Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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LA RIVINCITA DEL CATTOCOMUNISTA
di Giuseppe Borgioli
Abbiamo sempre sostenuto che la gestione della pandemia ha avuto un segno politico, anzi ideologico. Augusto Del Noce che fu un fine analista ci ha lasciato un saggio di questo fenomeno. Oggi avrebbe molto da insegnarci. L’Italia, chissà perché, si trova al centro di questa sfida. Mentre in un clima di lodevole concordia giura il governo retto da Mario Draghi, il terreno della lotta alla pandemia è diventato il teatro del confronto. Il cosiddetto comitato tecnico scientifico che regola ormai le nostre vite ha rovinato la festa di Mario Draghi chiudendo a tradimento i campi delle stazioni invernali. Un protagonista di questa storia è una specie di sedicente virologo che va per la maggiore nella pratica dei dibattiti e delle prediche televisive. Siccome siamo usi a chiamare i nostri soggetti con nome e cognome, si tratta di Walter Ricciardi che per sua fortuna insegna igiene e profilassi al Policlinico Gemelli. È diventato consulente del miniatro della sanità Roberto Speranza (si, quello che aveva scritto un libro prezioso sulla pandemia che è stato ritirare dalle librerie) e ha ottenuto altri incarichi. Diceva Vittorio Emanuele II che un cavalierato e un sigaro non si negano a nessuno. Walter Ricciardi che come sostengono alcune malelingue ha avuto un passato di attore amatoriale con Mario Merola, ha voluto non far mancare il suo contributo alla letteratura s sulla pandemia. Proprio ora che si comincia a intravedere la luce in fondi al tunnel e tutti si aspettano i sospirati vaccini per tornare alla normalità, il prefessor Ricciardi dal suo alto scranno di braccio destro si fa per dire) del ministro ha lanciato la proposta dalle colonne del quotidiano Avvenire di una nuova chiusura generalizzata a suo dire per sconfiggere quel che resta del virus. Parola di virologo. Il gioco di squadra, soprattutto quando ci son in ballo i finanziamenti pubblici. Sulla scienza (quella vera) Karl Popper E perché con questa nuova misura già tristemente attuata sulla pelle del popolo il virus dovrebbe essere annientato? Io non ho trovato risposta convincente. Ma cosi hanno fatto gli altri. Esaminiamo caso per caso e si dimostrerà che questo zelo imitativo ha poche basi. Non importa al Ricciardi se questo provvedimento getterebbe nella disperazione lavoratori, commercianti, imprenditori che ancora una volta sarebbero sacrificati non alla salute, ma alla ideologia del professor Walter Ricciardi. Le ideologie hanno segnato il fallimento del secolo precedente. Dopo le guerre e le rivoluzioni, è venuto il momento della pandemia. Sciascia ricordava, citando Loyola, che tutti i modi sono buoni per intercettare la volontà di Dio. Gli Italiani vogliono vivere in libertà, cogliendo se è possibile, le poche o le tante gioie che ci dona la vita. L’ ordinanza di interdire le piste da sci è una vera vergogna. Non c’è giustificazione che tenga. È tutto così desolante, per la gente, per chi ha investito soldi e lavoro, persino per la nostra dignità di Italiani che vivaddio sappiamo giudicare con la nostra testa cos’è il bene nostro e dei nostri cari. Non c’è bisogno di “convincere” gli Italiani sull’opportunità della chiusura totale delle attività sociali. Bisogna insistere sulla vaccinazione estendendo l’immunità di gregge. Basta con il terrorismo di rigeme. Si contrabbanda per scienza l’ideologia (vecchia) dei cosiddetti scienziati da posta delle lettrici della domenica. Si mobilitano in uno stucchevole ha detto parole che dovrebbero distinguere una vota per tutte i veri ricercatori dai ciarlatani seppur dotati di laurea e di titoli altisonanti. L’ideologia soffoca la scienza e mette fuori strada anche gli uomini in camice bianco. È sempre così. Gratta, gratta la sospirata libertà è un fantasma che si nasconde dietro i pregiudizi, anche quelli che rivestiamo di paramenti nobili. Abbattere il capitalismo, povero Ricciardi, non è più importante che sconfiggere il virus. L’ha cantato bene Fabrizio De Andrè: è mai possibile che in questo reame le avventure finiscano sempre a p……
