di Davide Simone

Il 4 giugno del 1990, Michail Gorbačëv pronunciò un memorabile discorso davanti agli studenti e ai professori della Stanford University. Nell’intervento, l’allora primo ministro sovietico dichiarò conclusa la Guerra Fredda*, aggiungendo: “E non mettiamoci a discutere su chi l’abbia vinta”. Non erano casuali, quelle parole, né lo era il loro utilizzo; Gorbačëv voleva infatti mettere in guarda gli americani dalla pericolosa seduzione di una “wishful thinking” , ovvero considerare vinto il cinquantennale confronto e messo all’angolo l’ex avversario. Un avvertimento caduto nel vuoto, quello del padre della “perestrojka”, dal momento in cui gli USA e i loro alleati scelsero (a cominciare dal 1992 e principalmente con Bill Clinton e George Bush jr) una politica sempre più unilateralista e di “potenza” di stampo ottocentesco, abbandonando i principi dell’ “equal footing” e del “predictability” che avevano regolato i rapporti con Mosca dal 1942** e cercando così la marginalizzazione (e, de facto, l’umiliazione) del gigante dell’Est. L’allargamento della NATO ai paesi dell’ex Patto di Varsavia (percepito dai russi come una grave minaccia alla loro sicurezza nazionale) nonostante le promesse e l’intervento privo del placet ONU in Serbia, nonché quello in Iraq sulla base di motivazioni rivelatesi artificiose, sono il risultato di questo nuovo “concept” atlantico, diverso dal “new democratic order” di impronta rooseveltiana e dal “new thinking” liberale ed inclusivo tra Gorbačëv e il primo dei Bush. Da qui, l’inevitabile ritorno ad un clima di sospetto e paura nei confronti di Washington da parte dei russi ed alle antiche pulsioni revansciste e scioviniste, su cui la disastrosa congiuntura economico-sociale pre-putiniana ha giocato un ruolo propulsivo di importanza fondamentale. Leggendo le considerazioni sull’argomento di Dinesh Joseph D’Souza, ex consulente per la comunicazione di Ronald Reagan e convinto repubblicano, potremo notare e verificare la totale mancanza di realismo di una fetta del movimento d’opinione statunitense (e occidentale) e delle istituzioni del Paese sui rapporti con la Russia e su quella fase storica:” Per la terza volta nel XX secolo, gli USA hanno combattuto e vinto una guerra mondiale. Nella Guerra Fredda, Reagan è stato il nostro Churchill: è stata la sua visione e la sua leadership a condurci alla vittoria”. Il presuntuoso manifesto di una vera e propria “pax americana”, dunque, un’illusione tanto anacronistica quanto pericolosa, destinata a riesumare i fantasmi dei Versailles. Anche, e lo si è accennato, le politiche predatorie portate avanti ai danni della Russia da Attori statuali e non-statuali dopo il crollo del comunismo rientrano nel calderone di questi errori, gravi, di cui oggi paghiamo le conseguenze. La fragile Russia post-comunista andava, insomma e per concludere, aiutata e seguita, più e meglio, non trattata come un partner minore o un mercatino dell’usato. L’auspicio è che dopo quest’ultima crisi l’Occidente sviluppi una nuova linea di approccio verso il grande vicino, indipendentemente da chi ne sarà alla guida e indipendentemente dalle valutazioni contingenti sulla disputa ucraina. E’ nell’interesse di tutti.

*la conclusione della Guerra Fredda fu sancita ufficialmente da Boris El’cin e George H. W. Bush nel febbraio del 1992

**i primi contatti tra USA, Regno Unito ed URSS sulla sistemazione post-bellica si ebbero agli inizi del 1942

 

