di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

 

“Gli Azzurri sfidano le corone”, così Corrado Augias su La Repubblica di oggi, si avventura a denigrare le monarchie. Niente più di gossip, ovviamente. Con più di qualche svista, a cominciare dal titolo. Perché gli “azzurri”, come sono chiamati i giocatori della nazionale italiana di calcio, indossano quella maglia, che ha il colore azzurro (o blu) Savoia in onore della Casa regnante quando la squadra fu costituita per la prima volta. Azzurra la maglia degli sportivi, come la sciarpa degli ufficiali delle forze armate. Ho scritto che l’articolo “denigra” non critica le monarchie, Spagna Inghilterra, Danimarca. Perché la critica è sacrosanta, in ogni caso e in ogni contesto. La denigrazione per sua natura sempre generica non porta argomenti al dibattito. Monarchie “un po’ anomale”, scrive il Nostro. E parte dalla Corona inglese della quale rileva “l’evidente declino”. Sono a lui evidente, se è stato sottolineato il ruolo della Regina Elisabetta perfino nel corso della pandemia, che falciava giorno dopo giorno giovani e anziani, quando, in soli quattro minuti, in un intervento televisivo apprezzato dai comunicatori di tutto il mondo, ha mandato un messaggio chiaro ai suoi concittadini ricordando che avevano affrontato, e vinto, ben altre battaglie. Quattro minuti con voce e sguardo fermo per dire parole chiare e definitive. Un discorso efficace, molto più di quelli, lunghi e spesso fumosi, ai quali ci hanno abituato i nostri politici. La Corona inglese che, forse Augias non sa, porta punti al PIL del Regno Unito per il fascino antico e moderno di quel ruolo che è espressione di identità nazionale apprezzata dagli inglesi e da quanti guardano alla loro esperienza nazionale. Quella identità nazionale che un popolo costruisce lungo gli anni, che manca agli italiani ai quali è stato insegnato che l’Italia è nata nel 1946, e pertanto festeggia il 2 giugno, una ricorrenza comunque divisiva, anziché altra occasione come il 17 marzo, data della costituzione dello Stato nazionale (1861), un evento che solitamente si festeggia ovunque nel mondo, siano repubbliche o monarchie. Segue il caso del Regno di Spagna. Augias non può non ricordare che Re Juan Carlos, in presenza di un tentativo di colpo di Stato che aveva trovato eco in vari ambienti delle forze armate, si presentò in TV con l’uniforme di Capitano Generale per ordinare ai suoi soldati di tornare nelle caserme. Poi quel sovrano, certamente benemerito della democrazia spagnola, per aver assicurato la pacifica transizione dal franchismo alle istituzioni liberali, ha dimostrato di non saper invecchiare con la stessa dignità con la quale aveva regnato e, nel rispetto del ruolo al quale era stato educato, ha deposto la corona nelle mani del figlio che la tiene con grande dignità, tra l’altro garantendo con la sua presenza l’unità del paese che l’inadeguatezza delle forze politiche, a Madrid come a Barcellona, ha più volte messo in forse. Infine la Danimarca, che Augias ipocritamente apprezza per “una discrezione spinta al punto che non molti saprebbero dire se sieda su quel trono un re o una regina”. Forse non ha avuto occasione di essere in quel paese per la festa nazionale o del genetliaco del sovrano (oggi della sovrana) quando i danesi si accalcano dinanzi al Palazzo Reale per acclamare e ricordare che in quella istituzione non è solo la loro identità come popolo ma anche un costume democratico nel rispetto delle leggi. Forse Augias non sa che la Danimarca è, secondo la rilevazione di Transparency International sulla percezione della corruzione il paese più virtuoso del mondo. Il primo, cui seguono quelli che progressivamente si discostano di più dalle regole, fino a giungere oltre al 50 esimo posto al Botswana e a Cuba e all’Italia, Repubblica dei partiti e delle camarille. Purtroppo, perché noi amiamo immensamente questo Paese, come i nostri padri ed i nostri nonni, fin da quando gli atleti hanno cominciato ad indossare la maglia azzurra. L’Italia, soprattutto, e sempre. Come ha dimostrato il Principe Amedeo di Savoia Aosta sepolto il 1 luglio a Superga che, da ufficiale della Marina Militare, aveva giurato fedeltà alla Repubblica, perché così autorizzato esplicitamente dal dallo zio, il Re Umberto II. Così si è italiani, caro Augias, per l’Italia non per la fazione.

