L’Italia in pillole
di Giuseppe Borgioli
All’assemblea costituente e negli anni successivi quando la sinistra aveva la vittoria in tasca, Pietro Nenni, il leader del socialismo, e Palmiro Togliatti, il capo carismatico del PCI, erano critici sul regionalismo. Rimase famosa lo slogan di Nenni che paventava la riduzione dell’Italia in pillole. Un piccolo assaggio di questa profezia l’abbiano sperimentato nell’era del Covid-19 quando ciascuna regione ha messo in campo le sue ricette e le sue norme. Il governo avrebbe dovuto riservarsi la funzione di concertatore ma ben presto sono emersi numerosi i conflitti di competenza. Il federalismo a geometria variabile si è risolto in un livello discreto di confusione. Il ministro Boccia competente per i rapporti stato-regioni si è trovato nella necessità di faticose trattative che si sono concluse spesso con il compromesso. Non abbiamo mai creduto sulla alternativa o regionalismo radicale o centralismo burocratico. L’unità d’Italia ha dato i suoi frutti migliori quando ha saputo declinare la centralità delle funzioni politiche con la varietà delle tradizioni locali e regionali. Nella Monarchia questa duplicità è fonte di libertà e pluralità- Si pensi si nomi dei reggimenti che un tempo erano riferiti anche ai territori di reclutamento. La Monarchia ha sempre esaltato la diversità che non sia disgregazione. Semmai il centralismo e l’uniformità sono propri della visione giacobina e rivoluzionaria della società. Lo stesso richiamo di “cinque stelle” alla piattaforma Rousseau sottende a questa aspirazione alla democrazia diretta, all’ uniformità della rete, all’appiattimento della persona con il suo bagaglio di sentimenti e di emozioni. Le regioni nacquero principalmente come compartimenti statistici, in qualche caso riproducevano i confini dei gli stati preunitari. Il dato unificatore fu il Re. Che cosa sarebbe stata l’Italia senza Vittorio Emanuele II che giustamente appelliamo “Padre della Patria”? Che nessuno si scandalizzi se diciamo che senza la svolta unificatrice di Casa Savoia, le voci dei patrioti avrebbero dato vita a tante invocazioni d’Italia senza un quadro concreto di azione. Come vede il ministro Boccia, prima di lui c’è una storia viva. L’Italia non è nata ieri anche se qualcuno ha l’ardire di additare questa crisi come la più grave della storia nazionale, quasi fosse la prima. Mario Draghi il “super Mario” nel suo discorso al meeting di Comunione e Liberazione ha detto con l’autorevolezza che gli è congeniale che i giovani non possono essere considerati assistiti a vita. È vero, i giovani hanno tutto il diritto di essere presi sul serio. Hanno anche diritto a essere riconosciuti e trattati come figli adulti di una nazione che ha una storia alle spalle e non è un brefotrofio.
di Salvatore Sfrecola
(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
Il nuovo strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (SURE), pensato per aiutare a proteggere i posti di lavoro e i lavoratori che risentono della pandemia di coronavirus, è dotato di 100 miliardi di euro in forma di prestiti, concessi agli Stati membri a condizioni favorevoli. Di questi 28 circa saranno destinati all’Italia e concorreranno a coprire i costi direttamente connessi all’istituzione o all’estensione di regimi nazionali di riduzione dell’orario lavorativo e di altre misure analoghe per i lavoratori autonomi introdotte in risposta all’attuale pandemia di coronavirus. Naturalmente l’Europa ci chiederà garanzie quanto alle procedure di erogazione ed ai controlli. In questo contesto, si è fatto notare ieri nella Conferenza stampa indetta dall’Associazione Magistrati della Corte dei conti, la limitazione della responsabilità per danno erariale alle sole ipotesi di dolo, tra l’altro nella configurazione penalistica, costituisce una garanzia insufficiente in caso di condotte gravemente colpose che, se il decreto legge semplificazioni sarà approvato com’è scritto, non saranno più perseguibili con possibilità di condannare il responsabile al risarcimento del danno. Ecco dunque che i magistrati contabili spiegano le ragioni della loro