(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
di Salvatore Sfrecola
La “Disfida di Barletta”, com’è definito il torneo che il 13 febbraio 1503 ha opposto 13 cavalieri italiani ad altrettanti francesi, in un tratto di campagna tra Andria e Corato, nei pressi della città di Trani, all’epoca sotto la signoria di Venezia e, pertanto, in campo neutro, è da sempre oggetto dell’interesse degli storici, non solamente di questioni militari, perché ci fa conoscere una realtà che spesso è rimasta in ombra. Quella che nei ”secoli bui”, quando l’Italia era terra di conquista e di scontro tra potenze straniere, c’era chi, pur suddito di qualche principe o re o di un comune, nondimeno si sentiva italiano e rivendicava l’onore di una storia straordinaria, quella di Roma, l’emblema stesso della civiltà occidentale e cristiana. L’evento ha anche interessato una personalità della cultura e della politica risorgimentale, Massimo d’Azeglio che nel 1833 scrive “Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta”, un romanzo storico “per fare l’Italia”, scrive Guido Davico Bonino in apertura della presentazione del volume nell’edizione del 2010.
Era il 15 gennaio 1503, quando, nel corso di un banchetto organizzato da Consalvo da Cordova in una cantina locale (oggi chiamata Cantina della Sfida), Guy de la Motte, capitano francese, contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia. Lo spagnolo Iñigo López de Ayala, invece, li difese con forza, affermando che i soldati che aveva avuto sotto il suo comando potevano essere comparati ai francesi quanto a valore.
E così, come si legge nel “De pugna tredecim equitum”, che in data 28 febbraio 1503, quindi proprio all’indomani della disfida, Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, inviò al suo collega e amico Crisostomo Colonna, riferisce che i francesi, presentati come degli sbruffoni che, per bocca del Signor de la Motte osano “contra Italos… blaterare” definendoli “infidos et perfidos” che “haveano fede di vento e che nessuno si potea fidare di loro”, e, in quanto tali, indegni di essere annoverati tra i cavalieri. Gli italiani rispondono ricordando loro di essere degni eredi dei romani che avevano dominato il mondo e che avevano soggiogato proprio quei Galli dei quali ricordavano anche le consuetudini barbare, dediti com’erano stati a sacrifici umani. Da parte loro i siciliani, che parteciperanno alla disfida, ricordavano di essere discendenti di coloro che, insorti contro l’occupazione francese, li avevano cacciati il lunedì dell’Angelo del 1282, all’ora dei Vespri.
Si decise così di risolvere la disputa con un torneo: la Motte chiese che si sfidassero tredici (in origine dieci) cavalieri. E rifulse il valore degli italiani, la loro capacità di gestire il torneo, di contrastare ed abbattere gli avversari, a cavallo ed a piedi, con la lancia, la spada e l’ascia. Chi li guidava, Ettore Fieramosca, nobile capuano al servizio di Prospero Colonna, serbava il ricordo e lo sdegno per lo scempio che nella sua città avevano operato i francesi, senza pietà per vecchi, donne e bambini, “scelleratezze degne di eterna infamia”, scrive Francesco Guicciardini.
E l’insolenza francese fu castigata dalle spade italiane.
La disfida di Barletta, un episodio che è divenuto presto un evento, dà luogo a varie riflessioni tra le quali mi sembra importante sottolineare come emerga un sincero senso di appartenenza, di italianità in un momento storico particolare, in una Italia nella quale si scontrano eserciti stranieri, in questo caso francesi e spagnoli, per la supremazia di una fetta del territorio italiano, il regno di Napoli. Tuttavia, pur se non si combatte per l’Italia questi uomini hanno il senso forte della italianità, l’onore di tutta l’Italia e si sentivano di dover rivendicare il valore degli eredi di quei romani che “già tutto il mondo domato avevano”.