di Davide Simone

 

"Sarebbe ridicolo, o quanto meno paradossale, in epoca in cui le conquiste dello scibile vertono verso traguardi mai sognati prima d'ora, in epoche in cui l'uomo volge alla conquista degli spazi ed alla scoperta di nuovi mondi celesti, parlare, ancora, di argomenti che sanno di marcatamente oscurantismo come è l'argomento MAFIA. Ma in Sicilia [...] questo argomento è quanto di più scottante e realistico, poiché la situazione ambientale è rimasta ai primordi del Cinquecento e forse del Medio Evo, vista in rapporto ai popoli che ghermiscono l'Europa ed il Mondo Civile. Che cosa si intende per MAFIA? Cento anni fa, allorché prima del regno Sabaudo imperava il Borbone, non era possibile, nel Meridione, e specie in Sicilia, tutelare la giustizia mercè di uomini dediti alla pubblica sicurezza. Le polizie di allora, deboli, male organizzate e pressocché inefficaci, non avevano alcun ascendente verso la popolazione che veniva abbandonata a sé stessa ed i relitti del sistema feudale, allora vigenti ed imperanti, conferivano ai feudatari di allora anche il potere di amministrare la giustizia con un potere esecutivo affidato all’arbitrio dei propri vassalli. Mutati i tempi e divenuta politicamente UNA l'Italia, malgrado la generosa opera svolta dalle forze di polizia del nuovo Regno Sabaudo intese alla epurazione delle popolazioni dal brigantaggio, rimasero tuttavia radicate quelle tradizioni che a lungo avevano imperato. Si giunse, talvolta, a dare uno sfondo politico all'opera delittuosa dei briganti per dare loro un'aurea di gloria che, alla luce della realtà, si traduceva invece ad atti di violenza, di profanazione dell'ordine costituito e di sovversivismo." Le riflessioni proposte non appartengono ad un qualche sostenitore di Casa Savoia, magari del Nord Italia, ma sono tratte da un verbale stilato nel giugno 1963 dai Carabinieri di Corleone, Palermo ("La mafia in Corleone 1963-1964" - Squadra P.G Carabinieri Corleone – 3508/11RPP RISERVATISSIMO) Uomini del Mezzogiorno e appartenenti ad un'epoca in cui la memoria degli eventi descritti era ancora viva e vivida (anche per la presenza di testimoni diretti, seppur molto anziani), questi militari confermano, con la loro analisi storica e investigativa, come la Mafia esistesse già prima del 1860/1861 e come il brigantaggio post-unitario fosse un fenomeno essenzialmente criminale e criminogeno. Un contributo preziosissimo e di innegabile e indubitabile valore storico, che fa tabula rasa di certe manomissioni (pseudo-revisionistiche) di matrice anti-unitaria e anti-risorgimentale rilanciate e tornate in voga negli ultimi anni con la crescita o il riaffacciarsi di sigle vicine al "legittimismo borbonico". Le valutazioni del verbale trovano peraltro riscontro nei lavori di ricerca di grandi studiosi meridionali come ad esempio Napoleone Colajanni, di cui si ricorda, in questa sede, il saggio "Nel Regno della Mafia"*.

