COMITATI DI AFFARI

di Giuseppe Borgioli

Le elezioni americane hanno incoronato Joe Biden, con il presidente uscente Donald Trump che chiede il riconteggio dei voti negli stati dati sino ieri in bilico dove il voto per posta è stato massiccio, sopra ogni previsione. Questa storia del voto per posta meriterebbe un discorso a parte. Come la più grande democrazia globale abbia istituzioni arcaiche. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti uno dei due candidati non riconosce la vittoria dell’altro. Due coinquilini alla casa Bianca sono troppi. È fuor di dubbio che Trump si sia trovato contro tutto l’establishment americano dalla finanza ai giornali, alle televisioni, all’industria, ai rappresentanti del partito repubblicano già emarginati dal nuovo indirizzo politico.Joe Biden è un moderato per definizione e vocazione. È il “Forlani” in versione nord-americana che ha ricoperto questo ruolo alla vice presidenza di Obama e che in molte occasioni della sua lunga carriera politica ha dato prova di duttilità e di capacità di adattamento alle situazioni. È il presidente delle contrattazioni con un curriculum degno del rispetto di tutti. È una tazza di rassicurante di camomilla dopo la scossa di Trump. Serve questo agli Americani? Serve questo uomo all’Occidente malato e al mondo? È troppo presto per dare pareri. Il mondo è sempre più tripolare. Insieme agli Stati Uniti, Cina e Unione Sovietica avanzano le loro candidature alla leadership globale. L’Europa è solo una comparsa che ha un vocabolario di buone parole ma non ha risorse per farle valere. Su questo mondo turbolento innumerevoli guerre locali o regionali innestano conflitti tradizionali.La quasi vittoria di Joe Biden ha un antefatto che non si può ignorare. Il vice presidente di Obama è stato prescelto per far fuori Trump. È una specie di “comitato di affari” i Clinton, lo stesso Bush, altri esponenti repubblicani della vecchia guardia hanno valutato il presidente Trump troppo ingombrante per muoversi in un salotto di porcellane come il mondo di oggi. Meglio Biden con il suo passo felpato, con il suo agire sotto traccia, con la sua prudenza diplomatica. Il capitale finanziario e industriale ha bisogno di questo. Basta risse. Wall Street ha capito che Trump non poteva più essere il candidato ad hoc. Così il povero Joe Biden è diventato un giocattolo nelle mani nella mai di soggetti estranei alla stessa dialettica politica. In America è cambiato poco, si è tornati ai vecchi modi gentili, alle alleanze tradizionali, alle rassicurazioni dei sorrisi e delle strette di mano che fanno prevalere il buon senso. La Cina che sembra diventare una falsa incognita della politica americana di Biden è pur sempre il maggior acquirente del debito pubblico americano. In più la Cina ha bisogno della tecnologia americana, soprattutto militare. Non si è una potenza globale con un parco risibile di porta aerei. Anche la Cina con il suo monoteismo politico è un gigante dai piedi di argilla. Alta ricerca in laboratori sofisticati da cui può uscire il virus della pandemia. Che è quasi peggio di una guerra batteriologica dichiarata in anticipo.