opposizione alla nuova norma che svuota completamente la responsabilità per danno erariale. Non è una rivendicazione corporativa, spiegano, ma un’azione a tutela del pubblico erario e nell’interesse dei cittadini che pagano imposte e tasse. E, appunto, anche della credibilità dell’Italia difronte all’Europa che metterà a disposizione ingenti risorse per la ripresa dell’economia. Ci tiene molto l’Associazione Magistrati della Corte dei conti a sottolinearlo in una conferenza stampa via teams, che manda in onda la protesta nei confronti del Governo che nel decreto-legge “semplificazioni” ha escluso che i pubblici amministratori e dipendenti siano chiamati a risarcire danni commessi con “colpa grave”. Si fa notare l’evidente contraddizione di un Governo che, mentre dice di voler semplificare le procedure amministrative e contabili, invece di mettere a disposizione dei suoi funzionari strumenti operativi più adeguati, attua un preventivo “colpo di spugna” in favore di disonesti e incapaci che abbiano causato danni all’erario con una condotta caratterizzata da gravissima negligenza e imperizia o trascuratezza delle regole. Insomma, non si aiutano i bravi, che sono senza dubbio la maggioranza, ma incapaci e disonesti. È una lesione grave dell’interesse pubblico alla corretta gestione della finanza e del patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, ha sottolineato il Presidente dell’Associazione, Luigi Caso, che è anche l’interesse dei cittadini-contribuenti cioè di quanti, pagando imposte e tasse, assicurano ai bilanci pubblici le risorse necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica. Oggetto specifico di queste critiche è l’art. 21 del DL semplificazione il quale, dopo aver integrato l’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, secondo il quale la responsabilità per danno erariale può essere affermata solo in caso di dolo o colpa grave, specifica che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” Ma la lesione degli interessi pubblici lamentata dal magistrati della Corte dei conti sta al punto 2 dove si legge che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. La critica è scontata per chiunque abbia un minimo di conoscenza delle procedure amministrative. Dov’è la semplificazione? L’eventuale azione di responsabilità della Corte dei conti è sempre successiva alla realizzazione di un’opera pubblica o all’emanazione dell’atto. “Pertanto – sottolinea l’Associazione Magistrati –, eliminando la colpa grave non si accelera nulla e, quindi, è più corretto parlare di norma di deresponsabilizzazione. Non è neanche corretto dire che la norma serve a superare la c.d. “paura della firma”, che andrebbe combattuta rendendo più chiare le leggi. Invece, si preferisce lasciare in piedi una legislazione oscura e contraddittoria ma si assicura la totale irresponsabilità di chi deve attuarla (non si cura la febbre ma si rompe il termometro)”. E ricorda che nel 2019, a fronte di 28.722 denunce di danno, vi sono state 23.939 archiviazioni e 1.162 citazioni, cui hanno fatto seguito 934 condanne in primo grado. Nel corso dell’anno è stata recuperata all’erario la somma di euro 299.061.268, per lo più riferita a sentenze pronunciate negli anni precedenti. In parte somme dovute a sprechi di somme messe a disposizione dell’Unione Europea. Una norma assurda, dunque, che deresponsabilizza i pubblici amministratori e funzionari escludendo la “colpa grave”, quella “intensa negligenza, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, grave disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni, macroscopica violazione delle norme, un comportamento che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”. Un esempio che fa capire: chi ha sbagliato nella manutenzione del Ponte Morandi non lo ha fatto con dolo ma con colpa grave. Che senso ha una riforma che esclude queste responsabilità, tra l’altro a tempo, con effetti perversi su procedure che durano anni? Chi l’ha scritta evidentemente non conosce le regole. Considerazioni per il Governo ma anche per il Parlamento in sede di conversione del decreto-legge appena all’inizio.
