QUANDO LA CASA BRUCIA
di Giuseppe Borgioli
I fondi messi a disposizione dall’ Unione Europea si prenderanno la consistenza di moneta sonante in tempi che non è dato prevedere. Per ora resta l’ammontare del debito che lasciamo come onerosa eredità ai nostri figli e nipoti. Oh, lo sappiamo anche noi poveri provinciali che il debito si vende…… sino a che si trova da venderlo altrimenti non resta che trovare l’acquirente, questa volta non cinematografico, della fontana di Trevi. Non è difficile l’esercizio della Cassandra in una situazione così disastrata. Le finanze pubbliche servono solo per escogitare voci di debito atte a sanare temporaneamente gli interessi sul debito. Marco Minghetti e Quintino Sella inorridirebbero. L’Unita d’Italia è stata falla su ben altre basi e in tutti decenni successivi la linea del Piave della buona finanza è stata osservato scrupolosamente. Anche all’indomani della seconda guerra mondiale, le finanze italiane seppero stare al passo con le necessità insorte. Come è accaduto improvvisamente che prendesse piede questa ubriacatura della spesa facile e del debito insolvente per definizione è un mistero che anch’io non riesco a spiegarmi. Illustri accademici, premi Nobel, e si parva licet i nostri esperti di economia che non volevano passare da provinciali si sono prodigati nel giustificare la moltiplicazione del debito con la illusione come nella commedia dell’arte che qualcuno pagherà. Oggi la situazione è così degenerata che nessuno ha il buon gusto di parlare del debito in società. Tutti fanno a gara, destra e sinistra, nel promettere e accennano al debito solo per dire come spenderlo. Conosco anch’io, perché le ho studiate, le teorie di Keynes e non faccio uno sforzo per capire le buone intenzioni dell’economista inglese cha infine ebbe ad affermare “perché non sono Keynesiano”. Spendere è più facile che risparmiare. Lo sanno bene i politici di mestiere che non pronunciano volentieri il monosillabo “no”. Sergio Ricossa aveva scritto in tempi non sospetti un divertente libretto dedicato principalmente alle nuove teorie economiche e monetarie: “I fuochisti della vaporiera”, poiché se la locomotiva del debito pubblico ha progredito a ritmi impensabili vuol dire che c’è stato chi non ha fatto mancare il combustibile. Negli ultimi 40 anni non mi risulta che ci sia stato governo o ministro delle finanze che sia andato in contro tendenza. Tutti, destra e sinistra, spendaccioni? Quale diabolico spiritello si è impossessato delle nostre menti e dei nostri stili di vita? Siamo stati frugali anche noi, per la verità siamo stati poveri. Forse proprio la nostra antica povertà ci ha portati al consumismo dei nostri tempi, al possedere come febbre collettiva. Ma le cose stanno prendendo una brutta piega e a nulla valgono le trovate furbesche. Mi ha molto colpito una intervista di un programma di storia alla Regina Maria Josè andato in onda la scorsa settimana. Alla domanda di un anonimo intervistatore come Sua Maestà avesse trovato la forza di fare quello che fece in un momento di vera emergenza, la Regina ha sussurrato con un fil di voce: “Quando la casa brucia…”
L’Unione Monarchica Italiana china il Tricolore del Regno d’Italia per la scomparsa dell’’Avv. Pietro Luca di Windegg, conte, storico esponente monarchico, Membro del Consiglio dei Probiviri dell’Unione Monarchica Italiana, Membro della Consulta dei Senatori del Regno, stringendosi con affetto alla famiglia.
