Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
|
Buon compleanno Italia!
Sabato 16 marzo 2024, presso la “Sala Risorgimento” dell’Hotel Massimo D’Azeglio di Roma si è tenuto il convegno dal titolo:Buon compleanno Italia!
L’incontro è stato moderato dagli Avv.ti Edoardo Pezzoni Mauri e Michele Pivetti Gagliardi, Vicepresidenti Nazionale dell’Associazione, e ha visto come relatori il Prof. Avv. Salvatore Sfrecola, il Prof. Andrea Ungari, l’On. Maurizio Gasparri ed ha concluso l’Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale dell’Unione Monarchica Italiana.
Il convegno ha visto la partecipazione di un numeroso e qualificato pubblico.
Il Presidente Nazionale, Avv. Alessandro Sacchi
La sala
il tavolo dei relatori
Mattarella spiega quali sono i suoi poteri all’atto della promulgazione di una legge e, implicitamente, giustifica la firma apposta dal Re Vittorio Emanuele III alle Leggi Razziali
di Salvatore Sfrecola
Interessanti riflessioni sui suoi poteri nella promulgazione delle leggi da parte del Presidente Sergio Mattarella nel corso dell’incontro con il Dott. Gianfranco Giuliani, Presidente di CASAGIT, e con una delegazione di esponenti dell’associazione, “nella veste insopprimibile di giornalisti” e quindi – ha spiegato Mattarella – tramite tra istituzioni e i nostri concittadini, tramite informativo per far notare che frequentemente il Presidente della Repubblica viene invocato con difformi, diverse motivazioni”.
Ed ha fatto, tra le sue molteplici funzioni a quella di promulgazione delle leggi con riferimento alla quale ha ricordato che “c’è chi gli si rivolge chiedendo con veemenza: “il Presidente della Repubblica non firmi questa legge perché non può condividerla, perché gravemente sbagliata”, oppure: “il Presidente Repubblica ha firmato quella legge e quindi l’ha condivisa, l’ha approvata, l’ha fatta propria”.
Il Presidente della Repubblica – ha spiegato Mattarella – “non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è cosa ben diversa. È quell’atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità”.
Il Presidente, che è anche docente di diritto parlamentare ed è stato Giudice della Corte costituzionale, ha voluto chiarire ai presenti che da giornalisti sono spesso chiamati ad illustrare le tesi di chi vuole che una legge sia o no promulgata, che se quando gli viene presentata una legge “dicesse, per esempio: “non promulgo questa legge perché c’è forse qualche dubbio di costituzionalità che potrebbe racchiudere e raffigurarvisi”, si arrogherebbe indebitamente il compito che è rimesso alla Corte costituzionale”.
“O se, addirittura, dicesse: “non firmo questa legge perché non la condivido, perché, a mio avviso è sbagliata”, farebbe ben altro, andrebbe al di là di qualunque limite posto dalla Costituzione nel rapporto tra i poteri dello Stato e tra gli organi costituzionali”.
“Quando il Presidente della Repubblica promulga una legge, non fa propria la legge, non la condivide, fa semplicemente il suo dovere, che è quello che ho descritto”.
A conclusione delle sue considerazioni Mattarella ha aggiunto che “qualche volta ho come l’impressione che qualcuno pensi ancora allo Statuto Albertino in cui, come è noto, la funzione legislativa veniva affidata congiuntamente alle due Camere e al re. Quando le Camere approvavano la legge, il re prima di promulgarle doveva apporre la sua sanzione, cioè la sua condivisione nel merito, perché aveva anche attribuito il potere legislativo.
Fortunatamente non è più così. Il Presidente della Repubblica non è un sovrano, fortunatamente, e quindi non ha questo potere”.