LE NICCHIE DEI SANTI
di Giuseppe Borgioli
Lo strapotere dei partiti, noto come partitocrazia, sta dilaniano la nostra vita pubblica. Non c’é settore di attività dalla pubblica amministrazione, alle professioni, all’economia, alla cultura che non sia preso di mira dai partiti che dettano le loro regole. Tutto ciò che è commestibile è soggetto alla pratica della spartizione senza nemmeno preoccuparsi dello scandalo. L’olfatto degli Italiani si è abituato ai miasmi della vita pubblica. Uno dei padri della Patria, Marco Minghetti, scrisse un libro profetico dedicato ai partiti nella pubblica amministrazione che dovrebbe essere riletto se fosse stato ripubblicato e in circolazione da qualche parte, cosa di cui dubitiamo. Uno degli appuntamenti con la politica è la riforma della legge elettorale. Non è la prima volta che la repubblica si dà nuove regole d’ogni volta abbiamo dovuto tirare la marcia indietro. Ora a scadenza ravvicinata abbiamo in agenda anche il referendum costituzionale per la riduzione dei parlamentari, che di per sé non è una gran riforma capace di far decollare il nostro destino politico. Ma i “cinque stelle” l’hanno pretesa e oggi è al veglio del giudizio popolare. Soffermiamoci sulla legge elettorale che dovrebbe costituire il cuore di un sistema parlamentare. Per farla breve i principi che sovraintendono alla materia sono due: ii principio proporzionale e il principio maggioritario: Il principio proporzionale garantisce la rappresentatività del corpo sociale e il principio maggioritario assicura a chi ha vinto le elezioni di governare. Rappresentanza e governabilità sono i binari su cui scorrono le istituzioni politiche. Ci sono altri accorgimenti per far funzionare al meglio le istituzioni. Sicuramente le disposizioni di sbarramenti elettorali o soglie al di sotto delle quali non si riconosce rappresentanza parlamentare ai partiti sono finalizzate a impedire la dispersione dei voti e la atomizzazione della politica. I partiti si accingono ad affrontare questa scadenza more solito , ciascuno tenendo di mira il suo tornaconto elettorale. Ogni partito vorrebbe fissare la soglia sotto la quantità dei voti attribuiti dai sondaggi. Ciascun partito guarda alla legge elettorale per penalizzare o bloccare l’avversario. Una riforma elettorale nasce in un clima politico e culturale particolare. Per fare una legge elettorale coraggiosa ed equa occorre un ubi consistam che si riassume nello spirito della nazione. Non resta che predisporci alle discussioni infinite come fu nelle varie edizioni della bicamerale Il sistema dei partiti è più rinvigorito che mai. Aveva ragione Giovan Battista Giorgini, uomo politico devoto a Casa Savoia e al liberalismo nonché nipote di Alessandro Manzoni, che esortava l’opinione pubblica a vigilare. Non lasciate le nicchie perché vi ritorneranno il santi.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
Alla ricerca di alibi all’inconcludenza conclamata dell’azione amministrativa del Governo, Giuseppe Conte ha sposato acriticamente la tesi di quanti ritengono che la lentezza della burocrazia sia effetto del “timore della firma”, che i funzionari avrebbero in ragione della possibile imputazione di danno erariale da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. E pertanto, con l’art. 21 del decreto-legge semplificazione, in corso di conversione, ha previsto l’eliminazione tout court della responsabilità per “colpa grave” in caso dall’attività del funzionario o dell’amministratore pubblico sia derivato un danno erariale, cioè un pregiudizio alla finanza o al patrimonio dello Stato o di un ente pubblico, territoriale o istituzionale. Il Governo con questa norma, che è augurabile il Parlamento non converta in legge, dimostra due cose gravissime: di non considerare che si parla di danno alla finanza o al patrimonio pubblico, cioè ad un bene pubblico, in sostanza di tutti, e che la “colpa grave”, intesa quale requisito soggettivo per l’imputabilità del danno, consiste in una straordinaria negligenza, imprudenza o imperizia, che i romani sintetizzavano in una espressione estremamente eloquente: “non comprendere ciò che tutti comprendono”. E siccome Giuseppe Conte è un giurista, anzi un civilista che sovente ha difeso dinanzi alle Sezioni giudicanti della Corte dei conti, sa bene che la colpa grave è fattispecie che non si può espungere dalla responsabilità, pena la riduzione a zero del risarcimento per danno che lo Stato deve pretendere dal dipendente che non faccia il suo dovere. Ma c’è un altro e, per certi versi, più rilevante aspetto. Il timore della firma che il Governo cerca di esorcizzare escludendo la responsabilità in caso di colpa grave è addebitabile allo stesso Governo e al Parlamento. È, infatti, evidente per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Pubblica Amministrazione che il timore di sbagliare, che frena l’azione dei pubblici dipendenti, è conseguenza della farraginosità delle norme, non di rado illeggibili e confuse, come dimostra la giurisprudenza del Giudice amministrativo, Tribunali Amministrativi Regionali e Consiglio di Stato, che censurano quotidianamente comportamenti delle pubbliche amministrazioni viziati da violazione di legge o da eccesso di potere, cioè da un grave sviamento nell’esercizio della funzione pubblica. È sempre colpa dei funzionari distratti o impreparati? Non di certo. Il pubblico dipendente si trova spesso ad applicare norme di difficile interpretazione che richiedono