Conte Avv. Pietro Luca di Windegg
di Davide Simone
Tra l'800 e i primi del '900, il francese e l'inglese si affermarono e imposero come lingue delle elites liberali e delle borghesie urbane più avanzate, creando in qualche caso una grave frattura con aree meno istruite della popolazione, spesso legate a dialetti locali o comunque a lingue diverse. E' ad esempio il caso del Sudafrica, dove l'olandese parlato dai ceti popolari veniva definito con disprezzo "lingua per le cucine" (kombuistaal), del Belgio, dove l'introduzione dell'obbligo scolastico venne inteso come un tentativo di imporre il francese (le élites famminghe lo avevano scelto quale lingua ufficiale) e del Canada, dove gli elettori francofoni delle province del Manitoba (1890-1896)) dell'Ontario (1912) e del Québec si mobilitarono contro i governi liberal-conservatori. Fratture aggravatesi nel momento in cui le fasce più povere ebbero accesso al voto, potendo quindi rivendicare i loro diritti anche in materia linguistica e culturale, e con l'affermarsi del nazionalismo, che individuò nell'elemento linguistico (e in quello religioso) l'architrave del modello di Stato. Come a riguardo spiega Ronza, « In Sudafrica, nel Canada francese e nel Belgio fiammingo, quindi, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento la difesa dei diritti della lingua territoriale entra a far parte degli obiettivi politici delle forze politiche verso cui si dirge il supporto della Chiesa e dell'elettorato cristiano-confessionale. La ricerca di un compromesso con la classe dirigente liberale, preferito dalle élites fondiarie alla guida di questi partiti fino agli anni Ottanta, conduce ad alcuni accomodamenti temporali, come le leggi sulle scuole confessionali in Canada e quelle che autorizzano l'uso dell'olandese nelle aule parlamentari e giudiziarie nelle province fiamminghe del Belgio (1873-1877) e nella Colonia del Capo (1882-1887) [...] Insieme con la difesa dello status della religione e della protezione degli interessi della piccola proprietà e della classe operaia, la rivendicazione dei diritti e della dignità della "lingua del popolo" diventa quindi una delle bandiere dei movimenti cristiano-popolari. Come il movimento cattolico-sociale belga parlerà fiammingo, il Sudafrica riformato-olandese si legherà all'afrikaans e il cattolicesimo quebecchese identificherà nella difesa del francese il baluardo indispensabile per la sopravvivenza della "civiltà cristiana" nel Nordamerica » .Di nuovo, «il progetto di un'alleanza organica tra lo Stato e la Chiesa si riproporrà ancora, ma su basi diverse, negli anni Venti e Trenta del Novecento. Nel primo dopoguerra, i nuovi movimenti nazionalisti fautori della costruzione di uno "Stato forte", costruito su basi neo-corporative, individuano nella Chiesa, oltre che nella lingua nazionale, l'espressione dello "spirito" di una Nazione ormai pronta per emancipasi dal cosmopolitismo, dal materialismo e dall'individualismo della civiltà borghese. In Belgio e in Canada, questa linea è fatta propria dai nuovi movimenti come Het Vlamsche Front e Verdinaso nelle Fiandre e la Lingue d'action nationale, Jeane Canada e l'Action Libérale nationale in Québec, che nei decenni tra le due guerre raccolgono consenso tra le nuove generazioni e i ceti medi e contribuiscono alle mobilitazioni che portano alla proclamazione della lingua fiamminga come unica lingua ufficiale nelle province settentrionali (1921-1932), all' "olandesizzazione" dell'Università di Gent (1930) e alla campagna contro la coscrizione obbligatoria nel Canada francese (1942). »A differenza di quanto avvenuto in questi importanti paesi occidentali, che ottennero l'indipendenza nello stesso periodo dell'Italia, nel nostro Paese non si verificò mai un conflitto così aperto su base linguistica e religiosa, neanche dopo l'accesso al voto dei ceti meno abbienti ed istruiti. Questo perché, contrariamente ad una certa mitologia a-storica e anti-storica (spesso d'impronta anti-nazionale), in Italia esisteva ed esiste una lingua autoctona e comune, alla quale i vari idiomi locali sono intrinsecamente legati. Allo stesso modo, il cattolicesimo è la religione largamente più diffusa e accettata. Anche sotto il profilo linguistico
di Gaspare Battistuzzo Cremonini
La civiltà del duello
Nei mesi scorsi abbiamo assistito alla nascita di una nuova campagna denominata Odiare ti costa e volta, secondo i suoi organizzatori (tutti, pressappoco, riconducibili alla galassia del mondo liberal), a colpire gli ‘odiatori seriali’ o i ‘leoni da tastiera’, secondo le nuove denominazioni in uso: insomma coloro che scatenerebbero la loro ira trincerandosi dietro ad un computer o all’anonimato dei social.