E qui, ovviamente, il pensiero corre alle leggi razziali, d’iniziativa del Governo Mussolini, approvate dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni e dal Senato del Regno, che, notoriamente, il Re Vittorio Emanuele III non condivideva. Giusta la considerazione del Presidente quanto al potere legislativo, come delineato dallo Statuto Albertino. Sennonché quello Statuto, che aveva garantito le libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino fin dal 1848, era una costituzione cosiddetta “flessibile” che, cioè, poteva essere modificata da leggi ordinarie e dalla prassi costituzionale per cui l’originaria funzione di “condivisione nel merito” da parte del Sovrano si era dissolta ed il Re, che era notoriamente un formalista, non avrebbe promulgato quelle norme, che aveva fatto sapere di aborrire, come riferisce lo stesso Mussolini, se avesse avuto ancora la funzione di apporre la sanzione con l’originario significato richiamato da Mattarella. Come aveva potuto fare prima che il Fascismo trasformasse, con la complicità della politica, la natura della “Monarchia rappresentativa” e liberale in un regime autoritario, incidente perfino sul funzionamento del Parlamento, considerato che “nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere, senza l’adesione del Capo del “Governo” (art. 6 della legge 24 dicembre 1925, n. 2263). Una norma oggi inconcepibile. L’avvenuta mutazione statutaria è sottolineata anche dal fatto che il 25 luglio 1943, con l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, il Gran Consiglio del Fascismo delibera di restituire “al re la integrità dei poteri statutari” (R. Martucci, Storia Costituzionale Italiana, p. 242).
In ogni caso oggi, in Repubblica, se il Presidente decide di rinviare alle Camere una legge richiedendo loro di procedere ad una nuova deliberazione (art. 74 Cost.), una volta riapprovata, il Presidente “deve” promulgarla.
Il Principe è morto ma il giornalismo non sta molto bene
di Salvatore Sfrecola
Era inevitabile che la morte ed i funerali del Principe Vittorio Emanuele di Savoia fossero l’occasione per giornali e televisioni per dire della personalità del figlio “dell’ultimo Re d’Italia”, come si è letto e sentito, ma anche per divagazioni sulla storia e sulle “responsabilità” della Casata almeno nel corso della prima metà del XX secolo. I temi sono stati sempre gli stessi ed hanno riguardato il Re Vittorio Emanuele III, l’affidamento dell’incarico di formare il Governo a Benito Mussolini nell’ottobre del 1922, la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, l’entrata in guerra e la gestione del dopo armistizio annunciato l’8 settembre 1943. Argomenti di peso, come s’intende, del quale si è scritto e sentito di tutto, spesso sulla base di “idee” di parte se non di autentici pregiudizi. Per cui una buona informazione non può prescindere quanto meno dal confronto delle posizioni, anche per consentire al lettore o al telespettatore di farsi un’idea “sine ira ac studio”, come chiedeva Tacito a chi intendesse avventurarsi nei sentieri impervi della storia. Perché, aggiungerà più tardi Benedetto Croce a proposito de “la storicità di un libro di storia”, “l’esattezza è un dovere morale”, un imperativo imprescindibile per chi racconta un fatto che “non è da giudicare secondo che più o meno scuota l’immaginazione, e riesca commovente, eccitante, esemplare, o anche curioso e divertente, perché questi effetti si ottengono parimenti da drammi e romanzi”.
Tanto premesso, come scriviamo nelle comparse di costituzione noi giuristi, applicando i principi enunciati, non pochi giornali e televisioni hanno dimostrato di non ricordare Tacito e Croce costruendo narrazioni dei fatti prima richiamati ed addebitati a Vittorio Emanuele III affidandoli a chi era notoriamente schierato, e questo va bene, ma senza assicurare la “parità delle armi”, cioè mettendo i partecipanti all’approfondimento o al dibattito in una condizione di parità. Che non c’è stata, ad esempio, ieri sera a “Stasera Italia”, la trasmissione condotta su Rete4 da Sabrina Scampini, una brava giornalista che, tuttavia, in questa occasione ha avuto dinanzi un parterre assolutamente squilibrato sul piano delle idee, perché a parlare del Principe e di Casa Savoia sono stati chiamati ad intervenire, da remoto, Antonio Caprarica, Giordano Bruno Guerri e Alessandro Sacchi mentre in studio Stefano Zurlo riceveva dalla conduttrice sollecitazioni a definire argomenti ed a dare la sua interpretazione.
