma dal comunicato stampa possiamo trarre qualche elemento per brevi considerazioni con riguardo alle due misure oggetto del giudizio, il “raffreddamento della perequazione” e la “decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”)”. Ora non è dubbio che, pur in relazione alla finalità di “contenimento della spesa previdenziale”, le due “misure” sono molto diverse. L’una incide sulla “rivalutazione automatica” per il triennio 2019-2021, con una limitazione dell’aspettativa assicurata ai pensionati dalla legge che ne ha disciplinato il trattamento pensionistico, l’altra, il “contributo di solidarietà” attua un vero e proprio esproprio di parte della pensione di quanto previsto dall’ordinamento in relazione ai contributi obbligatori versati negli anni nei quali il dipendente ha prestato servizio, spesso anche al di là del periodo utile a pensione (40 anni). In tal caso contribuendo obbligatoriamente ad una esigenza di solidarietà. Orbene, alla provvista delle risorse necessarie per la spesa pubblica, compresa quella previdenziale, gli stati ricorrono di regola a carico della fiscalità generale che consente la modulazione del prelievo in relazione all’ammontare del reddito, con distribuzione equilibrata sulla platea dei contribuenti. Invece, con una disposizione, alla quale con ardua motivazione la Corte ha in passato negato la natura sostanzialmente tributaria, il “contributo di solidarietà” è stato inquadrato dal Giudice delle leggi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge ex art. 23 Cost. (tra le quali ricorrono senza dubbio i tributi), avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori, e di realizzare “un circuito di solidarietà interna al sistema previdenziale, evitando una generica fiscalizzazione del prelievo contributivo” (Corte cost., ord. n. 22 del 2003; sent. N. 178 del 2000).
Contemporaneamente la Corte aveva chiarito che, in linea di principio, il contributo di solidarietà non deve esorbitare dai “limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016). Con riserva di commentare quel che si leggerà nella sentenza, fin d’ora sembra opportuno sottolineare che il principio di affidamento non ha rilevanza esclusivamente interna, tra il pensionato e lo Stato, sia pure impersonato dall’ente previdenziale. Il mancato rispetto del patto intercorso tra lo Stato ed il dipendente, il quale in corso di attività ha puntualmente versato i contributi previdenziali previsti, nell’aspettativa, giuridicamente tutelata, di ottenere al momento del collocamento a riposo un determinato trattamento pensionistico, mina gravemente l’immagine e la credibilità dello Stato anche agli occhi degli investitori in titoli pubblici, i quali possono essere indotti a ritenere non affidabile uno Stato che manca alla parola data nell’ambito di un rapporto nel quale ad una prestazione (l’attività lavorativa del dipendente) deve necessariamente corrispondere una retribuzione attuale (in costanza di lavoro) e differita (in quiescenza), come definita nella legislazione. Ricordiamo anche come la Corte avesse sostenuto che un contributo sulle pensioni costituisce comunque una misura del tutto eccezionale, “nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016), cosa che, invece, è puntualmente avvenuta con la normativa oggetto del giudizio. Per essere solidaristico e ragionevole la Corte aveva segnalato che “le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura” (in termini ancora Corte cost., sent. n. 173 del 2016). In sostanza deve considerare lo standard di vita della persona, come realizzatosi nel tempo attraverso il trattamento stipendiale e, poi, quello pensionistico. Cosa che la dimensione del prelievo non assicura. Leggeremo, dunque, nella sentenza come la Corte, che aveva già ritenuto “al limite” della costituzionalità il precedente contributo di solidarietà istituito con l’art. 1, comma 486, della l. n. 147 del 2013, pur “misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta”, può aver giustificato un ulteriore contributo di solidarietà, peraltro con aliquote molto più elevate di quelle previste dal precedente e per un periodo ben più lungo, con l’effetto di trasformare un istituto eccezionale in uno strumento ordinario di alimentazione del sistema di previdenza, in manifesta violazione dei canoni di proporzionalità, ragionevolezza e legittimo affidamento. E, dunque, ha previsto che tre anni debba essere il limite, con riferimento “all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato”, che è evidentemente uno richiamo metagiuridico che mina l’affermata natura non tributaria della norma, in quanto il bilancio dello Stato si alimenta proprio da entrate di natura fiscale. La perdurante crisi del sistema previdenziale non può infatti ritenersi da sola sufficiente a giustificare la compressione del legittimo affidamento dei pensionati alla percezione del trattamento previdenziale come effettivamente già maturato ex lege. Al contrario, i medesimi soggetti che si sono visti gravati del contributo di solidarietà per il triennio 2014-2016, vedranno ancora una volta decurtato, e in misura nettamente superiore, i dovuti emolumenti pensionistici anche per il prossimo quinquennio 2019-2023. E c’è da scommettere che non sarà l’ultima volta.
Sicché la misura costituisce una mera “tassa sulla ricchezza”, rappresentata dall’entità della pensione percepita. Tassa evidente anche nelle dichiarazioni con le quali i decisori politici hanno accompagnato la scelta legislativa, insistendo sulla definizione di “pensioni d’oro”, così intendendo colpire i percettori di tali assegni, neppure per esigenze immediate del sistema previdenziale, considerato che le somme prelevate vengono accantonate, ma sostanzialmente per “punire” coloro che quegli assegni avevano percepito. Ci sarà adesso chi gioirà per questa pronuncia, trascurando che il mancato riconoscimento dei diritti maturati da cittadini che hanno versato allo Stato per anni contributi, a fronte della una promessa ad ottenere una determinata pensione, in violazione di principi elementari di diritto, attua una lesione che apre la strada ad altre possibili manomissioni di diritti fondamentali di natura economica che la Corte costituzionale avrebbe dovuto tutelare. Invece questo Giudice, che nasce politico, in quanto per due terzi formato da soggetti nominati o eletti dalla politica, con la giustificazione di essere in tal modo idoneo a percepire il comune sentire della gente rispetto alle regole della Costituzione, appare progressivamente sempre più sensibile alle esigenze della politica in un contesto, quello del circuito Governo – Parlamento dominato da una casta di una modestia mai in precedente vista. Che fa temere, in relazione alle crescenti difficoltà dell’economia e della finanza, nuove possibili manomissioni di diritti acquisiti. Di qui il titolo “Non c’è un Giudice a Roma”.