Ucraina – Perché l’ANPI quella mattina non si è alzato

Se il dialogo e la diplomazia sono e devono rimanere gli strumenti più importanti per risolvere la crisi ucraino-russa ed evitare imprevedibili escalation, l’invio di armi (leggere e difensive) a Kiev è tuttavia una scelta fondamentale e irrinunciabile, sul piano morale come sul piano strategico (indebolire la posizione di Putin a livello negoziale e creare una resistenza che lo scoraggi dal compiere altre aggressioni in futuro). Ci sono quindi tre ipotesi che possono spiegare l’approccio dell”ANPI: 1) l’associazione ha virato su un pacifismo utopistico, in contrasto con la propria natura ontologica (è un’organizzazione fondata da partigiani combattenti) e la propria storia (più volte ANPI ha sostenuto e appoggiato la resistenza armata dei popoli contro gli invasori esterni e gli oppressori interni) 2) l’associazione è ossificata al vecchio pregiudizio anti-atlantico novecentesco e ad un’immagine novecentesca della Russia (i passaggi sulla condanna dell’espansionismo, comunque discusso e discutibile, della NATO ad Est, potrebbero confermare quest’ultima ipotesi) 3)l’associazione condivide il pregiudizio, diffusissimo tra una certa sinistra, dell’Ucraina post-Maidan come Paese sostanzialmente “fascista” (nei suoi comunicati sono stati fatti riferimenti anche al Battaglione Azov, a Svoboda e al Fronte Destro)

E se ad invadere fossero stati gli USA?

Nota: Putin non ha allertato le forze nucleari, come invece sostenuto dal Presidente nazionale ANPI

Putin è davvero “pazzo”?

La “Teoria del Pazzo” (Madman Theory) fu una dottrina concepita da Richard M.Nixon in base alla quale gli USA, prima potenza termonucleare e convenzionale, avrebbero dovuto dare l’idea di potersi lasciare andare a gesti dalle conseguenze apocalittiche, imprevisti ed imprevedibili per e da una democrazia occidentale. In buona sostanza, pur non sotto un pericolo diretto, Washington non escludeva l’ipotesi di un ricorso “preventivo” all’opzione nucleare contro i suoi nemici ed avversari.

Ideata per esercitare pressioni negoziali su Hà Nội ai tempi della guerra del Vietnam (l’utilizzo di ordigni nucleari “tattici” sembrò più volte sul tavolo), si pone come un’ integrazione ed una maturazione della teoria della dissuasione, rivolta in prevalenza contro quei soggetti ed Attori (statuali e non statuali) non controllabili o difficilmente controllabili.

Una forma di “propaganda”, quindi e all’atto pratico, che stavolta sembra aver fatto propria Vladimir Putin nella vicenda ucraina. Il ricorso alla minaccia nucleare (a dire il vero una costante nella storia sovietico-russa dal 1949 ad oggi) e l’affermazione secondo cui sarebbero “pronti a tutto” (appunto come le menti instabili e fragili) stanno non a caso inducendo molti a pensare che il leader del Kremlino sia un folle, un uomo fuori controllo e pertanto pericolosissimo e capace di qualsiasi cosa. E’ tuttavia assai improbabile che uno Stato complesso e articolato come quello russo, in gran parte erede di quello sovietico nei suoi meccanismi di funzionamento, consenta il comando ad un soggetto non più padrone di sé stesso. Un’idea più vicina alla suggestione che alla razionalità pragmatica.

Cosa c’è dietro la retorica apocalittica di Putin e perché non è una novità

“Il ruggito atomico di Elstin”; “Missili russi puntati sull’Europa”; così titolarono i principali quotidiani italiani, e non solo italiani, nei primi giorni della campagna NATO in Kosovo. Come sappiamo, al di là delle minacce non ci fu nessuna iniziativa frontale della Russia, sebbene non mancarono alcuni momenti di tensione (ad esempio l’incidente di Pristina e il dietrofront aereo del ministro degli Esteri russo Evgenij Primakov mentre era in viaggio diplomatico verso gli Stati Uniti).

Una certa retorica apocalitico-millenaristica non è nata con Putin (“conseguenze mai viste per chi dovesse interferire in Ucraina”, “siamo pronti a tutto”, “conseguenze militari se Svezia e Finlandia entreranno nella NATO”, gli annunci sull’allerta nucleare*, ecc) ma è una costate di Mosca, anche dopo il 1992 e anche ai tempi di Medvedev. Una scelta comunicativa che di fatto tradisce debolezza ma che non può avere nessuno sbocco concreto e pratico (Putin sa di non poter attaccare un membro NATO, per questo ha mosso adesso la sua guerra ibrida a Kiev).

Sempre restando alla comunicazione e alla sfera politica, con la sua mossa Putin ha allontanato giocoforza anche quegli alleati esterni prima irriducibilmente dalla sua parte, ovvero certe destre fulminate sulla via di Mosca (pure grazie a lauti finanziamenti) dopo un settantennio di atlantismo e americanismo fanatico e quelle sinistre radicali ancora legate al mito sovietico che fino a ieri bollavano come “nazisti” e “fascisti” tutti i resistenti ucraini, sulla base di un must tipico delle scuole propagandistiche di impronta socialista. Un errore nell’errore, di nuovo.