chiarimenti con circolari anch’esse non di rado inintelleggibili. Giuseppe Conte ed i suoi ministri guardino all’interno degli apparati, considerino le norme che i funzionari sono tenuti ad applicare e si renderanno conto che il timore della firma è indotto non già dal timore della Corte dei conti ma dalle norme che devono applicare e che il potere politico ha predisposto in relazione ai vari procedimenti. Se si vuole semplificare si deve agire sulle attribuzioni delle amministrazioni e sui procedimenti che devono essere chiari, capaci di realizzare in tempi brevi (il tempo è un costo per l’Amministrazione e per i privati) le aspettative dei cittadini e delle imprese. È così che decolla l’economia mortificata dal blocco totale delle attività in ogni settore e non supportata da misure idonee alla ripresa, altro che esorcizzazione del danno erariale. È solo un mezzo di distrazione della gente che non conosce le regole e offende i funzionari onesti e preparati i quali non desiderano essere considerati degli incapaci che hanno bisogno di una tutela illogica e ingiusta, a protezione dei disonesti e degli incapaci.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
L’Amministrazione pubblica italiana ha costantemente meritato la “A” maiuscola. Nella fase di formazione dello Stato unitario e nella ricostruzione del Paese, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, ha dimostrato elevata professionalità in tutti i settori, amministrativi e tecnici; il “Genio Civile”, tanto per fare un esempio, ha rapidamente ripristinato le più importanti infrastrutture viarie e ferroviarie danneggiate o rese inservibili dagli eventi bellici. Tuttavia, da alcuni decenni i cittadini e le imprese ne denunciano in tutti i settori una generalizzata inefficienza, oggetto di ricorrenti segnalazioni da parte della stampa, e nulla fanno i governi di apprezzabile ed apprezzato per superare questa situazione, nonostante sia evidente che la politica al governo realizza gli obiettivi indicati nell’indirizzo politico emerso dalle urne e condiviso dalle Camere attraverso l’opera degli apparati amministrativi. Dovrebbe essere, dunque, prima di tutto il Governo a percepire l’esigenza di disporre di un apparato capace di realizzare gli obiettivi delle politiche pubbliche. E i governi in qualche modo sembra ne siano consapevoli. Infatti, fin dal dopoguerra è sempre stato previsto un ufficio della Presidenza del Consiglio, retto da un Ministro senza portafoglio, in vario modo denominato: riforma burocratica, riforma della pubblica amministrazione, semplificazione e quant’altro la fantasia ha consentito di definire. E tuttavia, ancora oggi, pressanti sono le esigenze di semplificazione dei vari procedimenti soprattutto di natura autorizzatoria. Il governo Conte gli ha dedicato un apposito decreto che unanimemente viene ritenuto assolutamente inadeguato. Basti pensare che, per esorcizzare il timore della firma, come si è letto più volte, è stata eliminata la responsabilità per danno erariale nelle fattispecie della “colpa grave” che, come abbiamo spiegato più volte, costituisce una gravissima negligenza e imperizia. Il fatto è che sfugge al Governo, e, quindi, alla politica, che l’Amministrazione pubblica non funziona per colpa della politica, perché è la politica che fa le leggi le quali delimitano attribuzioni e competenze degli uffici ed è la politica che definisce le procedure le quali costituiscono quell’inestricabile groviglio di adempimenti che costituiscono un peso per i cittadini e per le imprese, sconsigliate dall’investire (soprattutto le estere, abituate ad amministrazioni che non solo non frappongono ostacoli ma agevolano chi vuole intraprendere attività di produzione o di commercializzazione di beni). Quelle procedure, viste dall’operatore della P.A. rendono difficile la definizione delle pratiche per l’incertezza delle norme, spesso scritte male quando non incomprensibili. In questo contesto si manifesta il timore di sbagliare.Da qualunque parte affrontiamo il tema dell’Amministrazione incontriamo difficoltà e inefficienze e siccome, come dice un detto popolare, il pesce puzza dalla testa, è evidente che tra le varie disfunzioni, ad esempio riguardanti il reclutamento e la progressione nelle carriere che ha portato in posizioni di responsabilità soggetti assolutamente inadeguati, ce n’è una gravissima che sta scolpita in una norma di legge la quale consente al potere politico di nominare liberamente dirigenti. Senza una selezione, senza concorso, una serie di soggetti vicini alla politica assumono nell’ambito dell’Amministrazione responsabilità dirigenziali particolarmente importanti con un effetto deleterio. In quanto vengono assegnate funzioni rilevanti a soggetti privi di professionalità e di esperienza e perché queste promozioni mortificano i funzionari di carriera, quelli che un tempo si chiamavano direttivi, che nel privato sono i “quadri”, la forza della struttura, diretti da persone inadeguate e perché queste nomine tolgono spazio alle loro legittime aspirazioni. Alla ricerca dei più recenti motivi di disagio si ricorda negli anni 1992-1993 (Governo Amato – Ciampi) la scriteriata privatizzazione del rapporto di pubblico impiego proseguita nel 2001 con quella assurda riforma, fortemente voluta dall’allora Ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, che, con il sistema dello spoils system, ha inaugurato la stagione della dirigenza sottoposta al politico di turno.