di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

Il giorno nel quale si festeggiano insieme l’Unità d’Italia e le Forze Armate suggerisce alcune considerazioni di fondo. La data è quella della conclusione della Prima Guerra Mondiale, per gli italiani la “Grande Guerra” (1915-1918), quella che ha completato l’unità nazionale, come l’avevano immaginata ed auspicata le migliori menti del Risorgimento, con Trieste e Trento annessi alla Madrepatria. Fu subito festa delle Forze Armate, festa di popolo perché i soldati i armi che hanno combattuto quella guerra erano italiani che, per la prima volta, combattevano fianco a fianco, dopo che per secoli “calpesti, derisi” avevano combattuto tra loro agli ordini di ottusi signorotti e capitani del popolo, in realtà per gli interessi di potenze straniere, così mortificando il senso di appartenenza. È facile cadere nella retorica nel ricordare quegli eventi, tra squilli di tromba, canti popolari e sventolio di bandiere, nel risentire il Bollettino della Vittoria diramato dal Comando Supremo alle 12.00 di quel 4 novembre 1918: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. E poi la descrizione della travolgente avanzata delle nostre armate. Fu davvero una guerra di popolo. E se l’Esercito, magna pars in quella guerra che giorno dopo giorno andava configurandosi come tutta diversa da quelle che avevamo conosciuto nell’800, evoca il popolo, questo, a sua volta, evoca la Patria, la terra dei padri. Un po’ di retorica, a volte, non guasta, dà corpo, esalta gli ideali più razionali, quelli messi a punto con il concorso di filosofi, politologi, storici. Questo spirito di condivisione dei valori comuni, anche nella distinzione delle scelte politiche, ha un grande valore, favorisce l’abbandono degli egoismi di parte in funzione del perseguimento degli interessi comunitari specialmente nei momenti di emergenza, come nel caso presente, nel quale una diffusa infezione virale esige misure drastiche di limitazione delle libertà individuali, anche di lavoro ed economiche, ma nella prospettiva del superamento dell’emergenza e della ripresa economica e sociale. Se questo è vero, se Forze Armate sono il popolo in divisa e se il popolo è Patria è stato un grave errore l’aver soppresso questa festa significativa che non ha mai avuto un sapore nostalgico del nazionalismo aggressivo. I cittadini, soprattutto i ragazzi, che visitavano negli anni scorsi le caserme, le base navali e aeroportuali erano affascinati da carri armati, incrociatori, aerei ed elicotteri ma non esaltavano la guerra che, sappiamo, “l’Italia ripudia… come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” . Anche perché vedevano nelle Forze Armate quelle strutture dello Stato efficienti che aiutavano i terremotati e gli alluvionati ed oggi, nella condizione di lotta al virus, sarebbero chiamati ad ammirare, sia pure a distanza di sicurezza, alcune delle tante strutture allestite dalla Sanità Militare, compreso l’Ospedale degli Alpini e capire che le Forze Armate sono lo Stato e la Patria. Il 4 novembre è una festività soppressa, nonostante il suo significato unificante e non divisivo, e qui emerge la modestia culturale della classe politica, tutta a partire dal 1946, la quale non si considera erede del movimento nazionale che ha unificato l’Italia ad opera di uomini di straordinario impegno politico e non riesce a percepire il valore democratico del popolo in divisa. È una grave mancanza di valori identitari che darebbero ai giovani il senso di un impegno nella società, professionale e politico, nel senso più nobile di un servizio alla comunità. Del resto la scuola, dove si coltivano cultura e insegnamenti professionali, è la cenerentola nel bilancio dello Stato, da anni.Quanti errori hanno commesso i nostri politici, soprattutto allontanando dalla vita pubblica coloro che avrebbero la possibilità di contribuire allo sviluppo della Nazione. Si sono erti in casta autoreferenziale per conquistare e mantenere il potere spesso lontano dalla gente comune della quale non comprendono i problemi, perché loro non ne hanno, non devono gestire attività imprenditoriali o commerciali bloccate mentre altrove, dalla Germania alla Francia agli Stati Uniti i loro colleghi continuano a produrre ed a commerciare, non devono preoccuparsi della clientela degli alberghi, dei ristoranti e dei bar che, privati dei turisti italiani e stranieri, stentano a sopravvivere. Non sentono il dolore delle famiglie, il disagio degli studenti e neppure colgono il pericolo di una protesta che dilaga e che potrebbe infiammare ancor di più le piazze delle nostre città. Sono lontani, non sanno e non studiano, come ha dimostrato il dibattito parlamentare alla Camera ed al Senato sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Un senso di pena per la mancanza di idee per la ripetizione di slogan e luoghi comuni, mentre Giuseppe Conte affermava che le misure di contenimento per gli anziani erano preordinate a metterli al riparo dal contagio, gli anziani che sono stati “protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico”. Non sa far di conto il Premier Conte, quei protagonisti di un momento felice della nostra storia dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale operarono negli anni ‘50-’60. Ammesso che avessero tra i 40 e i 60 anni, oggi il più giovane ve avrebbe almeno 100!