13 febbraio 1503: a Barletta la “disfida” dell’orgoglio italiano
(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
di Salvatore Sfrecola
La “Disfida di Barletta”, com’è definito il torneo che il 13 febbraio 1503 ha opposto 13 cavalieri italiani ad altrettanti francesi, in un tratto di campagna tra Andria e Corato, nei pressi della città di Trani, all’epoca sotto la signoria di Venezia e, pertanto, in campo neutro, è da sempre oggetto dell’interesse degli storici, non solamente di questioni militari, perché ci fa conoscere una realtà che spesso è rimasta in ombra. Quella che nei ”secoli bui”, quando l’Italia era terra di conquista e di scontro tra potenze straniere, c’era chi, pur suddito di qualche principe o re o di un comune, nondimeno si sentiva italiano e rivendicava l’onore di una storia straordinaria, quella di Roma, l’emblema stesso della civiltà occidentale e cristiana. L’evento ha anche interessato una personalità della cultura e della politica risorgimentale, Massimo d’Azeglio che nel 1833 scrive “Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta”, un romanzo storico “per fare l’Italia”, scrive Guido Davico Bonino in apertura della presentazione del volume nell’edizione del 2010.
Era il 15 gennaio 1503, quando, nel corso di un banchetto organizzato da Consalvo da Cordova in una cantina locale (oggi chiamata Cantina della Sfida), Guy de la Motte, capitano francese, contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia. Lo spagnolo Iñigo López de Ayala, invece, li difese con forza, affermando che i soldati che aveva avuto sotto il suo comando potevano essere comparati ai francesi quanto a valore.
E così, come si legge nel “De pugna tredecim equitum”, che in data 28 febbraio 1503, quindi proprio all’indomani della disfida, Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, inviò al suo collega e amico Crisostomo Colonna, riferisce che i francesi, presentati come degli sbruffoni che, per bocca del Signor de la Motte osano “contra Italos… blaterare” definendoli “infidos et perfidos” che “haveano fede di vento e che nessuno si potea fidare di loro”, e, in quanto tali, indegni di essere annoverati tra i cavalieri. Gli italiani rispondono ricordando loro di essere degni eredi dei romani che avevano dominato il mondo e che avevano soggiogato proprio quei Galli dei quali ricordavano anche le consuetudini barbare, dediti com’erano stati a sacrifici umani. Da parte loro i siciliani, che parteciperanno alla disfida, ricordavano di essere discendenti di coloro che, insorti contro l’occupazione francese, li avevano cacciati il lunedì dell’Angelo del 1282, all’ora dei Vespri.
Si decise così di risolvere la disputa con un torneo: la Motte chiese che si sfidassero tredici (in origine dieci) cavalieri. E rifulse il valore degli italiani, la loro capacità di gestire il torneo, di contrastare ed abbattere gli avversari, a cavallo ed a piedi, con la lancia, la spada e l’ascia. Chi li guidava, Ettore Fieramosca, nobile capuano al servizio di Prospero Colonna, serbava il ricordo e lo sdegno per lo scempio che nella sua città avevano operato i francesi, senza pietà per vecchi, donne e bambini, “scelleratezze degne di eterna infamia”, scrive Francesco Guicciardini.
E l’insolenza francese fu castigata dalle spade italiane.
La disfida di Barletta, un episodio che è divenuto presto un evento, dà luogo a varie riflessioni tra le quali mi sembra importante sottolineare come emerga un sincero senso di appartenenza, di italianità in un momento storico particolare, in una Italia nella quale si scontrano eserciti stranieri, in questo caso francesi e spagnoli, per la supremazia di una fetta del territorio italiano, il regno di Napoli. Tuttavia, pur se non si combatte per l’Italia questi uomini hanno il senso forte della italianità, l’onore di tutta l’Italia e si sentivano di dover rivendicare il valore degli eredi di quei romani che “già tutto il mondo domato avevano”.