Dopo la riforma della dirigenza attuata con la legge 748/1972, che prevedeva l’accesso con regolari procedure concorsuali aperte a tutti, con regole certe che consentiva ai migliori di raggiungere determinate posizioni di vertice, purtroppo le forze politiche hanno trascurato il merito e la legalità, con l’effetto di determinare un diffuso malcontento tra gli addetti ai lavori, costretti a sopportare macroscopiche ingiustizie. La situazione gravissima si è progressivamente aggravata per il fatto che la norma di riferimento, la quale prevede l’assunzione di estranei con funzioni di dirigente, nata per sopperire ad eventuali, rarissime situazioni di mancanza della specifica professionalità, è diventata, di fatto, un “dirigentificio” di gente spesso senza arte né parte. Ho premesso che la norma avrebbe un senso, perché può accadere che l’Amministrazione abbia bisogno di una professionalità che al suo interno non possiede. Caso rarissimo, tuttavia, perché l’Amministrazione italiana ha tutte le professionalità necessarie. Ha giuristi, economisti, statistici, medici, ingegneri di ogni specialità, civili, navali, aeronautici, per fare qualche esempio. Si tratta, quindi, nel caso in cui un’Amministrazione avesse l’esigenza di una professionalità al momento assente, di acquisire dalla struttura che, invece, la possiede, in comando o in altra forma qualunque di collaborazione, il professionista che occorre. Invece l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 ha creato un meccanismo perverso che consente la nomina di dirigenti anche tratti dalla stessa Amministrazione, un tempo previo un fittizio collocamento fuori ruolo, per apparire estranei, oggi neppure perché la norma è stata integrata dal duo Madia Renzi che ha reso possibile le nomine interne. A leggerlo com’è scritto l’art. 19, comma 6, sembra destinato all’assunzione di candidati al premio Nobel. Infatti, afferma che gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. Cominciamo col dire che il riferimento a magistrati, avvocati e procuratori dello Stato è come uno specchietto per le allodole. Dovrebbero fare come i gamberi, tornare indietro. Mentre le “concrete esperienze di lavoro” riferite alle amministrazioni “che conferiscono gli incarichi” è una palese contraddizione con la prevista assenza di professionalità. La ciliegina sulla torta dell’interesse della politica sta nella durata degli incarichi, che “non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Insomma il dirigente non solo ha ottenuto la nomina ma attende anche la conferma dallo stesso ministro che lo ha nominato, una condizione che lo rende naturalmente “prono” alla volontà politica dalla quale dipende il suo status. Considerato anche che “il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali”. La tanto sbandierata distinzione tra politica e amministrazione, stabilita dall’art. 3 del decreto legislativo n. 29 del 1973, finisce qui. Il politico si è tirato fuori da ogni responsabilità e la scarica sul funzionario che opera sulla base di direttive politico-amministrative. E la politica lo rassicura escludendo che possa essere chiamato a rispondere per “colpa grave” in caso causi un danno al bilancio pubblico. Con buona pace dei Costituenti, i quali avendo previsto che i pubblici dipendenti debbano essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), li ritrovano al servizio del politico di turno.