PANDEMIA SOCIALE
di Giuseppe Borgioli
Quello che sta accadendo nelle piazze e vie dell’Italia merita la nostra pacata riflessione. Non possiamo volgere lo sguardo dall’altra parte come se il grido di dolore di chI è rimasto senza lavoro e senza reddito non ci riguardasse . Come se il popolo che protesta sulle piazze e sulle strade fosse un altro popolo con il quale non abbiamo nulla da spartire. E’ il nostro popolo, che ha dimostrato negli anni il proprio attaccamento al lavoro, alla causa Italiano. Questo popolo non merita di essere preso in giro e noi non ce la sentiamo di far finta di niente. Sarebbe un tradimento che non è nelle nostre corde, nella nostra storia.Vedere le strade di Napoli già bagnate da sangue fraterno, di Roma, di Milano e di Venezia, assieme alle altre città, chiedere semplicemente la libertà di lavorare per mantenere le proprie famiglie senza ricevere assicuranti risposte ci procura quello sgomento che non sembra togliere il sonno dei nostri governanti. Lo sappiamo che la pandemia è una brutta bestia. Lo sappiamo che in molti sono stati toccati dai lutti e dal dolore. Ciò non toglie e ci diciamo con franchezza la verità. Sul tavolo c’è una pandemia grave, acuita dall’incuria delle nostre classi dirigenti che hanno lasciato passare l’estate senza correre ai ripari, senza intervenire negli aspetti più critici: il contagio nei trasporti, l’insufficienza delle strutture ospedaliere, l’inadeguatezza della organizzazione della medicina sul territorio. Tutto è stato lasciato alla volenterosa abnegazione di operatori sanitari, veri eroi di questa guerra. Ora che le sale di rianimazione stanno di nuovo riempiendosi si cerca un capro espiatorio e si fa la cosa più ovvia e più pericolosa per la nostra società. Chiudere tutto senza rispetto per chi lavora onestamente e e cerca di guadagnarsi il pane quotidiano. E tutti tacciono. Si cerca di tirare in ballo la storiella che la protesta sarebbe alimentata da gruppi della criminalità. VERGOGNATEVI. La verità vera è che questa tremenda pandemia è gestita e governata da una classe politica di cattocomunisti che non amano la libertà e che in nome della profilassi preferiscono vedere i cittadini costretti nei coprifuoco nei recinti delle caserme e dei conventi. Nell’intimo del loro animo salutano la pandemia come la spinta ad un cambiamento di vita, alla fuga dalla libertà. L’hanno detto: tutto non sarà come prima. A questi corvacci del cattivo augurio gli Italiani devono rispondere con il loro tradizionale ottimismo, con la loro voglia di viverre che non è mai venuta meno, soprattutto nei momenti di maggior difficoltà. Fra libertà e sicurezza, gli Italiani non si sono fatti scrupolo di scegliere la Libertà. Forse oggi ci troviamo di fronte a uno di questi appuntamenti con la storia. Aspettiamo gli eventi del domani e delle prossime settimane. Sappiano i nostri governanti che se supereremo questa la prova di queste ore drammatiche non sarà per merito loro. Sarà per la forza di gli Italiani, imprenditori e lavoratori, che hanno fatto valere civilmente le ragioni della loro esistenza.

LA RABBIA DEI MODERATI

di Giuseppe Borgioli

La repubblica non è fondata sul lavoro?  Si sa che l’assemblea costituente si divise aspramente sul questo basilare articolo.  La sinistra puntava i piedi sulla dizione che la repubblica è fondata sui lavoratori.  Questa proclamazione sembrava riecheggiare la formula sovietica con la supremazia fondata sui soviet. Da qui il compromesso costituzionale. Quelli che abbiamo visto protestare sulle piazze e sulle strade delle città Italiane erano e sono lavoratori che hanno visto perdere il lavoro senza nessuna sicurezza con la prospettiva di un misero ristoro pecuniario. Sono lavoratori e imprenditori che non chiedono denaro o sussidi. Forse è la prima volta che assistiamo a una proposta del genere. La loro protesta è fatta di dignità. Questo atteggiamento collettivo disturba i nostri governanti che sono abituati a ben altre richieste. Questo stato d’animo rassomiglia moto alla spinta che   mosse il quaranta mila della Fiat che scesero in piazza per rivendicare il proprio lavoro. Anche allora la stampa e le televisioni paludate cercarono di minimizzare l’evento, anche allora tirarono fuori la storiella di infiltrazione estranee che non c’erano. Si disse che la marcia silenziosa del quarantamila di Torino era stata promossa e organizzata da Cesare Romiti che era l’amministratore delegato della Fiat.  Balle. La marcia della ribellione su spontanea fu il rifiuto xi una logica che avrebbe avuto come conclusione l’eutanasia del lavoro. L’anticipazione di una economia del sussidio generalizzato che è sempre stato l’obiettivo dei l’obiettivo dei sindacati e dei partiti. Le cose andarono diversamente e per un po’ di tempo la nostra industria e la nostra economia si salvarono. La pandemia di oggi ha risvolti più subdoli che è difficile spiegare e che fatichiamo noi stessi a capire. Il professor Massimo Galli che è uno dei virologi più agguerriti in una intervista televisiva si è lasciato – se non abbiamo capito male – sfuggire una frase che non avremmo avuto piacere di sentire, una voce dal sen fuggita. Il Professor Galli ha detto (e pensato) che in dei conti la pandemia non ha visto morire nessuno di fame per avvalorare il   concetto che per ora si muore di virus. Auguro di cuore che né lui né suoi familiari si trovi mai nella situazione di conoscere il morso della fame, della perdita di dignità, dell’indigenza che porta a stendere la mano a chi ha vissuto onestamente del proprio lavoro. Il presidente della repubblica nella sua olimpica serenità probabilmente anche lui non ha declinato nella sua vita la parola fame. Il suo invito tardivo alla collaborazione e all’unità nazionale avviene fuori tempo massimo. Vedremo l’esito delle elezioni americane che aiuteranno a trovare un bandolo della matassa.  Per ora è buio completo e. Nessuno sa quando e come ne usciremo.