E se l’Italia da anni era percorsa da eserciti stranieri, i principali responsabili di ciò erano i suoi principi con le loro ambizioni e le loro rivalità. Pertanto viene considerato traditore l’italiano, piemontese di Asti, Graiano, il quale combatte con i francesi. Ora quando Dante dice “ahi serva Italia” è questa condizione che denuncia e questi italiani rivendicano l’onore nei confronti dei barbari che l’avevano invasa e saccheggiata. Questa rivendicazione costituisce il filo conduttore delle appassionate pagine di Guicciardini. L’Italia vi è descritta come un territorio di libertà, i cui abitanti neque jugum neque injurias, nisi vi coacti, ferre queunt. È tutto un elogio della libertà italiana, tanto più significativo in quanto viene attribuito a uno spagnolo, Iñigo López che nella sua replica alle provocazioni di La Motte non aveva mancato di ricordargli che gli italiani nos et vos, et barbaros et mancipia regum dictitant.
Di tale libertà i 13 di Barletta sono i difensori.
Lo ricorda bene Francesco De Santis nel suo volume nel quale, nel 1866, commemorando d’Azeglio a Napoli, nella chiesa di San Francesco da Paola, racconta delle speranze dell’Italia del 1833 e ricorda che correva di mano in mano l’Ettore Fieramosca. “E bevevano a larghi tratti l’orgoglio di quello che fummo e accompagnavamo palpitando alla pugna Ettore e Fanfulla. Ricordo con quanta indegnazione seguivamo i passi di colui, che italiano combatteva contro italiani accanto allo straniero. Ricordo con quale accento dell’anima accompagnavamo le parole di Ettore, quando, gettatolo giù del cavallo, gli diceva: “sii maledetto! o nemico del tuo paese”. E noi raggiungevamo: “Siate maledetti, voi che pregate per la vittoria dello straniero, voi che desiderate lo straniero a casa!”. Ne’ nostri animi c’era il 48, c’era già l’Italia, e noi ne dobbiamo essere grati a quella eletta schiera di cittadini che cospiravano alla faccia del sole col pennello e con la penna”.
DEUS EX MACHINA
di Giuseppe Borgioli
Qualcuno abituato ai toni drammatici ha salutato il presidente incaricato Mario Draghi come il segnale di una nuova fase della vita politica, il terzo atto della repubblica. Era stato toccato il fondo e non restavano più carte nel mazzo.
Mario Draghi, non è solo una grande commesso di stato a livello europeo che in molti ci invidiano, ma anche e soprattutto per la sua dirittura morale e pubblica. Mario Draghi è il governatore della Banca d’Italia che in una risposta rimasta storica al deputato Raffaele Costa ha dichiarato a suo tempo la disponibilità ad aprire al pubblico il tesoro della Corona dei Savoia che come tutti sanno è custodito in quel forziere. Avrebbe potuto dare delle risposte evasive o non dare riposte, ma si è comportato come il custode di un tesoro che non è suo e risale alla storia Nazionale di una Dinastia che ha dimostrato di tenere in considerazione. Con gli esempi che corrono, questo comportamento non è apparso scontato e ha dimostrata un ossequio non solo formale alla storia e alla verità. Del resto, Luigi Einaudi si sarebbe comportato allo stesso modo. Ma il nostro panorama politico e bancario non è stato popolato solo da allievi di Luigi Einaudi.
Maestro di Mario Draghi è stato anche quel Federico Caffè, figura singolare della vita accademica e civile. Riconosciamo a Sergio Matterella di aver agito con discrezione, di essere riuscito laddove fallì Francesco Cossiga sconfitto dalla partitocrazia.
Mario Draghi ha davanti a sé una strada lunga e difficile. Ancora una volta la eterogenesi dei fini ha avuto la parola definitiva Matteo Renzi. Nicola Zingaretti che credeva di tenere il mazzo delle carte è stato messo ai margini del nuovo corso politico. La crisi di governo voluta da Renzi ha prodotto Mario Draghi.
Quello che ci induce a sperare è che Mario Draghi non è solo un tecnico, è anche un esperto in umanità che sa prendere le decisioni.
A Mario Draghi ci permettiamo di dare qualche consiglio.
