di Davide Simone, giornalista (OdG della Toscana) e consulente di comunicazione
Tra i massimi studiosi del condizionamento mentale (l'impropriamente detto "lavaggio del cervello"*), lo psicologo e sociologo ungherse-americano Edgar Schein, vivente, limava le differenze tra i sistemi coercitivi di persuasione adottati dai paesi comunisti e quelli in uso nelle democrazie occidentali. In quest'ultime, è vero, l'azione di indottrinamento non passava e non passa (di solito) dal ricorso alla violenza, dalla privazione della libertà, dall'uso di farmaci e dalla tortura, ma poteva e può essere ugualmente pervasivo, invasivo ed efficace. Il Prof. Schein faceva a tal proposito l'esempio delle tecniche di condizionamento impiegate dalle multinazionali, dalle chiese, dalle scuole, dalla psicanalisi, dalle accademie militari, ecc, sostenendo che anche nelle democrazie "le pressioni sociali che si è in grado di generare possono essere così coercitive come le restrizioni fisiche". A cambiare non è, insomma, il "metodo" sic et simpliciter, ma il "contenuto". Specialmente in fasi storiche come quella attuale, il lavoro di Schein è utile per comprendere quanto la propaganda e la comunicazione possano, persino nei paesi liberi e democratici (società "aperte"), interferire in maniera pesantissima sul nostro pensiero e le nostre azioni, senza farcene accorgere. Sempre come rilevava Schein, l'ingresso in un movimento d'opinione polarizzato può del resto, specialmente se si vengono a formare delle "bolle" basate sull' "omofilia" e il "grouping", riprodurre le dinamiche di un contesto fisico illiberale e anti-democratico, con lo sgretolamento o l'annientamento della capacità analitica libera e razionale. L'estremismo e l'irriducibile fermezza di molti "chiusuristi", come di molti dei loro diretti "avversari", ne sono una prova e una dimostrazione plastica.
*Lo scienziato parla di "persuasione coercitiva", sviluppata in tre fasi: "scongelamento" (dell'identità precedente), "cambiamento" e "ricongelamento" (della nuova identità). Schein ha applicato le sue teorie al marketing aziendale, lavorando con numerose multinazionali statunitensi ed europee.Il termine fu in origine coniato dal giornalista, propagandista e agente segreto Edward Hunter (che distingueva tra "brain-washing", lavaggio del cervello, e ""brain-changing", cambiamento del cervello), sulla base di "1984" di George Orwell o delle dichiarazioni di un giovane dissidente cinese che aveva parlato di "hsi nao" ("lava il cervello") riferendosi ai sistemi di condizionamento utilizzati da Pechino.
Riferimenti bibliografici: Massimo Introvigne, "Il lavaggio del cervello: realtà o mito?"; Edgar H. Schein, "The Academic As Artist: Personal and Professional Roots"; Edgar H. Schein con Inge Schneider e Curtis H. Barker, "Coercive Persuasion; A Socio-psychological Analysis of the Brainwashing of American Civilian Prisoners by the Chinese Communists"
Abbruniamo le nostre insegne per il trapasso di S.A.R. il Principe Filippo, Duca di Edimburgo, consorte di S.M. Elisabetta II del Regno Unito.
S.A.R. il Principe Filippo, Duca di Edimburgo, consorte di S.M. Elisabetta II del Regno Unito.
ITALIA... E LA MONARCHIA.