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

La Corte costituzionale ha deciso a proposito della decurtazione delle pensioni voluta dal Governo giallo-verde Conte 1. E, all’esito dell’udienza del 20 ottobre e della conseguente Camera di consiglio, ha emesso il comunicato. Il titolo: “Pensioni di elevato importo: legittimo il “raffreddamento” della rivalutazione per un triennio, illegittimo il “contributo di solidarietà” oltre il triennio”. Ed ecco il testo:“La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Milano e dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, in relazione alle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di bilancio 2019 a carico delle pensioni di elevato importo. Le questioni avevano ad oggetto la limitazione della rivalutazione automatica per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a determinati importi (“raffreddamento della perequazione”) e la decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”). In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che è stato ritenuto legittimo il “raffreddamento della perequazione”, in quanto ragionevole e proporzionato. È stato ritenuto legittimo anche il “contributo di solidarietà” ma non per la durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato. Pertanto, il contributo rimarrà operativo per tutto il 2021. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane”. Non è bene commentare una sentenza che ancora non c’è. Infatti non lo facciamo, ma dal comunicato stampa possiamo trarre qualche elemento per brevi considerazioni con riguardo alle due misure oggetto del giudizio, il “raffreddamento della perequazione” e la “decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”)”. Ora non è dubbio che, pur in relazione alla finalità di “contenimento della spesa previdenziale”, le due “misure” sono molto diverse. L’una incide sulla “rivalutazione automatica” per il triennio 2019-2021, con una limitazione dell’aspettativa assicurata ai pensionati dalla legge che ne ha disciplinato il trattamento pensionistico, l’altra, il “contributo di solidarietà” attua un vero e proprio esproprio di parte della pensione di quanto previsto dall’ordinamento in relazione ai contributi obbligatori versati negli anni nei quali il dipendente ha prestato servizio, spesso anche al di là del periodo utile a pensione (40 anni). In tal caso contribuendo obbligatoriamente ad una esigenza di solidarietà. Orbene, alla provvista delle risorse necessarie per la spesa pubblica, compresa quella previdenziale, gli stati ricorrono di regola a carico della fiscalità generale che consente la modulazione del prelievo in relazione all’ammontare del reddito, con distribuzione equilibrata sulla platea dei contribuenti. Invece, con una disposizione, alla quale con ardua motivazione la Corte ha in passato negato la natura sostanzialmente tributaria, il “contributo di solidarietà” è stato inquadrato dal Giudice delle leggi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge ex art. 23 Cost. (tra le quali ricorrono senza dubbio i tributi), avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori, e di realizzare “un circuito di solidarietà interna al sistema previdenziale, evitando una generica fiscalizzazione del prelievo contributivo” (Corte cost., ord. n. 22 del 2003; sent. N. 178 del 2000).