Primo. Non fondi un partito e si guardi da tutti quelli che gli faranno simili proposte. Non faccia neanche dei suoi estimatori qualcosa che rassomiglia a un partito. Abbia come esempio Luigi Einaudi che ha ripercorso una carriera simile alla sua. Forse Einaudi era più un fisiocratico che un finanziere. Ma tutti e due amano il lavoro e le opere che escono dalle mani umane-
Secondo. Cerchi il consenso ma non diventi schiavo del consenso. Prima del consenso assecondi il dettame della sua coscienza. Non consulti, se non altro per scaramanzia, i sondaggi di popolarità. Sono trappole. Segui la propria strada. Ha dalla sua grandi maestri. Si arrampichi sulle loro spalle. Solo cosi potrà guardare più lontano dei pigmei che lo circondano.
Terzo. Non si creda un deus ex machina. Non esiste nulla di definitivo. Ogni generazione cerca di fare la sua parte. Qui è la grandezza della Dinastia che ci ha preceduto e che verrà dopo di noi.
AUGURI.
di Giuseppe Basini
( tratto da: www.opinione.it)
Il più delle volte che, negli anni, ho sentito nominare la parola altruismo od ho assistito ad una delle solite filippiche che i media, in questo solidali, fanno contro l’egoismo, ho provato un senso di fastidio, quando non una vera e propria ripulsa. La sensazione era strana poiché, abituato da bambino a considerare l’altruismo una virtù e l’egoismo un vizio, non mi sapevo spiegare in termini espliciti questo malessere di cui, per coerenza, avrei dovuto provare dispetto, ma che invece sentivo, in fondo, originato da motivi non deteriori, che mi ripromettevo di mettere un giorno o l’altro a fuoco. Avevo come la sensazione che i valori rappresentati nelle due parole si fossero profondamente modificati, sì da non ritrovare più in esse il significato tradizionale e che anzi questo egoismo di cui tanto si straparlava fosse, in qualche maniera che non sapevo precisare, imparentato alla lontana con la ben più nobile (e socialmente spendibile) libertà. Tale malessere sarebbe probabilmente restato un fatto personale del sottoscritto (ancorché fastidioso, perché rinnovantesi spesso) se non mi fosse capitato, una sera, di ascoltare casualmente alla radio, in una rubrica di colloqui con gli ascoltatori, una ragazza affermare il suo rifiuto della famiglia con la motivazione che essa era fonte di ingiustizia, in quanto si è portati ad amare di più il proprio familiare o parente (per estensione, è ovvio, si può risalire ai partiti, alle città, alle nazioni) che non lo sconosciuto. Mentre l’amore, per il vero altruista, dovrebbe essere equidistribuito tra tutti. Stavolta, la reazione all’affermazione della ragazza ed alle svaporate affermazioni di consenso dei conduttori, fu così vivace da, direi, quasi costringermi a pormi il problema. Orbene, la ragazza aveva probabilmente ragione. Il vero altruista, l’altruista “ideologico”, dovrebbe in effetti amare tutti in maniera uguale, dato che il maggiore amore per il proprio padre o il proprio figlio, non è altro che una forma sublimata di egoismo: amo di più la mamma perché è la mia mamma, è mamma a me. Amo di più il collega (camerata, compagno) perché ha le stesse mie idee e così via, solo che il problema a questo punto è cosa significa essere altruista ed ancora e molto di più, è “bene” essere altruista? (È “buono” l’altruismo?) Probabilmente, non sarei arrivato a porre così radicalmente in discussione un valore tanto comunemente accettato, se non mi fossi reso conto che esso andava a cozzare contro altri valori, altrettanto storicamente accettati, ma superiori. Per capire il senso della domanda, occorre vedere da dove viene la gerarchia di “intensità di amore” tradizionale (papà, mamma, figli, patria, paese), su cosa essa poggia, ecco il punto. A mio avviso, essa si basa sul grado di identificazione che noi facciamo tra noi stessi e il soggetto (ente) amato, cioè è una scala in valori di egoismo, posta in un sistema di riferimento che ha come origine l’individuo. Da questa analisi segue, quindi, una importante constatazione: applicando questo genere di considerazioni ad ogni essere umano, si viene ad avere una rappresentazione della realtà che considera “soggetto” l’individuo, oltre a darne una descrizione che io credo fedele. In altri termini, questo “egoismo” non sarebbe altro che il figlio della propria capacità di “sentire” autonomamente ed il padre della capacità di pensare e agire, del pari autonomamente, in conseguenza. Di contro, l’altruismo egualitario, per essere prima ancora che auspicabile, possibile, ha bisogno che l’uomo non faccia più una tale scala di affetti, ma che