Se leggiamo l'art. 139 della Costituzione vigente, notiamo come esso affermi l'impossibilità, attraverso una legge di revisione costituzionale, di modificare la forma di governo repubblicana e pervenire ad una restaurazione della monarchia. L'azionabilità del procedimento dell'art. 138 del Testo fondamentale é preclusa in base alla tesi secondo la quale la repubblica non era sorta e non esisteva in virtù della Costituzione, ma dalla decisione del corpo elettorale manifestata in occasione del referendum istituzionale 02 giugno 1946. Non é questa la sede per discutere in merito alla regolarità delle operazioni elettorali, tuttavia l'argomentazione di cui sopra appare contestabile. In primo luogo, la consultazione referendaria si pone semplicemente come un fatto esterno legittimante semmai l'esercizio del potere costituente, il quale si é esaurito con l'approvazione della Costituzione il 22 dicembre 1947. In secondo luogo, in ragione di questo presupposto, l'art. 139, non venendo ad assumere un valore giuridico superiore a quello di qualsiasi altra disposizione costituzionale, non esclude il ricorso alla procedura revisoria ex art. 138. Come ben insegna Biscaretti Di Ruffia "quando la procedura stabilita dalla Costituzione per l'emendamento delle sue norme sia stata rispettata, nessun anello della catena della sua continuità giuridica risulterà mancante: nessuno hiatus, quindi, si sarà venuto a formare e l'evoluzione delle forme costituzionali avrà potuto svolgersi senza quelle scosse brusche, e sempre dannose, che sono rappresentate dalle instaurazioni di fatto, siano esse antigiuridiche o semplicemente agiuridiche". Ne consegue, pertanto, che una modifica della forma di governo in senso monarchico dovrebbe soggiacere ad un doppio grado di attività normativa: il primo, volto ad abrogare la disposizione dell'art. 139; il secondo, la nuova disciplina della materia precedentemente dichiarata intangibile. All'obiezione mossa da una parte autorevole della dottrina e accolta anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 480/1989 circa la "non modificabilità in perpetuo del nuovo ordine repubblicano", si può replicare che la sua abrogazione non si identifica per l'oggetto con la revisione strictu sensu della forma istituzionale. Detto in altri termini, l'art. 139 può spiegare il suo effetto sull'iniziativa della revisione della forma repubblicana e, pertanto, quale limite espresso, rendere incostituzionale qualsiasi legge che tale revisione contempli, ma non può inibire l'abrogazione pura e semplice ad opera di una legge di revisione che rispetti l'iter aggravato dell'art. 138. In terzo ed ultimo luogo, un eccessivo irrigidimento del Testo costituzionale implicherebbe un pre-giudizio, dogmaticamente assunto, per cui una forma di governo monarchico non sarebbe in grado di fronteggiare le imprevedibili pretese future della realtà sociale, relegando "autoritativamente" questo compito ad un modello di stampo repubblicano.
Cav. Dott. Matteo Pio Impagnatiello (Componente del Comitato scientifico di Unidolomiti)
Prof. Daniele Trabucco (Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/Centro Studi Superiore INDEF. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico).
di Salvatore Sfrecola
(tratto da: www.unsognoitaliano.eu/2021/04/07/la-gestione-dellemergenza-sanitaria-dimostra-lurgenza-di-rivedere-lordinamento-regionale/ )
Leggo che il Centro Pannunzio, istituzione torinese prestigiosa, che ha come Presidente Chiara Soldati e Direttore Pier Franco Quaglieni, si è espressa a favore dell’abrogazione del titolo V della Costituzione e in difesa dell’Unità d’Italia. Iniziativa quanto mai opportuna mentre siamo invitati su Facebook ad iscriverci alla pagina “Stati Uniti d’Italia”, un progetto che va senz’altro contrastato per difendere, a 160 anni dalla fondazione dello Stato unitario, l’eredità del Risorgimento, oggi più che mai attuale anche in ragione di quel regionalismo becero che mira a spaccare l’Italia ancor più di quanto sia stato fin qui fatto. “La riforma del titolo V va abolita al più presto”, si legge sul sito del Centro Pannunzio che lancia l’idea di un referendum abrogativo. Ricorda che il Centro, già oltre un anno fa, aveva riflettuto sui limiti del regionalismo che compiva nel 2020 cinquant’anni. “La pandemia, si legge ancora, ha quasi impedito i festeggiamenti programmati stoltamente in modo autocelebrativo, senza una riflessione storica o almeno storico-politica seria. Le Regioni a statuto ordinario si sono rivelate un sostanziale errore che era previsto dalla Costituzione (uno dei limiti di quel testo) e che la saggezza della Dc centrista aveva evitato all’Italia. Esse si sono rivelate uno spreco enorme di denaro pubblico con la creazione di una pletorica burocrazia regionale che si è aggiunta a quella statale. Inoltre esse non hanno affatto avvicinato lo Stato al cittadino, come era stato promesso”. In effetti, i limiti del regionalismo sono stati ampiamente denunciati in questi anni, in particolare dopo la revisione del Titolo V che all’art. 117, comma 4 (“Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento afd ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”) ha fatto