L’URSS, è bene ricordarlo, non morì nel 1992, ma molto prima. Morì a Berlino Est, a Budapest e a Praga.

*L’arsenale nucleare russo è sempre in stato di allerta (come quello statunitense) e prevede tre chiavi di attivazione distinte e separate, una per il presidente, una per il ministro della Difesa e una per il capo di Stato maggiore. .A decidere non è solo il capo dello Stato

La “sindrome da accerchiamento”: un problema non solo russo

La “sindrome da accerchiamento”* tra i motivi dell’operazione in Ucraina non è una prerogativa, un vulnus, della sola mentalità russa. Anche nel mondo occidentale, a ben vedere, è presente, e per certi versi più forte e diffusa.

Raccontarsi come perennemente in declino, guardare ad ogni avanzamento dei BRICS come ad un insopportabile e pericolosissimo smacco ed una certa sopravvalutazione della Russia (in realtà surclassata su quasi ogni aspetto), lo dimostrano, e le nostre politiche proiettive (anche oltre il diritto internazionale) ne sono una conseguenza diretta.

Lo stesso allargamento della NATO ad Est, a dispetto delle rassicurazioni fornite nel 1990 a Gorbačëv, rientra in questa “sindrome da accerchiamento” occidentale, sebbene in questo caso sia/fosse in parte giustificata dalla storia russa e dalla presenza di aggressivi revanscismi pure nella Russia eltsiniana.

*Accusata da Mosca da Ovest come da Est. Si tratta di un retaggio delle invasioni e degli attacchi portati dagli Svedesi, dai Cavalieri Teutonici e dai Lituani, prima, e dai Polacchi, dai Francesi e dai Tedeschi poi (ad Ovest) e dai Mongoli e dai Tartari, prima, e dai Cinesi poi (ad Est).

Ucraina: appello dei monarchici italiani – prevalga il buon senso

L’aggressione militare russa all’Ucraina costituisce un evento di straordinaria gravità, che dimostra la fragilità dei rapporti internazionali, in presenza di governi autoritari, non rispettosi dei diritti degli stati e delle persone.

L’Unione Monarchica Italiana fa appello ai governanti dei paesi coinvolti nel conflitto perché prevalga il buon senso, si passi dalle armi della guerra a quelle della diplomazia e si ristabiliscano rapporti internazionali nel reciproco rispetto dei diritti.

I monarchici italiani auspicano un immediato “cessate il fuoco” e il ritorno a condizioni capaci di assicurare ai popoli pace e prosperità.

Roma, 24 febbraio 2022

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

di Giulio Vignoli

Ho acquistato il libro di J.−L. Panicacci “L’occupazione italiana del Nizzardo” che indubbiamente costituisce una pregevole ricerca archivistica e storica.

Ma nel libro non si accenna minimamente alla storia di Nizza, alle modalità vergognose con cui fu ceduta, al risibile plebiscito (cosa poi accaduta di nuovo con Briga e Tenda), ai profughi che lasciarono la Città per non diventare francesi, alla successiva francesizzazione, ai Vespri nizzardi, ecc.

Ne consegue che il lettore non capisce perché gli Italiani, e non solo i fascisti, rivendicassero Nizza. Erano dei mattacchioni costoro? Naturalmente “poco colti” (pag. 16).

Vi sono anche errori. Ne cito qualcuno granduccio e anche piccolino.

Non è vero che Mussolini “ispirò” le grida alla Camera (pagg. 17-18). Se si legge il verbale del Consiglio dei Ministri (riportato da De Felice nel suo libro illustrante l’episodio), Mussolini deplorò la manifestazione soprattutto con riferimento a Nizza.

Vero che vi furono dei saccheggi a Mentone (pag. 25), ai quali partecipò anche Italo Calvino; poi con la caduta del fascismo virò a Sinistra, Sinistra a cui Panicacci appartiene. Quando poi si parla di voltagabbana…

“Il regime fascista e le autorità militari italiane favorirono il saccheggio con ordini verbali” (?!).

 Idee dell’Autore?

La frase “Molti nemici molto onore” (pag. 29) è di Federico di Svevia (il “Vento di Soave” di Dante), fatta sua poi da Mussolini.