consideri tutti gli altri esseri umani (ma anche al limite luoghi o pensieri) uguali e da questo, sempre se fosse possibile, la prima conclusione sarebbe che la realtà risulterebbe quindi percepita come uguale da qualsivoglia osservatore e che, dunque, il soggetto non sarebbe più l’individuo, ma eventualmente la somma di tutti gli individui. Poiché non solo ognuno di noi verrebbe a vedere gli altri come tutti uguali, ma verrebbe a sua volta visto dagli altri come identico ed indistinguibile da chiunque altro, per cui sarebbe indifferenziato, come ad esempio una sfera in mezzo ad altre sfere, una unità in mezzo ad altre unità. Così l’individuo, guardando l’umanità attorno a sé, in qualunque direzione lo facesse, vedrebbe sempre lo stesso panorama, sempre uguale, sempre indistinguibile, perdendo ogni punto di riferimento e la possibilità di farsi una rappresentazione autonoma della realtà. E allora l’unica rappresentazione originale di questa realtà, sarebbe una sorta di visione globale della collettività umana di se stessa, che riesce difficile però da definire logicamente, anche solo in astratto, se si vuole evitare che le parole si riducano a suoni privi di rappresentatività di qualcosa di reale, assumendo un ambiguo odore di magico, come ad esempio l’espressione “cervello collettivo”, sorta di totem da adorare e da temere. Vi è una curiosa analogia tra questo tipo di dilemma e la polemica che da molto tempo divide i biologi e cioè se il soggetto autonomo, dotato di personalità e di un progetto, sia la formica o il formicaio. Ecco, l’egoismo, introducendo contraddizioni tra i punti di vista, impedisce all’uomo di ridursi a semplice elemento del formicaio. L’egoismo è poi infine intrinsecamente legato all’istinto di sopravvivenza, istinto assolutamente naturale e di tutti, perché, ricordiamolo, senza di esso saremmo probabilmente estinti. La seconda considerazione possibile, e cioè quella sperimentale che un esempio di mondo popolato di altruisti veritieri non si è mai visto (gli Stati cosiddetti collettivistici, sono in realtà quelli in cui le rigide gerarchie personali e le caste chiuse e privilegiate sono più evidentemente presenti) avrebbe dovuto per la sua evidenza essere forse posta per prima (e i polemisti di parte liberale lo hanno fatto per decenni) ma non lo ho ritenuto sufficiente. L’altruismo ideologico non è infatti solo inesistente, ma è anche un cattivo sentimento, perché poggia sulla negazione dell’autonomia dei sentimenti dell’individuo e quindi della sua libertà. Tale puntualizzazione è di estrema importanza, perché fino a quando non si chiarirà che tale ideale non è solo impossibile, ma anche sbagliato – non bello e soprattutto non buono – vi sarà chi cercherà di realizzarlo, provocando effetti catastrofici, andando dai casi più tragici di comunismo integrale come in Unione Sovietica o in Cambogia (se l’uomo non è altruista imponiamoglielo) fino ai semplici complessi di colpa ( talvolta però devastanti) indotti nel povero borghese occidentale, passando per le tristi forme di estraniazione alla famiglia, favorite da stati barbarici ripetitivi della prevalenza dell’antica tribù sui suoi membri. In tutti i casi, comunque, l’annullamento dell’Io, dell’ego, è funzionale ai disegni liberticidi delle dittature, laiche o religiose che siano e inoltre nega una evidente realtà e cioè che solo i diritti “individuali” sono veramente collettivi, perché proprio di tutti e per tutti, mentre quelli oggi definiti collettivi, sono invece espropriazioni fatte da chi guida momentaneamente le istituzioni secondo personali convinzioni, legittime, ma certo non tali da costituire un quasi santificato bene comune. Radicalmente diversa, dalla visione socialista, è invece la visione Cristiana, nonostante le interessate analogie tentate dai marxisti. Così diverso e originale è il modo in cui Gesù di Nazareth affrontò il problema dell'altruismo (e in generale del bene) da giustificare il pensiero (anche presso un cattolico dubbioso e anticlericale come me) che un concetto così elevato, come la composizione tra altruismo e libertà da lui fatto, sia qualcosa in grado di superare la normale capacità umana di concepire, pur restando immediatamente e generalmente comprensibile. La profondità della rivelazione di Gesù sta nel concetto che non vi è bene (in senso etico) senza la “volontà” di fare bene. Non vi è altruismo vero, che non sia basato sul libero arbitrio, non vi è altruismo reale che non parta proprio dall’egoismo, dalla coscienza di sé ed infine il reciproco: non vi è male senza la volontà di fare