E se l’Italia da anni era percorsa da eserciti stranieri, i principali responsabili di ciò erano i suoi principi con le loro ambizioni e le loro rivalità. Pertanto viene considerato traditore l’italiano, piemontese di Asti, Graiano, il quale combatte con i francesi. Ora quando Dante dice “ahi serva Italia” è questa condizione che denuncia e questi italiani rivendicano l’onore nei confronti dei barbari che l’avevano invasa e saccheggiata. Questa rivendicazione costituisce il filo conduttore delle appassionate pagine di Guicciardini. L’Italia vi è descritta come un territorio di libertà, i cui abitanti neque jugum neque injurias, nisi vi coacti, ferre queunt. È tutto un elogio della libertà italiana, tanto più significativo in quanto viene attribuito a uno spagnolo, Iñigo López che nella sua replica alle provocazioni di La Motte non aveva mancato di ricordargli che gli italiani nos et vos, et barbaros et mancipia regum dictitant.
Di tale libertà i 13 di Barletta sono i difensori.
Lo ricorda bene Francesco De Santis nel suo volume nel quale, nel 1866, commemorando d’Azeglio a Napoli, nella chiesa di San Francesco da Paola, racconta delle speranze dell’Italia del 1833 e ricorda che correva di mano in mano l’Ettore Fieramosca. “E bevevano a larghi tratti l’orgoglio di quello che fummo e accompagnavamo palpitando alla pugna Ettore e Fanfulla. Ricordo con quanta indegnazione seguivamo i passi di colui, che italiano combatteva contro italiani accanto allo straniero. Ricordo con quale accento dell’anima accompagnavamo le parole di Ettore, quando, gettatolo giù del cavallo, gli diceva: “sii maledetto! o nemico del tuo paese”. E noi raggiungevamo: “Siate maledetti, voi che pregate per la vittoria dello straniero, voi che desiderate lo straniero a casa!”. Ne’ nostri animi c’era il 48, c’era già l’Italia, e noi ne dobbiamo essere grati a quella eletta schiera di cittadini che cospiravano alla faccia del sole col pennello e con la penna”.
L'opinione di Giuseppe Borgioli
DEUS EX MACHINA
di Giuseppe Borgioli
Qualcuno abituato ai toni drammatici ha salutato il presidente incaricato Mario Draghi come il segnale di una nuova fase della vita politica, il terzo atto della repubblica. Era stato toccato il fondo e non restavano più carte nel mazzo.
Mario Draghi, non è solo una grande commesso di stato a livello europeo che in molti ci invidiano, ma anche e soprattutto per la sua dirittura morale e pubblica. Mario Draghi è il governatore della Banca d’Italia che in una risposta rimasta storica al deputato Raffaele Costa ha dichiarato a suo tempo la disponibilità ad aprire al pubblico il tesoro della Corona dei Savoia che come tutti sanno è custodito in quel forziere. Avrebbe potuto dare delle risposte evasive o non dare riposte, ma si è comportato come il custode di un tesoro che non è suo e risale alla storia Nazionale di una Dinastia che ha dimostrato di tenere in considerazione. Con gli esempi che corrono, questo comportamento non è apparso scontato e ha dimostrata un ossequio non solo formale alla storia e alla verità. Del resto, Luigi Einaudi si sarebbe comportato allo stesso modo. Ma il nostro panorama politico e bancario non è stato popolato solo da allievi di Luigi Einaudi.
Maestro di Mario Draghi è stato anche quel Federico Caffè, figura singolare della vita accademica e civile. Riconosciamo a Sergio Matterella di aver agito con discrezione, di essere riuscito laddove fallì Francesco Cossiga sconfitto dalla partitocrazia.
Mario Draghi ha davanti a sé una strada lunga e difficile. Ancora una volta la eterogenesi dei fini ha avuto la parola definitiva Matteo Renzi. Nicola Zingaretti che credeva di tenere il mazzo delle carte è stato messo ai margini del nuovo corso politico. La crisi di governo voluta da Renzi ha prodotto Mario Draghi.
Quello che ci induce a sperare è che Mario Draghi non è solo un tecnico, è anche un esperto in umanità che sa prendere le decisioni.
A Mario Draghi ci permettiamo di dare qualche consiglio.