L’ultimogenita del re Vittorio Emanuele III si chiamava Maria Francesca Anna Romana e non Maria Pia. Maria Pia è la primogenita di Umberto II che in seconde nozze ha sposato un Borbone Parma (pag. 105, nota 129).

Il marito della principessa Maria Francesca, ecc. si chiamava Luigi Carlo Maria Leopoldo Roberto di Borbone Parma e non Gennaro (pag.177).

L’autore cita quasi sempre autori italiani suoi amici o a lui favorevoli, ma in Italia esistono anche autori che non condividono le sue posizioni (Ragazzoni, Mola di Nomaglio, il modestissimo sottoscritto delle Università di Bologna e Genova, forse un tantino più grandi e importanti di quella di Nizza e delle associazioni resistenziali e partigiane alle quali l’Autore appartiene). Ignoti o censurati? Da parte dei citati francesi il plauso è ovvio.

Il libro è un esempio eclatante del “politicamente corretto”, altro che il contrario.

Circa la “pugnalata alla schiena” che viene ripetuta come un mantra, deplorevole senz’altro, mi pare che la frase “alla guerra come alla guerra sia d’origine francese”.

Il resto è quello che ci si può aspettare da un oriundo italiano francesizzato.

La frasetta (pag. 144)“riedizione della più becera e violenta polemica antifrancese (…) alla fine del secolo precedente”  del citato Marco Cuzzi (che sembra essersi specializzato nel denigrare, con gran plauso francese, gli irredentisti italiani di Nizza e Corsica, da lui mai conosciuti personalmente, al contrario di chi scrive, per sentire le loro ragioni), sembra dimenticare un piccolo episodio come quello di Aigues Mortes (provenzale!, lingua nobilissima uccisa dall’imperialismo francese), dove gli operai italiani delle saline furono trucidati, uccisi a botte, linciati (v. Enzo Barnabà).

Cuzzi è un buon figliolo ma probabilmente vuole blandire il suo maestro Rainero le cui tesi sono forse dovute alla persecuzione che ebbe la sua famiglia durante il fascismo. Tesi che gli hanno meritato la Legion d’0nore, che tiene appesa nel suo studio. 

Certo non c’era il consenso della maggioranza degli attuali abitanti all’annessione all’Italia (pag. 181): i veri Nizzardi erano stati scacciati o erano esulati (circa 10.000), o francesizzati (es. introduzione immediata del francese a scuola al posto dell’italiano. Molti non poterono finire gli studi perché il francese non lo sapevano). Ancora alla fine dell’ultimo conflitto (1945) gli scolari che parlavano il dialetto nizzardo erano puniti.

Una vera pulizia etnica, con l’arrivo di popolazione francese, come accadde in Bretagna e meno in Corsica perché è una isola.

“Dolce Francia”.                               

( tratto da: Colle, lo stallo scatena i monarchici. Sacchi (Umi): «La crisi è di sistema, adesso ci vorrebbe il Re» - Secolo d'Italia (secoloditalia.it) )

Una crisi «non politica, ma di sistema», che si può risolvere colmando la lacuna di «un vero arbitro terzo», estraneo alla militanza in una delle forze politiche oggi in campo. Questa la lettura dell’impasse sul Quirinale consegnata all’Adnkronos da Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione monarchica italiana. Il leader dell’Umi ha anche un nome da proporre: Aimone di Savoia-Aosta. Da tempo contende il ruolo di legittimo capo  della Real Casa al cugino Vittorio Emanuele. «Sarebbe un grande Capo dello Stato», assicura Sacchi dopo averne sciorinato il curriculum vitae, certamente prestigioso. Aimone, figlio di Amedeo di Savoia, scomparso di recente, è infatti responsabile per la Russia di Pirelli Tyre, di cui è vicepresidente.

Sacchi: «Aimone di Savoia, risorsa italiana»

«È un riferimento per gli imprenditori italiani in Russia», spiega Sacchi, che ne sottolinea anche il rapporto personale con Putin. In più, è ambasciatore dell’Ordine di Malta presso la Federazione russa. Infine, per quanto possa apparire singolare considerata la sua regalità, Aimone è anche Cavaliere al merito della Repubblica. Ma per Sacchi è soprattutto «una grande risorsa inutilizzata dell’Italia» in possesso di «tutti i requisiti per fare il Capo dello Stato, io dico anche per fare il Re». Un sogno più che una proposta. Ma non per questo il presidente dell’Umi rinuncia a darvi sostanza. E spiega: «Quando il costituente repubblicano ha organizzato l’architettura dello Stato, ha fatto in modo che ci fosse un certo bilanciamento tra i poteri ritagliando la figura del Capo dello Stato sulle prerogative che lo Statuto Albertino dava al Re».