 

*E' disponibile una buona bibliografia sul rapporto fra Mafia e brigantaggio siciliano anche partire dalla famosa inchiesta Sonnino-Franchetti del 1876

 

L’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) aderisce ai referendum promossi dal Partito Radicale in tema di Giustizia per superare, di fronte all’evidente, prolungata incapacità della classe politica al potere, inefficienze ed ingiustizie che pesano sulle persone e le imprese con possibili, gravi conseguenze negative anche sulla realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (P.N.R.R.), e s’impegna nella raccolta delle firme.

Roma, 24 giugno 2021

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu/2021/06/21/e-sempre-colpa-degli-altri-mai-una-sana-autocritica/ )

È sempre colpa degli altri. Dei poteri forti, naturalmente, soprattutto internazionali, dei partiti e dei gruppi di pressione, che hanno il potere, il denaro, i giornali, le televisioni. E la conclusione è che le cose non potevano non andare come sono andate, perché “vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare” Lo fa dire Dante a Virgilio. Ed è comodo giungere alla conclusione che non si poteva fare altro, che bisognava subire l’iniziativa degli altri, che è inutile assumere delle iniziative, anzi è inutile farsi promotori di idee e di programmi e cercarne l’attuazione. Più semplicemente è inutile pensare. Lo sento dire da quando ero bambino. E da allora respingo decisamente questo atteggiamento. Perché se così fosse effettivamente molti progressi della storia non si sarebbero fatti. E, tanto per non andare lontano, l’Italia non si sarebbe fatta se quei nostri progenitori avessero ritenuto che il potere dell’Austria-Ungheria era inattaccabile, che la presenza di un regno nell’Italia meridionale, erede dei colonizzatori spagnoli, era inevitabile, che Roma doveva rimanere alla Santa Sede, non per garantire, con un minimo di territorio, la giusta indipendenza all’autorità religiosa. Insomma, “un po’ di Roma”, come titola il bel romanzo storico di Alessandro Sacchi. Infatti, che senso ha uno “Stato della Chiesa”, amministrato tra inefficienza e corruzione, che due anni prima di Porta Pia condanna a morte dei patrioti che lottavano per l’annessione di Roma all’Italia! E così andando avanti nel tempo siamo arrivati al referendum istituzionale del 1946 quando, ammesso che i risultati siano esatti e moltissimi dubitano che lo siano, se non altro perché molti non hanno potuto votare o non hanno potuto votare liberamente, si è voluto chiudere con la storia d’Italia, con il Risorgimento, “unico tradizionale mastice della sua unità”, come ha scritto Indro Montanelli nell’>Avvertenza a “L’Italia della Repubblica”. Come se lo stato italiano fosse nato nel 1946. E questa è una bugia, una bugia grave non solo sul piano della nozione storica, ma perché impedisce di riandare al moto di formazione dello Stato italiano, al Risorgimento e prima ancora al pensiero di quanti nel corso dei secoli hanno propugnato l’idea di uno stato autonomo, da Dante a Guicciardini, da Machiavelli a Vittorio Alfieri, a Manzoni e via di seguito. E mentre nascevano le grandi monarchie europee, gli stati nazionali, Francia, Spagna, Inghilterra, c’erano da noi, e ci sono ancora, alcuni secondo i quali avremmo dovuto continuare ad essere, in un piccolo territorio (di poco più di 300 mila chilometri quadrati, incluso San Marino e il Vaticano), diviso in 7 stati, prevalentemente vassalli delle grandi potenze. Non ci sto, perché chi in Italia, dal 1946 ha gestito per decenni un potere assoluto non può andare esente da colpe. Perché chi ha issato la bandiera dei valori cristiani ha, quanto meno, assistito inerte o incapace di reagire alla scristianizzazione della società, avendola già privata della sua identità, della sua storia che, pure, è straordinaria, da Roma lungo i secoli. Basti vedere in quali condizioni sono gli istituti di istruzione, spesso privi dei servizi minimi, palestre, laboratori, biblioteche, un tempo assicurati indifferentemente a tutti i ragazzi, qualunque fosse la condizione sociale della famiglia, con sostanziale parità nel merito. Del degrado dell’istruzione sono una immagine impietosa le bandiere sdrucite, sporche, esposte da anni, sempre le stesse, giorno e notte, tutto l’anno, in violazione delle norme che ne disciplinano l’uso. Neppure i partiti che si dicono tutori della Patria hanno saputo impegnarsi perché sulla facciata delle scuole sventolasse una bandiera come quelle che il campionato di calcio richiama sulle finestre dei tifosi. E voi genitori, perché non donate una bandiera alla scuola dei vostri figli? Per ricominciare a credere nel ruolo dell’istruzione, non una spesa “corrente” ma un investimento sul futuro della società. Il che vuol dire anche pensare ad un’edilizia adeguata, ad una più attenta selezione dei docenti, da retribuire quanto il loro ruolo richiede. E poiché abbiamo iniziato dicendo che non va bene affermare che le cose non vanno perché altri sono contrari, non va trascurato che la Chiesa, che un tempo vantava un impegno importante nell’istruzione, è pressoché assente. Come nell’educazione. Un tempo c’erano gli oratori, luoghi d’incontro e di formazione. Ricordo che un mio collega, la cui famiglia non poteva pagare le ripetizioni, ripassava latino e greco con un sacerdote colto, mentre io giocavo a ping pong. Stupirsi della scristianizzazione della società è ipocrita. Non si trovano buoni sacerdoti. Io credo che quella “vocazione” sia condizionata anche dall’appeal che un ruolo ha nell’opinione pubblica. Senza che sembri irriverente vale anche per altre “professioni”, il funzionario pubblico, il Carabiniere, il magistrato, il medico. Il reclutamento segue l’attenzione che l’opinione pubblica riserva a queste attività. Più sono circondate di rispetto e di stima, più attirano i giovani i quali sono sempre guidati anche dall’immagine che ricavano dalla realtà del loro tempo.