È stato immediatamente evidente che ad Alessandro Sacchi, avvocato civilista napoletano, chiamato in qualità di Presidente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), era stato destinato il ruolo biblico, particolarmente scomodo, del Daniele in mezzo ai leoni, tanto per far capire lo squilibrio in campo. Perché Caprarica, noto corrispondente e inviato RAI, è stato comunista e, giustamente non se ne pente, Guerri è immerso nella storia del Fascismo, cominciando dalla tesi di laurea su Bottai, e Zurlo scrive per Il Giornale, vicino alla destra di governo. Tutti e tre sono personaggi televisivi, di vecchia data Caprarica e Guerri, più di recente Zurlo, giornalista d’inchiesta.
È evidente lo squilibrio nel dibattito, non solo perché i tre erano sostanzialmente schierati contro Sacchi ma perché il tempo assegnato agli interventi è stato governato in modo che il “monarchico” non potesse argomentare e spesso neppure replicare ai “repubblicani”.
Cominciamo da Caprarica e da Guerri, espressione di due culture ferocemente antimonarchiche, anche se il corrispondente RAI da Londra ha saputo apprezzare, e ne ha scritto, in un buon libro su Carlo III, il “fascino della monarchia”, lui “fieramente repubblicano”. È accaduto spesso nella storia che un repubblicano, spesso per tradizioni familiari, fosse affascinato dalla storia di una dinastia che incarna l’identità di un popolo come si è andata formando nei secoli. Magari solo all’incontro con una personalità regale, il Principe Carlo per Caprarica, la Regina Margherita di Savoia per Giosuè Carducci. Senza che il richiamo sembri equiparare il giornalista e scrittore al poeta, scrittore e critico letterario, premio Nobel per la letteratura, il primo italiano ad esserne insignito, nel 1906.
Guerri, giornalista e scrittore, una laurea in lettere moderne con indirizzo in storia contemporanea, è inserito in quella cultura “di destra” che mi ha sempre lasciato molto perplesso perché assume che vi possano convivere liberalismo e fascismo, a mio modo di vedere assolutamente incompatibili. E ne dà dimostrazione Vittorio Emanuele Orlando “il Presidente della Vittoria”, il fondatore della scuola del diritto pubblico italiano, liberale, che, rieletto deputato nel 1924 dopo aver guardato con qualche interesse il Governo Mussolini si dimette da parlamentare all’indomani del famoso discorso del 3 gennaio 1925 sul delitto Matteotti. Un riferimento che mi consente di chiarire a Caprarica e a Guerri una cosa che se non dovessero tenere la propria parte di “arcirepubblicani” condividerebbero: il conferimento dell’incarico di formare il Governo a Benito Mussolini fu una necessità da parte del Re che aveva ricevuto il rifiuto di Giolitti, Sturzo e Turati di formare o appoggiare un governo. Inoltre, va ricordato, cosa che viene costantemente trascurata, che il Governo Mussolini, del quale facevano parte anche esponenti liberali e cattolici, ebbe la fiducia della Camera. E se successivamente il Fascismo al potere ha alterato le regole della democrazia statutaria questo è stato possibile anche perché l’opposizione si è rifugiata in uno sterile Aventino impedendo al Re, che lo aveva ripetutamente richiesto, quel “fatto parlamentare” che gli avrebbe consentito di congedare il Duce, come avrebbe fatto il 25 luglio 1943 dopo il voto del Gran Consiglio del Fascismo, l’occasione giuridica per cambiare governo. Soluzione alla quale il Sovrano da tempo lavorava attraverso il Duca d’Acquarone.