«La Repubblica sta per implodere»

Ma, aggiunge, la differenza c’è e sta proprio nella «finta terzietà» del presidente repubblicano. «È impossibile che dopo 50 anni di militanza di partito una persona diventi super partes dal giorno del suo insediamento. Non si può resettare un’ideologia», si accalora Sacchi. Eppure, è così ormai da 75 anni. Ma il tempo trascorso, obietta il leader dei monarchici italiani, «ha trasformato la crisi politica in crisi di sistema». Un cambiamento che molti non hanno colto. Neppure Mattarella, a sentire Sacchi: «Non ha capito che avrebbe dovuto sciogliere le Camere». Più che normale, alla luce della tesi di Sacchi, visto che neppure il ruolo da lui ricoperto è sottratto alla «contrattazione» tra i partiti. «La repubblica – conclude il capo dei monarchici – è come una supernova. Sta implodendo per una crisi di sistema che non si risolve neanche con le elezioni».

 

 

La lettura dell'impasse sull'elezione del nuovo Presidente della Repubblica fatta da Alessandro Sacchi, presidente dell'Unione Monarchica Italiana

( tratto da: Quirinale 2022, monarchici lanciano Aimone di Savoia: "Sarebbe un grande presidente" (adnkronos.com))

Una crisi "non politica, ma di sistema", che si può risolvere colmando la lacuna di "un vero arbitro terzo", estraneo alla militanza in una delle forze politiche oggi in campo. Questa la lettura dell'impasse sull'elezione del nuovo Presidente della Repubblica fatta da Alessandro Sacchi, presidente dell'Unione Monarchica Italiana, che all'Adnkronos indica il nome a suo dire capace di interpretare al meglio il ruolo: Aimone di Savoia-Aosta, a capo di Casa Savoia in disputa con Vittorio Emanuele di Savoia.

Una candidatura, quella di un esponente della dinastia che ha regnato nel Paese dal 1861 al 1946, che difficilmente farà strada nell'Italia repubblicana. Ma, sottolinea Sacchi, "una Repubblica che non ha paura di se stessa non dovrebbe avere questo tipo di perplessità. Se la Repubblica tiene ancora in esilio Umberto II da morto, vuol dire che non solo ha scheletri nell'armadio e un peccato originale, ma ha ancora timori". 

Secondo il presidente dell'Unione monarchica, la corsa al Colle non trova risoluzione "perché questa non è una crisi politica, ma una crisi di sistema. Quando il costituente repubblicano ha organizzato l'architettura dello Stato, ha fatto in modo che ci fosse un certo bilanciamento tra i poteri ritagliando la figura del Capo dello Stato sulle prerogative che lo Statuto Albertino dava al Re nel periodo della monarchia costituzionale".

"C'è però una debolezza - sottolinea - perché si dava per scontato che chi ascendesse alla carica di Presidente della Repubblica avesse un requisito fondamentale, cioè che fosse terzo. Ma questa è una finzione, è impossibile che una persona dopo 50 anni di militanza in una parte possa diventare super partes dal giorno del suo insediamento, come se fosse possibile resettare un'ideologia. Nello sviluppo della storia repubblicana tutti i Presidenti sono stati espressi in virtù di una finzione che oggi non funziona più, perché è cambiata la politica e molti Capi dello Stato non si sono accorti di questo cambiamento, come Mattarella che non ha capito che avrebbe dovuto sciogliere le Camere".

In questo contesto "manca quindi la figura terza, manca l'arbitro in un meccanismo che sottrae il Capo dello Stato alla contrattazione. Non è una questione di persone, anche se io riterrei che Aimone di Savoia sarebbe un grande Capo dello Stato e ne avrebbe tutti i requisiti. Ma forse non è ancora il suo momento. Intanto - conclude Sacchi - la Repubblica è come una supernova, sta implodendo per una crisi di sistema che forse non si risolve neanche con le elezioni".