di Giuseppe Basini

( tratto da: www.opinione.it)

Inserito in una nuova collana “L’Italia in eredità” delle edizioni Historica, a cura di Alessandro Sacchi e Salvatore Sfrecola l’agile volume “Vittorio Emanuele II, il Re Galantuomo” è una raccolta di saggi sui vari aspetti della vita e dell’opera dell’uomo e del Re, per la penna di differenti studiosi, storici, giornalisti, professori di diritto. Aperto con una introduzione di Alessandro Sacchi, curatore della collana e presidente dell’Unione Monarchica Italiana, il libro fin dalla prefazione fa emergere prepotentemente la figura di un uomo dalla personalità fortissima, capace di interpretare al meglio il suo ruolo di Re, ma senza farsene acriticamente condizionare, capace di essere Re tra i Re e popolo tra il popolo, in grado di concepire e realizzare il sogno di un piccolo Regno destinato a divenire il grande Regno della Patria italiana unita.Pagina dopo pagina emerge come Vittorio fu tutt’altro che un semplice, pur se magnanimo, testimone degli avvenimenti, ma un assoluto protagonista, tanto in politica estera, come Sfrecola ricorda del suo viaggio alle corti di Francia e Gran Bretagna che seppe legare al Piemonte (e dunque all’Italia) le simpatie e le volontà di quei monarchi, quanto in politica interna dove, come ricorda Andrea Ungari, il rapporto personale che seppe costruire con Giuseppe Garibaldi fu essenziale per l’impresa dei Mille.

Orgoglioso delle prerogative, ma anche rispettoso dei limiti che lo Statuto Albertino gli riservava, Vittorio non fu solo un grande conoscitore degli uomini a cui affidò il Governo, tra tutti ovviamente Camillo Benso conte di Cavour, ma anche costante stimolo in tutti i campi, come ricorda Gustavo Pansini a proposito della sua costante pressione per una rapida unificazione nazionale dei codici, civili e penali. Da Rossella Pace ed Edoardo Pezzoni Mauri (cui si deve il libro su Cavour della stessa collana) e soprattutto da Adriano Monti Buzzetti (non a caso grande giornalista) veniamo a scoprire la vena ironica e bonaria del sovrano, in tutta una serie di fatti curiosi e divertenti di un Re che fu non solo lineare e coraggioso, ma amante della vita semplice ogni volta che lo poteva e, in un certo senso, perfino giocoso.