Contemporaneamente la Corte aveva chiarito che, in linea di principio, il contributo di solidarietà non deve esorbitare dai “limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016). Con riserva di commentare quel che si leggerà nella sentenza, fin d’ora sembra opportuno sottolineare che il principio di affidamento non ha rilevanza esclusivamente interna, tra il pensionato e lo Stato, sia pure impersonato dall’ente previdenziale. Il mancato rispetto del patto intercorso tra lo Stato ed il dipendente, il quale in corso di attività ha puntualmente versato i contributi previdenziali previsti, nell’aspettativa, giuridicamente tutelata, di ottenere al momento del collocamento a riposo un determinato trattamento pensionistico, mina gravemente l’immagine e la credibilità dello Stato anche agli occhi degli investitori in titoli pubblici, i quali possono essere indotti a ritenere non affidabile uno Stato che manca alla parola data nell’ambito di un rapporto nel quale ad una prestazione (l’attività lavorativa del dipendente) deve necessariamente corrispondere una retribuzione attuale (in costanza di lavoro) e differita (in quiescenza), come definita nella legislazione. Ricordiamo anche come la Corte avesse sostenuto che un contributo sulle pensioni costituisce comunque una misura del tutto eccezionale, “nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016), cosa che, invece, è puntualmente avvenuta con la normativa oggetto del giudizio. Per essere solidaristico e ragionevole la Corte aveva segnalato che “le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura” (in termini ancora Corte cost., sent. n. 173 del 2016). In sostanza deve considerare lo standard di vita della persona, come realizzatosi nel tempo attraverso il trattamento stipendiale e, poi, quello pensionistico. Cosa che la dimensione del prelievo non assicura. Leggeremo, dunque, nella sentenza come la Corte, che aveva già ritenuto “al limite” della costituzionalità il precedente contributo di solidarietà istituito con l’art. 1, comma 486, della l. n. 147 del 2013, pur “misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta”, può aver giustificato un ulteriore contributo di solidarietà, peraltro con aliquote molto più elevate di quelle previste dal precedente e per un periodo ben più lungo, con l’effetto di trasformare un istituto eccezionale in uno strumento ordinario di alimentazione del sistema di previdenza, in manifesta violazione dei canoni di proporzionalità, ragionevolezza e legittimo affidamento. E, dunque, ha previsto che tre anni debba essere il limite, con riferimento “all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato”, che è evidentemente uno richiamo metagiuridico che mina l’affermata natura non tributaria della norma, in quanto il bilancio dello Stato si alimenta proprio da entrate di natura fiscale. La perdurante crisi del sistema previdenziale non può infatti ritenersi da sola sufficiente a giustificare la compressione del legittimo affidamento dei pensionati alla percezione del trattamento previdenziale come effettivamente già maturato ex lege. Al contrario, i medesimi soggetti che si sono visti gravati del contributo di solidarietà per il triennio 2014-2016, vedranno ancora una volta decurtato, e in misura nettamente superiore, i dovuti emolumenti pensionistici anche per il prossimo quinquennio 2019-2023. E c’è da scommettere che non sarà l’ultima volta.

Sicché la misura costituisce una mera “tassa sulla ricchezza”, rappresentata dall’entità della pensione percepita. Tassa evidente anche nelle dichiarazioni con le quali i decisori politici hanno accompagnato la scelta legislativa, insistendo sulla definizione di “pensioni d’oro”, così intendendo colpire i percettori di tali assegni, neppure per esigenze immediate del sistema previdenziale, considerato che le somme prelevate vengono accantonate, ma sostanzialmente per “punire” coloro che quegli assegni avevano percepito. Ci sarà adesso chi gioirà per questa pronuncia, trascurando che il mancato riconoscimento dei diritti maturati da cittadini che hanno versato allo Stato per anni contributi, a fronte della una promessa ad ottenere una determinata pensione, in violazione di principi elementari di diritto, attua una lesione che apre la strada ad altre possibili manomissioni di diritti fondamentali di natura economica che la Corte costituzionale avrebbe dovuto tutelare. Invece questo Giudice, che nasce politico, in quanto per due terzi formato da soggetti nominati o eletti dalla politica, con la giustificazione di essere in tal modo idoneo a percepire il comune sentire della gente rispetto alle regole della Costituzione, appare progressivamente sempre più sensibile alle esigenze della politica in un contesto, quello del circuito Governo – Parlamento dominato da una casta di una modestia mai in precedente vista. Che fa temere, in relazione alle crescenti difficoltà dell’economia e della finanza, nuove possibili manomissioni di diritti acquisiti. Di qui il titolo “Non c’è un Giudice a Roma”.