delle regioni il legislatore generale relegando lo Stato in un’area limitata così negando anche il ruolo di centro unificatore della politica. Ricorda ancora il Centro Pannunzio come il “federalismo sognato da Cattaneo durante il Risorgimento era un’utopia non compatibile con la storia italiana caratterizzata da secoli di divisioni. Cattaneo guardava alla Svizzera, una realtà non confrontabile sotto nessun punto di vista. Occorreva alla formazione dello Stato in Italia o una monarchia unitaria o una repubblica di tipo mazziniano, altrettanto unitario. Cattaneo, aggiunge il documento del Centro, era un affascinante intellettuale, ma del tutto incapace di fare i conti con la realtà, malgrado la sua cultura “politecnica“. Solo ad un altro utopista abbastanza velleitario come Salvemini, un caso di giacobinismo professorale, come venne detto, Cattaneo apparve un realista a cui guardare per vincere le utopie ideologiche del marxismo”. Sottolinea ancora il Centro Pannunzio come in sede di Assemblea Costituente “le regioni nacquero non tanto da un federalismo minoritario, quanto piuttosto da certo spirito antiunitario e antirisorgimentale soprattutto ben presente nella Dc, erede del partito popolare di don Sturzo e nell’azionismo che si richiamava a Cattaneo. Comunisti e socialisti si rivelarono inizialmente contrari perché videro le Regioni come una minaccia allo Stato unitario. Altrettanto contrarie le forze liberali che sotto diverse denominazioni erano presenti all’Assemblea Costituente, sia pure in netta minoranza. Il Titolo V della Costituzione nacque da una serie di compromessi e stabilì un regionalismo lontano dalle follie visionarie di Emilio Lussu, erede del partito sardo d’Azione, una delle figure più nefaste della politica e della cultura italiana che finì la sua variegata esperienza politica al servizio del PCI. Nel clima della Costituente era ben presente il Separatismo siciliano di Finocchiaro Aprile e dei gravi pericoli da esso rappresentati. Il regionalismo venne anche visto come una scelta contraria allo Stato nato dal Risorgimento perché la maggioranza della Costituente era formata da forze estranee o nettamente contrarie al moto risorgimentale”. Analisi assolutamente condivisibile. Le forze politiche di maggioranza presenti nell’Assemblea Costituente erano eredi di una cultura del tutto estranea al pensiero risorgimentale che, non va mai dimenticato, era animato da uno spirito unitario straordinario. Non a caso Domenico Fisichella scrive del “miracolo del Risorgimento”. Infatti mai in altro momento della storia d’Italia negli uomini che operarono per la formazione dello Stato unitario le particolarità furono superate nell’ottica della necessità storica di “fare l’Italia”. È sufficiente ricordare come Giuseppe Mazzini avesse scritto al Re Carlo Alberto e successivamente al figlio Vittorio Emanuele II dicendosi pronto a cooperare purché l’Italia divenisse una. I pericoli del regionalismo in una Italia dai 1000 campanili, dove le popolazioni erano abituate da secoli a non guardare al di là dei confini del regno o del principato, erano immaginabili gli effetti negativi dell’egoismo municipale anche per essere alimentato da storie locali ricche soprattutto di arte e cultura letteraria. E difatti le regioni furono istituite solamente nel 1970 quando lo pretesero socialisti e repubblicani, nonostante il pessimo esempio del regionalismo siciliano dotato di straordinari poteri, ordinamento la cui specialità, tuttavia, non ha concorso al miglioramento degli standard di benessere nell’isola. Sta di fatto che, a seguito dell’espansione della Lega di Umberto Bossi che promuoveva un federalismo demagogico, a tratti apertamente indipendentista (ricordiamo la denominazione del Gruppo parlamentare della Camera “per l’indipendenza della Padania”), espressione degli umori di talune comunità convinte contestatrici del potere centrale, soprattutto fiscale, ed in vista delle elezioni legislative del 2001 i partiti di centro-sinistra, nel tentativo, che si dimostrerà maldestro, di contenere il Centrodestra che si riteneva, come sarebbe stato, vincitore delle elezioni, promossero una riforma del titolo V che ampliò i poteri delle Regioni e degli enti locali attribuendo materie particolarmente sensibili, come quella della “tutela della salute”, alla legislazione concorrente, così dando vita ad una artificiosa distinzione tra norma di principio e norma di dettaglio che ha reso evanescente la linea di confine tra le rispettive competenze di Stato e Regioni. Assegnando alle regioni l’organizzazione e gestione dei relativi servizi si è dato vita a 21 sistemi sanitari diversi con conseguente disomogeneità nella erogazione dei servizi. Pressate dalle richieste provenienti da settori ritenuti politicamente vicini ai partiti che esprimevano le giunte regionali queste hanno speso privilegiando il consenso dei pochi anziché degli utenti. Ed è così che la sanità regionale ha privilegiato ora le strutture ora la carriera del personale medico con una distribuzione dei presidi territoriali spesso assurde, senza un sistema di intervento capace di garantire le prestazioni richieste, soprattutto nei casi di speciale urgenza. D’altra