Veniamo così a conoscere episodi gustosi e rivelatori, come quando a Pisa trovò il portone della cattedrale sbarrato da un prete oltranzista ma, trovata aperta una porticina secondaria, entrò dicendo: “È per la porta stretta che s’entra in paradiso”. O come quando, raggiunto da Cavour che voleva ragguagliarlo sulla gran folla accorsa sotto casa sua per festeggiarlo al ritorno dal successo diplomatico a Parigi, disse al suo Primo ministro: “Non me lo dica Conte, mentre lei era al suo balcone, c’ero anch’io, nascosto e confuso tra la folla a gridare Viva Cavour”.

Questi e tantissimi altri ricordi, considerazioni, approfondimenti e aneddoti si trovano nel libro, che risulta così veramente godibile, ma che soprattutto ci rammenta la più vera “chanson de geste” italiana: il Risorgimento.

di Davide Simone

"I confini del Territorio di Trieste coincidono con i confini stessi dell'Occidente. Gli Stati Uniti, o altri, non si facciano illusioni su questo fatto o sulla possibilità di mutarlo. Non continuino nella illusione di rafforzare o di adescare Tito se non vogliono lavorare per Mosca [...] la Jugoslavia di Tito – quali siano i suoi rapporti con il Cominform – è irreparabilmete al di là della barricata , poiché il Comunismo – malgrado ogni contingente apparenza – è indivsibile, come indivisibile è l'orgoglioso imperialismo panslavo che vi fermenta dentro" ("Primo discorso. In Usa le chiavi dell'Istria", in "Italia Monarchica", 13 aprile 1950).In questo editoriale, il mondo monarchico* dimostrava grande lucidità, frenando quegli entusiasmi atlantici per la rottura tra Tito e Stalin che stavano portando Washington e Londra a fare gli interessi degli jugoslavi (anche) nella questione del confine orientale**, con un danno non solo per il nostro Paese ma, potenzialmente e sul medio-lungo periodo, per tutto l'Occidente. Come a proposito spiega lo storico De Leonardis, "la Jugoslavia godeva di una rendita di posizione inesistente per l'Italia [...] Nonostante la retorica della Dottrina Truman, per gli americani, ma anche per gli inglesi, gli aspetti ideologici passavano decisamente in seconda linea davanti alla prospettiva di veder combattere al proprio fianco l'esercito jugoslavo [...] Quindi contava poco o nulla il fatto che l'Italia fosse uno Stato democratico e la Jugoslavia una dittatura comunista" (Massimo De Leonardis, "La democrazia atlantica"). Il riavvicinamento tra l'URSS e la RSFJ, iniziato già negli anni '50 e consolidatosi nel decennio seguente, confermerà la tesi legittimista; la Jugoslavia resterà sempre un' "eccezione" nel blocco d'oltrecortina, ma ben altra cosa era da considerarsi, per i nostri alleati, l'Italia, nazione occidentale tra i fondatori del Patto Atlantico nonché provvista di ben altra forza economica, militare e di una migliore posizione geo-strategica. *"Italia Monarchica" era l'organo ufficiale del PNM, il Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli. Altri giornali vicini al PNM erano il "Corriere della Nazione", "La Capitale", "Governo. Giornale delle libertà italiane" e il "Fronte del Risorgimento" **per portare la RSFJ nel loro campo, gli anglo-americani cominciarono, dal 1949 e per molto tempo, a rifornirla di denaro, armi, tecnologie e generi alimentari, e caldeggiarono l'ingresso del Paese nel Consiglio di sicurezza dell'ONU

Riferimenti bibliografici: "I monarchici e la politica estera italiana nel secondo dopoguerra" (Ungari-Monzali, Ed. Rubettno)