male. Nessuna religione è stata mai più individualista, nessuna più umana, fatta per l’uomo. Giova ricordare a questo punto il discorso di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, a Ratisbona all’inizio del suo pontificato, dove mise in evidenza la differenza sostanziale tra il Cristianesimo ed altre religioni (l’Islam ad esempio) perché nel Cristianesimo la conversione o la conferma religiosa non vale nulla se non è completamente libera da costrizione e da condizionamenti. Che è poi, alla fin fine, proprio quello che affermava anche Dante: “Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e alla sua bontate più conformato e quel ch’ei più apprezza fu de la volontà la libertate”. Ed è proprio il valore della libera scelta ciò che conta, dato che, siccome comunque vada, sia che i singoli uomini siano buoni o cattivi, alla fine i conti in ogni caso per l’umanità torneranno (“le vie della Provvidenza sono infinite”) è solo per lui – l’individuo – che la sua scelta conterà veramente e l’altruismo è, così, un regalo che si fa a se stessi. L’altruismo non come reazione, ma come forma, una forma alta, di egoismo, restando cioè se stessi : persona, individuo, unico e irripetibile. Far del bene a se stessi, facendo del bene agli altri, questo il messaggio del Cristo. Far bene agli altri, dunque, non è far torto a se stessi, l’unico bene vero essendo però quello che si fa spontaneamente e secondo la propria natura, che non deve essere per tutti quella di San Francesco e che non ha niente di condannabile, se è invece quella dello scienziato chiuso nella sua ricerca o dell'industriale che investe ogni soldo nella crescita della sua azienda. Senza dover scomodare il laico Sigmund Freud, che poneva il “piacere” come prima motivazione di tutto (da quello sessuale fino a quello provato nel curare dei lebbrosi e sentirsi buono) di nuovo, le vie della provvidenza sono infinite, forse quello scienziato scoprirà nuove radiografie o un vaccino. Forse l’avarizia di quell’industriale sarà la forza di quell'azienda e lavoro per migliaia di persone, forse addirittura la loro anima è molto meno in pericolo di quella di preti scarmigliati che li additino come “egoisti borghesi” al pubblico ludibrio, facendo scandalismo di professione e costruendosi una carriera di immagine e di opportunità sullo sfruttamento del bene ridotto a personale, vanitosa e minacciosa privativa. Oggi che nel mondo, dall’aborto alla libertà di culto, tante sono le minacce collettivistiche (solo uno stato etico che si consideri il proprietario ultimo degli esseri umani, può concedere il primo e vietare la seconda) da cui è colpita la chiesa in materia di fede, il maggiore scandalo sono proprio quei preti con una concezione immanentistica del loro ruolo, che scambiano la rivelazione per un programma politico, la chiesa per un sindacato e se stessi per uomini di spettacolo. L’Occidente, storicamente, è il luogo dove Stato e chiesa sono separati e questo è stato possibile, anche perché vi fu chi disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare”. Ed il compito di ricordarlo sempre è di tutti, laici e religiosi. Una religione individualista fondata sul libero arbitrio, questo ai miei occhi (non voglio imporre questa visione a nessuno) è il Cristianesimo, questo e insieme religione occidentale, laddove spinge a fare, a intraprendere (la parabola dei talenti) o, se vogliamo, è l’Occidente liberale ad essere Cristiano secondo la lezione Crociana. Il Cristianesimo (ad onta della Santa Inquisizione e della Compagnia di Gesù) come religione individualista e fondata sul libero arbitrio, dunque, se non proprio liberale, certo religione libera. Ma non solo, religione portante in sé l’idea dell’iniziativa privata e dell’imprenditoria e, infine, anche religione con in sé lo spirito della ricerca scientifica, fatto che il processo a Galileo e il rogo a Giordano Bruno – figli di una funesta stagione di intolleranza clericale e integralista – hanno nascosto, ma che non ci devono far dimenticare come sia stato anche nei chiostri Benedettini e Domenicani, che si andò riformando quella mentalità di interesse per le leggi della natura, che seppe esprimere uno spirito di ricerca. E questo ancora prima di arrivare alla Rivoluzione galileiana, che, infatti, non si produsse in Italia per caso. Nessuno me ne voglia per questa invasione di campo, ma così la vedo io e così riesco a conciliare (per quanto possibile) l’uomo di scienza, il liberale e l’uomo di tradizione che sono in me. Dalla misura in cui il Cristianesimo saprà far proprio il dubbio (e dunque la tolleranza) in un mondo in cui l’integralismo religioso sta facendo nuovamente drammatica apparizione, dal modo in cui si concilierà con la scienza in un mondo sempre più modificato da questa, dalla capacità di dare alla gente il suo messaggio di trascendenza (che è la vera e prima sua grande funzione) abbandonando le tentazioni di mondanità sociale e di potere “gesuitico”, dipenderà la sua possibilità di essere la consolazione dei moltissimi che ne hanno bisogno, anche nel nuovo millennio. Ed io me lo auguro. Egoisticamente