Questa campagna, per quanto motivata dalle migliori intenzioni, disvela in modo plateale uno dei gravi problemi identitari che caratterizzano le comunità del capitale postmoderno: il passaggio dalla società dei soldati eroi a quella dei banchieri avvocati. ‘Con l’eliminazione del diritto del più forte si è introdotto il diritto del più furbo’, diceva Schopenhauer, e vien da credergli, magari semplicemente sostituendo a quel ‘più furbo’ un ‘più ricco’ (che poi in fondo spesso è la medesima cosa).
La frase del filosofo tedesco ci dice però che non è sempre stato così. Non si ricorreva sempre a tribunali, avvocati e denaro sonante per risolvere le contese che animavano le vite dei nostri avi, a torto troppo spesso considerate monotone.
E’ il 20 luglio del 1950 e il giovane Oscar Luigi Scalfaro, già in odore di buona carriera democristiana anche se non ancora di santità presidenziale, sta pranzando con amici nel ristorante romano ‘Da Chiarina’. Di colpo si alza e si dirige verso una signora che mostra le spalle nude (si è tolta un prendisole) e ne nasce un alterco tra lei e lui, col futuro Presidente che la rimprovera – secondo le ricostruzioni, - per la dubbia moralità mostrata nel porgere le spalle nude ai commensali.
Scalfaro cade male perché la signora è moglie di militare e figlia di alto ufficiale: il politico democristiano riceve un cartello di sfida a duello da entrambi nonché, infine, dalla stessa donna, valente schermitrice. Il futuro Presidente declina i cartelli di sfida (ma senza scusarsi, come avrebbe voluto il Codice) asserendo che la sua morale cristiana gli impedisce di accettare un duello: persino Totò però lo rimprovera, con una lettera aperta ad un giornale, pagando poi, si dice, l’ira dello Scalfaro quando questi diviene capo della Commissione Censura Cinematografica.
Lo ‘scandalo del prendisole’ tenne banco sui giornali ed in Parlamento per settimane, con i cattolici che difendevano l’operato di Scalfaro e i laici, di destra soprattutto ma anche di sinistra, che lo censuravano per via dello scarso coraggio dimostrato e lo tacciavano di fellonia. La vicenda infine si concluse, più o meno, con una vertenza legale e non se ne seppe più nulla.
Certo Scalfaro rappresenta benissimo il già citato passaggio dalla società epico-eroica alla società borghese-prosastica, dove nulla si vuol rischiare ed in cui più volentieri si paga il riscatto dell’onore col denaro piuttosto che con la vita.
Eppure di duelli famosi ce ne furono, letterari e non, italiani e non. Quello letterario più famoso, tralasciando magari la Disfida di Barletta immortalata nell’ Ettore Fieramosca del D’Azeglio, resta sicuramente quello tragico dell’Onegin di Puŝkin. Di quelli invece reali, val la pena ricordarne uno in cui noi italiani facemmo bella figura: avvenne il 15 agosto 1897, nei pressi di Versailles, e vide vincitore Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta, il Conte di Torino, cugino del Re d’Italia, sul principe Henri d’Orléans, reo d’aver infamato la reputazione dei soldati italiani, reduci dalla disfatta di Adua, sulle colonne del Figaro.
Duelli ne fecero Benito Mussolini, Raimondo Lanza di Trabia, Felice Cavallotti, Giuseppe Ungaretti, Marcel Proust, Lev Tolstoj ma anche donne, come testimonia il celebre caso della contessa di Polignac e della marchesa di Nesle, che si contendevano i favori d’un aristocratico amante.