parte la materia sanitaria è l’unica vera risorsa regionale, pari all’80-85% del bilancio. Solo nella sanità, dunque, i partiti al governo della giunta possono soddisfare le esigenze del loro elettorato. Il Centro Pannunzio ricorda una nota profezia del Segretario del Partito Liberale Italiano, Malagodi il quale aveva previsto la “finanza allegra” delle Regioni. Che, infatti, ha dato luogo a clamorosi scandali proprio nel settore della sanità, con la definizione di carriere e trattamenti economici, nonché nell’acquisto di beni e servizi. Anche i consiglieri regionali si sono in molte realtà segnalati per aver posto a carico delle disponibilità assicurate ai rispettivi gruppi consiliari di spese assolutamente non riconducibili ad esigenze della gestione politica dei gruppi. Da ultimo, la gestione dell’emergenza sanitaria ha dato dimostrazione della evidente incapacità organizzativa ed operativa delle amministrazioni regionali, esplosa proprio in occasione della somministrazione dei vaccini che ha rivelato gravissime lacune soprattutto nelle realtà periferiche che sono una caratteristica di questo Paese costituito da migliaia di piccoli borghi dai quali molto spesso è stato difficile raggiungere il centro vaccinale, soprattutto per le persone di età avanzata, quelle più “fragili” che sarebbe stato necessario sovvenire prioritariamente. È emerso in modo evidente il protagonismo e l’incapacità di molti presidenti di regione autoqualificatisi “governatori” che, in uno agli errori del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del Ministro della salute Roberto Speranza, ha creato una confusione istituzionale con effetti devastanti sulla gestione della risposta alla pandemia da Covid-19. Effetto anche di una classe politica di estrema modestia che a livello regionale diventa ancor più inadeguata. Nel contempo la Conferenza Stato – Regioni, che dovrebbe assicurare il raccordo tra competenze statali e regionali, si è rivelata una quasi inutile cassa di risonanza di conflitti che spesso si sono riversati sulla Corte costituzionale. Sarebbe urgente, dunque, che il Parlamento ponesse mano alla revisione del Titolo V, restituendo allo Stato i suoi poteri naturali, ponendolo al centro dell’ordinamento e titolare della funzione legislativa.Oggi neppure le sinistre, che la vollero, difendono la riforma del Titolo V del 2001. Eppure la politica non prende l’iniziativa. Per il Partito Democratico che ha sulla coscienza la riforma del Titolo V sono prioritari lo ius soli e il voto ai sedicenni, a dimostrazione della lontananza di questo, come di altri partiti, dal sentire della gente. A 160 anni dalla proclamazione dello Stato unitario, che fu il risultato dello straordinario impegno di uomini di pensiero e d’azione, oggi l’Italia rischia di tornare indietro, per calcoli miserevoli e antistoriche battaglie che vorrebbero rivendicare inesistenti glorie politiche ed economiche, come i cosiddetti neoborbonici, o una vocazione mitteleuropea che contrasta nettamente con l’intelligente visione mediterranea di uomini nati in regioni prive di mare, come il piemontese Camillo di Cavour e l’aostano Federico Chabod. Il grande statista vedeva l’Italia un grande promontorio sul mare che avrebbe fatto del nostro Paese la porta dell’Europa sul Medio e l’Estremo oriente, per lo storico, finalmente unificata, “l’Italia cessava di essere oggetto di storia, ma diventava essa stessa soggetto attivo; da terreno di battaglia, contendente, protagonista attivo delle vicende europee. Poco o molto che fosse (…) il giovane regno doveva necessariamente nutrire anch’esso aspirazioni mediterranee”. Chabod fissava così – scrive Limes – nella marittimità la condizione onde evolvere l’Italia da magnifica preda contesa tra le potenze continentali a stato unitario indipendente, per tale costretto alla geopolitica propria, non alla mera imitazione delle altrui. Se poi l’obbligo di solcare le onde risuona dalle Alpi, vale doppio. A conferma che non è necessario nascere in stanza con vista mare per sentirsi marittimi”. Altro che Stati Uniti d’Italia. Gente che invece di vedere il gravissimo pericolo che abbiamo di fronte e che si è già rivelato causa di danni molto gravi (pensiamo ai vaccini) ritiene di rifare la verginità politica ai propri partiti con proposte che la gente non comprende. Siamo all’assurdo che neanche più la Lega è per il federalismo. Ci fu una Lega persino secessionista, quella che suggerì la furbizia della riforma del titolo V, una colpa storica che la pandemia ha fatto comprendere anche alle anime candide o ai filibustieri che vogliono un’Italia divisa e conflittuale.Nella politica parolaia dei partiti è il momento di promuovere un referendum abrogativo per ristabilire regole di buon senso rispettose dell’interesse nazionale, secondo l’“idea di Nazione“ di cui scrisse magistralmente Federico Chabod che abbiamo appena ricordato. Con l’occasione andrebbero anche riviste le regole delle regioni a “statuto speciale”, a cominciare proprio dalla Sicilia, che si sono rivelate una sorta di stato nello Stato che non ha più una giustificazione storica. Ma sono fonte di sperpero di denaro pubblico, di favoritismi e di inefficienza.