HA VINTO GARIBALDI
di Giuseppe Borgioli
Alessandro Sacchi mi ha chiesti di scrivere qualcosa nella ricorrenza della scomparsa di Camillo Benso di Cavour, impresa che –come dicono i giovani- mi intriga – al di sopra di ogni ricostruzione storica e biografica. Cavour fu padre della Unità della nostra Patria e la sua opera fu principalmente politico-diplomatica. I modi e i tempi della sua azione obbedirono a questa visione che fu unica nel panorama del Risorgimento. Porre le fondamenta di uno Stato diviso e frustrato non è facile. Le tante e diversa fazioni che agognavano alla unità politica della nostra Italia erano non poche e gli ideali che le animavano erano in contrasto fra di loro segnate dai personalismi. Unità interna per agire di comune accordo fu la strada difficile percorsa da Cavour, sin dalla prima giovinezza quando abbracciò le idee liberali a cui restò fedele per tutta la sua pur breve vita politica quando fece della Monarchia Sabauda il faro del suo progetto. Re e Patria furono il leiv motiv della sua milizia politica. Il pragmatismo fu una costante politica che si sposò con una vocazione spirituale ferma, che non ha mai conosciuto ondeggiamenti. Non fa fatica essere pragmatici quando i principi sono saldi. La diplomazia non è una semplice tecnica suggerita dagli avvenimenti quando restano chiari e irrinunciabili gli obiettivi da raggiungere.
Idealismo e realismo si amalgamano insieme in vista della azione comune come la linea ispiratrice di una grande politica conduce la passione e la razionalità dei grandi uomini. I patrioti animati da alti ideali furono molti e scrissero pagine entusiasmanti nel Risorgimento. Ho il dubbio che questa Italia sotto ai nostri occhi e che ò ancora il frutto delle nostre premure e preoccupazioni sia quella non dico sognata ma perseguita dal Cavour. Camillo Cavour mori giovane a cinquanta un anno e ci ha lasciato con la bocca amara di non aver assaporato il compimento della sua progettualità politica. Lui compi la sua esistenza quando Roma non era ancora capitale senza i conforti religiosi che gli furono negati e quando la articolazione della nuova Italia avrebbe avuto bisogno del tocco del suo ingegno. Come tante opere artistiche dobbiamo accontentarci della sua incompiutezza, del sacrificio di chi è venuto dopo di lui e ha cercato di interpretare le sue idee il suo messaggio privo di testamento. Gli avvenimenti storici che hanno fatto seguito alla morte di Cavour ci hanno spesso entusiasmato, qualche volta disarmato. La linea che ha prevalso nella vita della giovane Italia fu quella del pur generosissimo Garibaldi che ebbe il seguito dal mancato imperialismo di Francesco Crispi antesignano in politica estera di Benito Mussolini. Il progetto di Camillo Cavour forse era rimasto senza eredi diretti. Questa deviazione è stata pagata con il sangue del popolo Italiano. La pagina imperialista fu più crispina e mussoliniana, più garibaldina che cavourriana. La storia non si ripete mai e per procedere avanti ha bisogno di fare qualche passo indietro. A noi il compito di ricostruire lo Stato da dove ce lo ha lasciato Camillo Benso conte di Cavour.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
C’è stato chi, giusto ieri, alla vigilia della “giornata del ricordo”, si è scusato per le leggi razziali a nome della Famiglia reale all’epoca regnante. Le scuse sono sempre un gesto meritevole del massimo apprezzamento. Costituiscono un gesto di umana pietà per le vittime di quell’immane tragedia alla quale l’Italia ha dato un apporto limitato ma non per questo meno grave. Anche una sola vittima, infatti, avrebbe macchiato l’onore di un popolo di antica civiltà, erede della romanità sempre tollerante e permeato di spirito cristiano. Eppure non è servito ad evitare un’ingiustizia che ho fatica a capire come possa essere avvenuta. Come gli italiani non abbiano percepito l’infamia di un pubblico funzionario escluso dal suo ruolo, nonostante il giuramento di fedeltà allo Stato ed al Re, e quella del bambino allontanato dalla scuola.