Pensiamo soltanto a quante volte, anche in televisione o sui giornali, sentiamo politici o personaggi noti in genere che si lanciano offese le peggiori, come fossero acqua fresca, come si giocasse ‘a chi la spara più grossa’ e nulla avesse davvero valore; poi, appena conclusa la trasmissione, tutti a telefonare al proprio avvocato per intentare le solite cause per diffamazione delegando la difesa del proprio onore a qualche burocrate con carte bollate e tasse di registro.
Quanto sarebbe più utile far risorgere il duello d’onore! Non già per far spargere più sangue ma, al contrario, per insegnare alle persone a misurare le parole: se offendere ti potesse costare la vita o perlomeno una sonora ammaccatura, oltre che l’umiliazione d’aver perduto una tenzone, di certo chiunque starebbe assai attento prima di lanciarsi in affermazioni azzardate.
Del resto, per i più pavidi, il Codice del Duello ha sempre previsto la possibilità di scusarsi con educazione e di scampare la spada o la pistola.
IL POSTO A TAVOLA
di Giuseppe Borgioli
La mia famiglia era povera, misera non miserabile, con i miei genitori che tenevano a un certo decoro. Uno dei riti principali della mia famiglia era il posto a tavola. Mio padre era il capotavola che rispecchiava la sua condizione di capofamiglia. Di fronte a lui sedeva mio fratello di molti anni più vecchio di me. Io sedevo di fronte alla mamma che si posizionava in modo da essere sempre disponibile, il più delle volte stava in piedi e pronta a governare la tavola. Ho sempre pensato che la nostra tavola con i posti assegnati ì per una consuetudine che nessuno di noi osava mettere in discussione fosse un piccolo capolavoro di armonia politica e istituzionale. Ad ogni posto corrispondeva un livello espresso o inespresso di autorità. Se qualcuno mi domandasse se nel mio piccolo mondo domestico era più importante il ruolo di mio padre o di mia madre avrei un po’ di esitazione nel rispondere. Non lo so se la costituzione repubblicana, uscita dal compromesso, sia la “migliore del mondo” secondo la vulgata ripetuta in ogni occasione, ma posso assicurare che il modello di convivenza e codecisione attuato nella mia famiglia aveva molto da insegnare ai nostri padri costituenti. Ogni ruolo obbediva a una logica naturale senza prevaricazioni o abusi. Nella mia famiglia si guardava con sospetto al ”gerarchismo” che si attribuiva al peggior fascismo puntualmente reincarnati nella insorgente partitocrazia. Dopo più di 70 anni siamo ancora al punto di partenza. Riconoscere il posto a tavola come galateo istituzionale non scritto ma impresso nel carattere (direi nello stile) della gente, anche dei politici. Fra poco più di un anno e mezzo avremo le elezioni presidenziali che ci hanno abituato ad uno sorta di “caos calmo“ all’interno del sistema politico. Non è più solo questione di uomini o di partiti . Ormai è solo lotta per il potere, che si esercita per bande . Non riusciamo a metterci d’accordo nemmeno su chi ha il compito di sparecchiare le tavola. Sarà divertente (per noi motivo di sofferenza) assistere allo spettacolo di queste elezioni presidenziali. I buffet della politica saranno assaltati dai nuovi “padroni”. Capisco che Matteo Renzi non voglia perdersi l’ occasione e tenti di tenere in vita la legislatura. Il suo protagonismo lo ucciderà. Ma quanti nemici ha questo “regime”: Renzi, Salvini, Di Maio, Conte…..Ritornano di moda i “salvatori della patria”. Povera patria, con questi candidati salvatori non c’è da sperare bene. Rimane il rimpianto di quei posti a tavola che segnavano la regola di una antica compostezza . L’ho capito tardi. Allora da ragazzo non davo importanza a questi dettagli. La vita autentica è fatta di dettagli.