Primo. Non fondi un partito e si guardi da tutti quelli che gli faranno simili proposte. Non faccia neanche dei suoi estimatori qualcosa che rassomiglia a un partito. Abbia come esempio Luigi Einaudi che ha ripercorso una carriera simile alla sua. Forse Einaudi era più un fisiocratico che un finanziere. Ma tutti e due amano il lavoro e le opere che escono dalle mani umane-
Secondo. Cerchi il consenso ma non diventi schiavo del consenso. Prima del consenso assecondi il dettame della sua coscienza. Non consulti, se non altro per scaramanzia, i sondaggi di popolarità. Sono trappole. Segui la propria strada. Ha dalla sua grandi maestri. Si arrampichi sulle loro spalle. Solo cosi potrà guardare più lontano dei pigmei che lo circondano.
Terzo. Non si creda un deus ex machina. Non esiste nulla di definitivo. Ogni generazione cerca di fare la sua parte. Qui è la grandezza della Dinastia che ci ha preceduto e che verrà dopo di noi.
AUGURI.
L'opinione di Giuseppe borgioli
HA VINTO GARIBALDI
di Giuseppe Borgioli
Alessandro Sacchi mi ha chiesti di scrivere qualcosa nella ricorrenza della scomparsa di Camillo Benso di Cavour, impresa che –come dicono i giovani- mi intriga – al di sopra di ogni ricostruzione storica e biografica. Cavour fu padre della Unità della nostra Patria e la sua opera fu principalmente politico-diplomatica. I modi e i tempi della sua azione obbedirono a questa visione che fu unica nel panorama del Risorgimento. Porre le fondamenta di uno Stato diviso e frustrato non è facile. Le tante e diversa fazioni che agognavano alla unità politica della nostra Italia erano non poche e gli ideali che le animavano erano in contrasto fra di loro segnate dai personalismi. Unità interna per agire di comune accordo fu la strada difficile percorsa da Cavour, sin dalla prima giovinezza quando abbracciò le idee liberali a cui restò fedele per tutta la sua pur breve vita politica quando fece della Monarchia Sabauda il faro del suo progetto. Re e Patria furono il leiv motiv della sua milizia politica. Il pragmatismo fu una costante politica che si sposò con una vocazione spirituale ferma, che non ha mai conosciuto ondeggiamenti. Non fa fatica essere pragmatici quando i principi sono saldi. La diplomazia non è una semplice tecnica suggerita dagli avvenimenti quando restano chiari e irrinunciabili gli obiettivi da raggiungere.
Idealismo e realismo si amalgamano insieme in vista della azione comune come la linea ispiratrice di una grande politica conduce la passione e la razionalità dei grandi uomini. I patrioti animati da alti ideali furono molti e scrissero pagine entusiasmanti nel Risorgimento. Ho il dubbio che questa Italia sotto ai nostri occhi e che ò ancora il frutto delle nostre premure e preoccupazioni sia quella non dico sognata ma perseguita dal Cavour. Camillo Cavour mori giovane a cinquanta un anno e ci ha lasciato con la bocca amara di non aver assaporato il compimento della sua progettualità politica. Lui compi la sua esistenza quando Roma non era ancora capitale senza i conforti religiosi che gli furono negati e quando la articolazione della nuova Italia avrebbe avuto bisogno del tocco del suo ingegno. Come tante opere artistiche dobbiamo accontentarci della sua incompiutezza, del sacrificio di chi è venuto dopo di lui e ha cercato di interpretare le sue idee il suo messaggio privo di testamento. Gli avvenimenti storici che hanno fatto seguito alla morte di Cavour ci hanno spesso entusiasmato, qualche volta disarmato. La linea che ha prevalso nella vita della giovane Italia fu quella del pur generosissimo Garibaldi che ebbe il seguito dal mancato imperialismo di Francesco Crispi antesignano in politica estera di Benito Mussolini. Il progetto di Camillo Cavour forse era rimasto senza eredi diretti. Questa deviazione è stata pagata con il sangue del popolo Italiano. La pagina imperialista fu più crispina e mussoliniana, più garibaldina che cavourriana. La storia non si ripete mai e per procedere avanti ha bisogno di fare qualche passo indietro. A noi il compito di ricostruire lo Stato da dove ce lo ha lasciato Camillo Benso conte di Cavour.