Da liberale e, pertanto, lontano anni luce da ogni totalitarismo non capisco neppure come un regime che, come ha ripetutamente raccontato, tra gli altri, Bruno Vespa, godeva del consenso della assoluta maggioranza degli italiani abbia pensato un tale orrore che è anche un errore politico ad iniziativa di un leader che aveva dimostrato in altre occasioni di saper cogliere i sentimenti degli italiani, come aveva fatto nel prendere in mano, lui socialista e libertario, la fiaccola, si direbbe oggi, dell’interesse nazionale messo in forse nel drammatico dopoguerra dall’aggressione comunista, all’interno, e dagli effetti del tradimento degli alleati a Versailles.
Oggi chi si scusa in nome di Casa Savoia e del Re fa bene se lo fa in nome del popolo italiano per quelle leggi promosse dal Governo ed approvate dal Parlamento, Camera e Senato, che il Sovrano non poteva non promulgare dopo ripetuti dinieghi. Fa comodo, tanto ai fascisti ancora esacerbati per il risultato del Gran Consiglio del Fascismo che il 25 luglio 1943 restituiva i poteri statutari al Re, quanto agli antifascisti nemici del Risorgimento, scaricare le responsabilità sul Re che i più benevoli vorrebbero avesse abdicato, dimenticando che sarebbe stato un disastro a guerra perduta non avere un interlocutore con gli angloamericani per un armistizio doloroso ma necessario.
Tutti comunque fanno finta di trascurare che in un ordinamento costituzionale il Capo dello Stato non governa ed è tenuto a promulgare una legge approvata dal Parlamento. Anche oggi la Costituzione prevede all’art. 74 che il Presidente della Repubblica, il quale, prima di promulgare una legge, “con messaggio motivato”, abbia chiesto alle Camere “una nuova deliberazione”, se nuovamente approvata “deve” promulgarla (comma 2).
Spero che questa polemica ingiusta nei confronti di Re Vittorio Emanuele III finisca per rispetto della verità storica che ci dice di un Re che ha retto contro le prepotenze di un regime che si era presentato come pacificatore e, come tale, il governo presieduto da Benito Mussolini era stato accolto dalla maggioranza di una Camera (il Senato di nomina regia non dava la fiducia ai governi) liberamente eletta. Poi nel prosieguo, incrementandosi le norme liberticide, anche delle prerogative sovrane, le opposizioni si sono volontariamente messe fuori del circuito parlamentare, mentre il regime occupava tutti gli spazi, perfino nell’esercito, la cui fedeltà al Re si consigliava di non mettere alla prova, comandato da generali acquisiti al regime con promozioni ed onorificenze.
È stata una pagina buia della nostra storia con italiani che per denaro hanno denunciato ebrei ed altri che, anche nelle condizioni peggiori, nell’Italia occupata dai tedeschi, li hanno protetti e nascosti anche a rischio della vita. Come sempre le persone ignobili sono state numericamente meno di quelle che con generosità hanno fatto onore alla Patria.