Quanto, poi, alla tesi di Guerri che il Fascismo fu agevolato dal non aver il Re firmato il decreto sullo “stato d’assedio” delle due l’una. O i fascisti erano tanti e agguerriti, per cui serviva effettivamente lo stato d’assedio o erano uno sparuto gruppo di facinorosi che sarebbe stato sufficiente disperdere con qualche colpo di cannone. In questo caso evidentemente il decreto non serviva. E comunque, come avrebbe certamente detto l’avv. Sacchi, al quale ho sentito ricordare la cosa altra volta, un Governo dimissionario, come quello dell’on. Facta, non può assumere un provvedimento di straordinaria amministrazione come lo stato d’assedio.
In ogni caso, il Governo Mussolini ha avuto la fiducia della Camera.
Venendo, poi, al secondo tema del dibattito, l’accusa al Re di aver promulgato le leggi razziali, se gli fosse stato consentito l’Avv. Sacchi, il quale aveva, del tutto inascoltato, che la promulgazione era un atto dovuto, certamente avrebbe segnalato che anche nella costituzione repubblicana se il Presidente ritiene di rinviare alle Camere una legge perché, ad esempio, introduca norme di dubbia legalità, una volta che venga nuovamente approvata “questa deve essere promulgata” (art. 74, comma 2).
Quanto, poi, all’argomento ricorrente, ma non richiamato ieri, che il Re avrebbe potuto abdicare per non promulgare le leggi razziali, è evidente che tale decisione avrebbe portato alla costituzione, cinque anni prima, della Repubblica Sociale Italiana. Infatti, tra le riforme eversive dello Statuto albertino era stata attribuita al Gran Consiglio del Fascismo la funzione di esprimere il consenso sulla successione al trono, che non sarebbe stato dato nei confronti del Principe Umberto, notoriamente contrario al regime come la moglie, la Principessa Maria Josè, spiata dalla polizia politica fascista per i rapporti che intratteneva con esponenti antifascisti, dal cattolico Gonella al liberale Croce.
E veniamo all’8 settembre, tema sul quale si è avventurato imprudentemente Zurlo in quale ha parlato di “fuga” del Re, tema caro alla propaganda fascista durante la Repubblica Sociale, ripreso al tempo del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. È evidente a tutti, tranne a chi non vuol vedere, che il Re, come ha riconosciuto correttamente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, avrebbe dovuto lasciare Roma per poter ancora esercitare le sue funzioni di Capo dello Stato. E che Roma era una città assolutamente indifendibile sul piano militare, a meno di accettare che divenisse la Stalingrado d’Italia e, pertanto, distrutta nei suoi monumenti millenari. Immaginate per un momento: gli italiani sparano sui tedeschi che si difendono casa per casa mentre americani e inglesi, ormai nostri alleati, bombardano le posizioni nemiche. Sarebbe stato un delitto contro la storia che, se fosse rimasto a Roma, al Re sarebbe stata irrimediabilmente addebitata.
Sull’8 settembre i fascisti ed i loro simpatizzanti hanno detto molto, della “fuga” del Re e della disorganizzazione che ha messo in difficoltà i nostri militari ovunque dislocati, spesso senz’armi adeguate. Dell’armamento delle nostre Forze Armate si sa che non era assolutamente adeguato alla guerra nella quale il Duce aveva condotto il popolo italiano. I fanti avevano il fucile 91 (che vuol dire 1891) e pochissime armi moderne. Tutte le cronache e i filmati dell’epoca lo dimostrano. I vertici militari avevano rappresentato al Duce questa situazione, ma il Caporale che si era fatto Primo Maresciallo dell’Impero pensava di saperne di più. E che comunque aveva un buon alleato
Né sarebbe stato possibile avvertire tutti dell’intervenuto armistizio in modo esplicito. Qualunque telegramma o fonogramma, anche un ordine trasmesso per piccione, lo avrebbero conosciuto i tedeschi, coadiuvati dai fascisti duri e puri, molto prima dei comandanti italiani.
La responsabilità è di chi ci ha portato a combattere una guerra che per l’Italia non rivestiva interesse alcuno ed alla quale notoriamente il Re era contrario, come risulta anche dai diari degli aiutanti di campo del Sovrano e del genero del Duce, Galeazzo Ciano, che ha annotato tutti i casi nei quali è mancata ai nostri soldati la leale collaborazione dell’alleato tedesco. Per non dire dell’esercito impreparato, come aveva dimostrato in Etiopia e Spagna.
All’Avv. Sacchi sono stati riservati spazi limitati. C’erano altre persone con me ad assistere, non certamente di parte monarchica, ed erano fortemente disturbate dalla conduzione del dibattito. Eppure, l’Unione Monarchica meritava rispetto, per essere espressione di una minoranza, ma anche per la sua dignità come associazione che, come si legge nel sito dell’U.M.I., è stata istituita, sono le parole del Re Umberto, “per raccogliere e e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sé quella concordia discors che è una delle ragioni d’essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà che la mia casa rappresenta”.
Da ultimo non si può fare a meno di ricordare, a proposito della “fuga” del Re che tutti i sovrani dei paesi occupati dai tedeschi li hanno lasciati per trasferirsi in Inghilterra, a Londra, per attivare da lì la lotta di liberazione. Di nessuno di quei sovrani si è detto che sia fuggito. A fuggire, per rispetto della verità storica, è stato il Duce, riparato in un carro tedesco, vestito da tedesco. Giustissimo il desiderio di salvare la pelle, ma almeno i suoi seguaci di allora e di oggi potrebbero fare a meno di criticare il Re che ha lasciato Roma con molti membri del Governo vestito della sua uniforme, quindi riconoscibilissimo, per continuare ad assicurare la continuità dello Stato, come ha riconosciuto il Presidente Ciampi.
Del Duce si potrebbe anche dire quel che il Generale De Gaulle ha detto di Napoleone (absit iniuria verbis) per la Francia, che ha lasciato l’Italia più piccola di come l’aveva trovata.
Infine, sia Caprarica che Guerri non hanno saputo dire altro che delle banalità in ordine alle monarchie del nostro tempo che in Europa sono al vertice di stati democratici e prosperi. La verità è che sottraendo il capo dello stato alla lotta politica ed alla contrapposizione dei partiti il cittadino si sente più libero di votare e di scegliere, magari passando con disinvoltura da destra a sinistra e viceversa, nella consapevolezza che lo stato non è in discussione, quello stato, meglio quella nazione del quale il monarca rappresenta la storia e l’identità che lo connotano nel tempo. A volte assicurando l’unità rispetto alle tendenze centrifughe, come nella Spagna squassata dalla rivolta dei baschi e oggi messa in forse dal malessere dei catalani, o in Belgio dove fiamminghi e valloni convivono con qualche difficoltà solo grazie alla monarchia.
Rinvio, per carità di Patria, ogni considerazione finale sull’Italia, tra premierato (che non ha nessuno, e forse vuol dire qualcosa) ed autonomia “differenziata”, che sta scatenando la rivolta del Sud, da troppo tempo trascurato e condizionato da ambienti malavitosi, da dove, quasi disparatamente, si levano voci neoborboniche, nonostante in quelle terre non ci fosse spazio per una monarchia “rappresentativa” come quella alla quale diede vita il 4 marzo 1848 il Re Carlo Alberto di Savoia con lo Statuto che richiama il suo nome.
Ad onor del vero!
Comunicato stampa del 10 febbraio 2024
L’Unione Monarchica Italiana ricorda con affetto gli italiani istriani, fiumani e dalmati vittime della ferocia del comunismo iugoslavo
Nel “Giorno del ricordo” l’Unione Monarchia Italiana (U.M.I.) si stringe con affetto agli italiani istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare terre italiane da secoli e, in particolare, rivolge un deferente pensiero alle vittime delle foibe, espressione della feroce pulizia etnica attuata dal comunismo iugoslavo. Nel ricordo di quegli italiani, ed in collaborazione con i loro discendenti, i monarchici italiani sono impegnati a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate il cui contributo allo sviluppo sociale e culturale dei territori della costa nord-orientale adriatica è parte fondamentale della nostra identità nazionale.
Roma, 10.02.2024
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi