LA DISINTEGRAZIONE DELLO STATO
di Giuseppe Borgioli
La repubblica ha 74 anni, anche se io ho sempre sostenuto che è nata politicamente due anni dopo la sua proclamazione, nel 1948 con le elezioni del 18 aprile. La costituzione repubblicana che molti magnificano come la migliore del mondo risulta invece dal compromesso fra la democrazia cristiana e il partito comunista con i laici (liberali e socialisti) nettamente minoritari nel ruolo di compari d’anello. Per capire il senso di questo compromesso veramente storico si leggano gli atti della costituente, della discussione che accompagnarono la stesura della Carta. Democristiani e comunisti erano fatti per intendersi senza profferir parola, il loro era il linguaggio dei gesti. Il successo finale della costituzione repubblicana sta in questo compromesso preterintenzionale. Comunisti e democristiano approvarono quell’atto di nascita con la riserva mentale di piegarlo alle contingenze, ciascuno a suo modo. Se il 18 aprile 1948 avessero vinto i comunisti, avrebbero potuto attuare la repubblica dei soviet senza cambiare la lettera della costituzione. Così la Democrazia Cristiana alla luce della stessa costituzione ha potuto sfare e disfare nel corso della prima repubblica. Privata dell’unità e della rappresentatività garantite dalla figura del Re, il particolarismo degli interessi politici e economici ha corroso le basi del sistema. Dal manuale Cencelli al metodo Luca Palamara per le nomine degli uffici giudiziari, la logica spartitoria non ha risparmiato niente e nessuno. Mentre il dopo coronavirus ha riacutizzato i contrasti fra le regioni e il governo centrale in materia di sanità pubblica, abbiamo raggiunto l’acume di ipotizzar una sorta di passaporto sanitario per essere accolti in alcune regioni se provenienti da altre. E non è stato agevole spiegare che non esiste alcuna immunità accertata. Una volta c’era il certificato di sana e robusta costituzione che si era ridotto a un burocratico adempimento. Intanto si sgretola il principio dell’unità dei diritti. Lo stesso significato di “cittadinanza europea” suona come uno slogan vuoto se non corrisponde all’esercizio dei diritti. Altro che solidarietà che è un passo successivo nella crescita di una comunità giuridica. Gli imprenditori son la parte più coraggiosa della vita nazionale. Carlo Bonomi il presidente di Confindustria ha detto con chiarezza, senza giri di parola, che la conseguenza della crisi economica saranno più drammatiche del corona virus e ce lo faranno dimenticare. Chiodo scaccia chiodo. Ci riferiamo anche alla notizia che ha per protagonista Leonardo Del Vecchio un imprenditore straordinario che è partito dall’occhiale venduto sulle bancarelle sino a costruire un impero industriale finanziario. Una delle poche multinazionali italiane. La notizia è che si accinge a raddoppiare la sua partecipazione al capitale di Mediobanca acquisendo una posizione di controllo nella banca che è qualcosa di più di una banca d’affari. Mediobanca ha svolto nei decenni, sotto la guida di Enrico Cuccia, una funzione di propulsione del sistema industriale italiano. Altro che sovranismo. Ancora una volta l’iniziativa di Leonardo Del Vecchio tende a perpetuare la funzione di Mediobanca in difesa della “italianità” della nostra industria. Purtroppo questa decisione come tutte le cose buone potrebbe essere ritardata o ostacolata dei politici che parlano più per il piacere delle agenzie di stampa che per risolvere i problemi. Tutti (o molti) si aspettano il ritorno allo statalismo. Il caso Alitalia è un piccolo segnale. Dare soldi senza sanare una azienda. L’IRI di Beneduce era chiamata l’ospedale delle aziende decotte perché, almeno sino a un certo tempo, le rimetteva in salute. Ma per salvare l’economia occorrono tanti Del Vecchio e uno Stato efficiente. Riusciremo a ricostruire lo Stato, contro lo statalismo?
In occasione della Festa della Repubblica, l'Unione Monarchica Italiana organizza un approfondimento sulla genesi della nostra repubblica per martedì 2 giugno 2020, ore 18.30, in diretta sulla pagina:
https://www.facebook.com/100431193645187/videos/722970668507319/hc_
Intervengono:
il Dott. Adriano Monti Buzzetti Colella, il Prof. Avv. Gustavo Pansini, il Prof. Avv. Salvatore Sfrecola e il Prof. Andrea Ungari
Modera l'Avv. Edoardo Pezzoni Mauri,
Conclude l'Avv. Alessandro Sacchi (Presidente Nazionale U.M.I.)
di Salvatore Sfrecola
( tratto da:https://www.unsognoitaliano.eu/2020/06/01/se-questa-e-una-repubblica-viva-il-re-parola-di-marcello-veneziani/)“Se questa è una repubblica, Viva il Re”. Non è diventato monarchico Marcello Veneziani. Quella frase, che chiude l’articolo che oggi, su La Verità, dedica alla celebrazione del 74° anniversario della Repubblica vuol significare semplicemente tutta la sua delusione per come vanno le cose dal 1946. Giornalista, scrittore, storico, filosofo e politologo, autore di saggi che hanno alimentato in modo determinante la cultura di destra, tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra, Dio, Patria e Famiglia, per non citare che i più noti, Veneziani ci presenta le sue idee sulla Repubblica alla vigilia del 2 giugno. Per la quale il tempo, dal 1946, sarebbe passato invano. Nel senso che “la formula politica su cui regge la nostra repubblica è rimasta la stessa, siamo ancora una repubblica parlamentare e non siamo mai passati a una repubblica presidenziale, federale o altro. Tradita, degenerata ma parlamentare. Vani tentativi, piccoli aborti, leggi elettorali a raffica e su misura per chi governa ma nessun sostanziale passaggio da una forma repubblicana a un’altra. Fallì pure il tentativo renziano di “abolire” il Senato e il bicameralismo perfetto. Siamo dove eravamo, solo più sfasciati”. Per Veneziani, “nessuno ha avuto il coraggio e i numeri per modificare la Costituzione, riscrivere i suoi passi alla luce delle esigenze mutate e dei cambiamenti d’epoca”. Abbiamo la “partitocrazia come recinto e orizzonte della democrazia”, per cui siamo “ancora nella fase dissolutiva della prima repubblica”. Osserva che “l’unica grande novità degli ultimi decenni è che sono scomparsi i partiti storici che l’avevano costituita, le loro ideologie e la loro presenza territoriale. La DC, il PCI, il PSI, il MSI, il PSDI, il PRI, il PLI.”. Denuncia “l’inconsistenza del populismo; lasciato a sé stesso, è un vago umore, un sentimento di rivolta e di opposizione. Ma poi, per governare, si deve unire ad altro che le dia sostanza, qualità, strategia e destinazione: per esempio una linea di sovranità o di subordinazione ai poteri internazionali. Il populismo vale come sfogo, disagio, voglia di mutamento; ma non ha poi le classi dirigenti, le capacità e le competenze per potersi trasformare da pura protesta in governo in guida del Paese. Il populismo è la fase puerile della politica, quando è ancora confusa con l’antipolitica e non distingue tra slogan e progetti, tra desideri e realtà” La citazione è necessariamente ampia perché l’occasione di riflettere sulle nostre istituzioni è importante, cominciando dalla natura parlamentare dello Stato che evidentemente non piace a Veneziani il quale vorrebbe una Repubblica presidenziale, magari federale. È la ricorrente richiesta di una parte della destra italiana che nella Repubblica presidenziale immagina una maggiore governabilità, in quanto affidata ad un presidente eletto dal popolo e alla guida dell’esecutivo, alla Macron, per intenderci. È il desiderio dell’“uomo forte” al comando, opzione pericolosa perché potrebbe anche dar luogo a un premierato difficilmente contrastabile laddove la democrazia si basa sull’alternanza al potere, che non sia teorica ma possibile. Certamente in una democrazia parlamentare, come nella tradizione italiana, come si atteggiò immediatamente il Regno di Sardegna in applicazione dello Statuto Albertino che delineava una forma di governo di tipo monarchico-costituzionale “puro” nel quale la Corona occupa un ruolo centrale e attivo: “il Re nomina e revoca i suoi Ministri” (art. 65). Ma subito se ne dà una interpretazione parlamentare attuando, “maggiormente forte e pervasivo il collegamento del consiglio con il parlamento, alla ricerca di una sempre più indispensabile fiducia dei deputati verso il governo” (Paolo Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di Padre, Il Mulino, Bologna 2003,110).È una debolezza? La democrazia notoriamente è la forma più difficile di gestione del potere pubblico. Secondo Winston Churchill “è stato detto che la democrazia e la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Infatti, in Parlamento si decidono le scelte di fondo. In Parlamento, e sulla base della indicazione dei partiti i quali sono il luogo politico nel quale si attua l’elaborazione delle idee e si forma il consenso popolare. Veneziani ricorda la “partitocrazia” con la quale il suo inventore Giuseppe Maranini indicava il potere dei partiti, più esattamente lo strapotere dei partiti. Se questo sistema ha delle pecche queste sono dovute essenzialmente alla circostanza che nei partiti, dei quali non sono state definite con legge le regole di funzionamento, prevale la volontà dei leader sicché anche le liste elettorali che daranno luogo alla formazione del Senato e della Camera dei deputati sono definite da una ristretta oligarchia. Questo male si potrebbe aggravare in una Repubblica presidenziale nel senso che, con ogni probabilità, a portare alla presidenza un esponente di spicco della politica sarà un partito o una coalizione ben definita di partiti con l’effetto di aumentare il difetto che Marcello Veneziani identifica nella partitocrazia. Nel senso che avremmo probabilmente un partito unico, il che fa pensare che persista in una parte della destra politica una cultura che si riaggancia all’esperienza del partito unico, sia pur riveduto e corretto. È chiaro che questa prospettazione di una riforma della Costituzione, per cui Veneziani sembra anche aver sofferto della mancata abolizione del bicameralismo perfetto che sappiamo bene essere un falso problema perché ha costantemente favorito l’approfondimento dei testi normativi in fase di elaborazione parlamentare senza ostacolare i tempi della legislazione che sono dipesi sempre dal consenso, questa idea di democrazia guidata è molto diversa da quella liberale nella quale noi crediamo. C’è una differenza quasi antropologica tra chi crede nella democrazia parlamentare, nel pluralismo delle idee e chi ritiene che gli italiani siano immaturi evidentemente per questa forma di democrazia. Che potrei chiamare all’inglese, laddove Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, osservando a Londra i rapporti fra Governo, Parlamento e Sovrano ha definito la teoria della “divisione dei poteri” come espressione necessaria di uno stato liberale. Se le cose non vanno in Italia non è colpa della natura parlamentare dello Stato ma dei partiti e, in fin dei conti, degli italiani che non partecipano alla vita politica e delegano ad altri, spesso senza esprimere un voto, le decisioni sul governo del Paese. Le semplificazioni dei sistemi costituzionali sono sempre pericolose anche perché l’uomo solo al comando, che piace tanto in certi ambienti, viene sempre immaginato come uno della propria parte politica giacché se, invece, fosse tratto da altri schieramenti penso che la sofferenza sarebbe lunga e insopportabile. Ora noi vogliamo una democrazia nella quale sia facile mandare a casa chi ha governato male, chi non ha soddisfatto le esigenze dei cittadini. E questo può accadere solo in uno stato parlamentare. Pertanto, noi siamo fermamente convinti che la strada della democrazia, difficile e irta di ostacoli, disseminati di recente da un populismo becero e incolto, senza esperienza alcuna, sia la valorizzazione del Parlamento in rapporto alle scelte del popolo. E per questo occorre una legge elettorale che assicuri espressione compiuta alle scelte popolari, con regole che non vengano cambiate ad ogni legislatura, come osserva esattamente Veneziani ad uso e consumo presunto, come l’esperienza insegna, della maggioranza che la vota e che ritiene così di perpetuare il potere. Guardo con simpatia al sistema elettorale inglese, a collegi che consentono un rapporto diretto tra l’elettore e l’eletto e che rendono i gruppi parlamentari espressione autentica della volontà popolare limitando in questo modo lo strapotere dei partiti perché un parlamentare eletto sulla base della conoscenza diretta e del consenso dell’elettorato non sarà mai succubo delle scelte dei partiti. Abbiamo visto nel Regno Unito un esempio straordinario di democrazia. Il 12 dicembre 2019 gli elettori hanno scelto in maggioranza i parlamentari del partito conservatore, il giorno successivo la Regina ha incaricato il leader di quel partito di formare un governo e questo ha assicurato immediatamente governabilità e sicurezza in un momento difficile di quel grande Stato che usciva dall’Unione Europea. È la legge elettorale che dà senso al funzionamento delle istituzioni costituzionali. Per cui è necessario che sia costituzionalizzata e non rimessa ai contingenti interessi di occasionali maggioranze.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: https://www.unsognoitaliano.eu/2020/05/30/magistratura-giudici-e-pubblici-ministeri-separare-le-carriere-sarebbe-un-errore/)
Come era facilmente prevedibile, lo scandalo delle “trattative” tra componenti laici e togati del Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.) o dell’Associazione Nazionale Magistrati (A.N.M.) e politici prevalentemente di area PD per l’assegnazione di posti di funzione di particolare rilievo negli uffici giudiziari, sta facendo danni gravissimi. Non solo all’immagine della Magistratura, precipitata nella graduatoria della stima degli italiani, sicché la disonestà di pochi offende la dignità dei più che operano giorno dopo giorno con dignità ed onore al servizio della legge, ma perché il dibattito sta dando la stura a proposte di riforma le più pericolose per il buon funzionamento della giustizia. Al centro del dibattito la ricorrente proposta di separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. A qualcun pare una buona idea. A me non sembra e vi dico perché. Vediamo prima di tutto la tesi della “separazione”. La prendo pari pari da un intervento in una chat “Riforma Magistratura” cui ha dato luogo il gruppo “Lettera 150” promosso dal Prof. Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano nell’Università di Torino, che ha riunito docenti e professionisti (inizialmente 150, presto più che raddoppiati) per dibattere di temi istituzionali e di generale interesse. Interventi appropriati e ritenuti meritevoli di attenzione da Il Sole 24 Ore che vi ha dedicato l’apertura e dal Corriere della Sera per varie proposte. Ed ecco una delle tesi esposte: “Il pubblico ministero non è un magistrato, ma un avvocato; non “dice” il diritto (ius dicere), ma sostiene una tesi; non esercita un’azione penale obbligatoria (con buona pace del Costituente), ma sceglie se, chi e come accusare. Dovremmo forse uscire dalle ipocrisie formali e guardare alla realtà dei fatti, traendone le debite conseguenze. Immagino delle garanzie funzionali per il pubblico ministero nel rispetto delle linee di politica giudiziaria fissate dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Giustizia (ed approvate dalle Camere), di modo che ci sia una responsabilità parlamentare in apicibus. Il rapporto è analogo a quello che intercorre tra il ministro e il dirigente, secondo il principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa. Se un pubblico ministero Indaga sulle veline a casa di Berlusconi piuttosto che su gravissimi reati societari o fiscali da cittadino pretendo che qualcuno risponda di come le risorse sono utilizzate. Ora il PM fa intrinsecamente politica, ma sfugge completamente al circuito rappresentativo. L’autodisciplina del CSM è una barzelletta così come la resp. civile. Gli indicatori economici non possono funzionare. La responsabilità politica è l’unica via seria, a mio avviso. Il modello del PM-Giudice è fallito, servono altre prove di ciò? Occorre avanzare una proposta dirompente sul modello del prosecutor americano. Se ci si deve arrivare gradualmente tramite la separazione delle carriere, benvenga questo primo passo. Ma intanto attuazione del 106 Cost. Sul magistrato elettivo”.
Riassumendo:
1) “Il pubblico ministero non è un magistrato, ma un avvocato; non “dice” il diritto (ius dicere), ma sostiene una tesi”. Nel nostro ordinamento il P.M. è un magistrato, non un giudice. Infatti non “dice il diritto”. È un magistrato, perché esercita l’azione penale nell’interesse della legge, cioè dello Stato-Ordinamento. Non è un avvocato. Non è “l’avvocato dell’accusa”, come sosteneva qualcuno. Non è un “avvocato dello Stato”, come suggerì Luigi Mazzella all’atto di insediarsi al vertice dell’Avvocatura Generale dello Stato. La sua proposta in parole povere era, via i Pubblici Ministeri magistrati. Quella funzione la svolgiamo noi. Questo dimostra un errore di prospettiva. Gli avvocati dello Stato costituiscono un ufficio della Pubblica Amministrazione, quindi dello Stato-Amministrazione. È un’altra funzione. Si comprende facilmente. Se si vuole.
2) “non esercita un’azione penale obbligatoria (con buona pace del Costituente), ma sceglie se, chi e come accusare”. La Costituzione prevede che l’azione penale sia obbligatoria. È un aspetto de “la legge è uguale per tutti”. Il fatto che il P.M. non eserciti “sempre” l’azione penale ad ogni “notitia criminis” vuol dire che ha esaminato la denuncia, la segnalazione, l’esposto ed ha ritenuto non vi siano gli estremi per chiamare qualcuno in giudizio.Si dice: “Se un pubblico ministero Indaga sulle veline a casa di Berlusconi piuttosto che su gravissimi reati societari o fiscali da cittadino pretendo che qualcuno risponda di come le risorse sono utilizzate. Ora il PM fa intrinsecamente politica, ma sfugge completamente al circuito rappresentativo”. Solo se l’azione penale è obbligatoria qualcuno, il Ministro della Giustizia, il C.S.M. potrà chiedergli conto di non aver esercitato l’azione penale.
3) “Immagino delle garanzie funzionali per il pubblico ministero nel rispetto delle linee di politica giudiziaria fissate dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Giustizia (ed approvate dalle Camere), di modo che ci sia una responsabilità parlamentare in apicibus”. Vogliamo un Pubblico Ministero che dipende dal potere politico? Dove la “politica giudiziaria” è fissata dal Governo? O dalla maggioranza parlamentare? Che, poi, è la stessa cosa, perché è la maggioranza parlamentare che regge il governo. Si può, ovviamente, ma dove sarebbe l’indipendenza dell’organo che esercita l’azione penale nell’interesse della legge? Cosa vuol dire indicare la “politica giudiziaria”? Stabilire cosa viene perseguito tra quanto previsto dal Codice penale? Lo ha già fatto Renzi prevedendo che per reati con una pena fino a cinque il P.M. possa non esercitare l’azione. Se la maggioranza vuole escludere alcuni reali li elimina, non indica di non perseguirli. Questo è il ruolo del potere legislativo. In Francia il giudice istruttore dipende dal Ministro della Giustizia. Sapete come vanno le cose lì. Scandali nazionali non sono perseguiti.E se leggete un po’ di storia della Magistratura, come i lavori fatti per il centenario dell’Unità d’Italia, vedrete come il potere politico ha pesantemente influito sulla indipendenza della Magistratura limitandola costantemente.
4) “Occorre avanzare una proposta dirompente sul modello del prosecutor americano. Se ci si deve arrivare gradualmente tramite la separazione delle carriere, benvenga questo primo passo. Ma intanto attuazione del 106 Cost. Sul magistrato elettivo”. È una cultura diversa. Il giudice politico e il procuratore politico, entrambi elettivi, sono oggetto di un’ampia pubblicistica americana raccolta in numerosi film. Entrambi fanno campagna elettorale, promettono ai potenziali elettori che colpiranno questo o quel comportamento illecito. E non ci vuole molta fantasia per ritenere che omettano anche di dire. Immaginate in una realtà italiana ad indice elevato di presenza della criminalità organizzata: per essere eletti bisognerà promettere che in quegli ambienti non si indagherà. O si farà solo finta di indagare.
Benedetta ingenuità!
Senza ipocrisie la polemica verso i Pubblici Ministeri ha varie origini, dalla politica innanzitutto che non vuole essere controllata. Ricordo in un dibattito un sindaco dire: “io sono eletto dal popolo ed al popolo rispondo”. Gli fu fatto osservare che risponde ai suoi elettori per i profili di natura politica, del tipo ha costruito una palestra invece di un asilo, ma se ha violato la legge o ha costruito quella palestra a prezzo doppio rispetto al dovuto dovrà rispondere ad un giudice, per iniziativa di un P.M., penale o contabile.
C’è, poi, tutta una schiera di amanti dei telefilm alla Perry Mason e di avvocati sfigati che vedono il P.M. come il fumo negli occhi. Tuttavia, molte critiche sulla sovraesposizione dei P.M. hanno un fondamento. La soluzione? È semplice. Forse non serve neppure una legge ma una regola che il Consiglio Superiore della Magistratura può darsi senza sconvolgere il sistema: prevedere che l’esercizio dell’azione penale, per la delicatezza del ruolo e per l’invasività che comporta sulle persone inquisite debba essere riservata a magistrati che abbiano una esperienza ed una professionalità adeguata. Quindi mi sembrerebbe logico che l’assegnazione agli uffici del Pubblico Ministero, cioè alle Procure della Repubblica, sia riservata a coloro i quali abbiano esercitato funzioni giudicanti per un tempo congruo che abbia loro fatto percepire il senso della terzietà e dell’indipendenza propri della funzione giudicante. Proporre riforme le quali sconvolgono completamente un sistema che ha tanti aspetti positivi e che viene gestito dalla maggioranza dei magistrati con correttezza e con grande scrupolo significa, come insegna l’esperienza, proporre al dibattito le condizioni per non risolvere problemi o per risolverli nel peggiore dei modi.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: https://www.unsognoitaliano.eu/2020/05/29/per-michele-vietti-ex-vicepresidente-del-consiglio-superiore-della-magistratura-mattarella-potrebbe-sciogliere-lorgano-di-autogoverno-dei-giudici/)Dunque, il Presidente della Repubblica potrebbe sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura. Lo ha sostenuto Michele Vietti, avvocato, politico di area centrista, che del C.S.M. è stato Vicepresidente dal 2010 al 2014. In una intervista concessa a Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, Vietti preliminarmente ha inquadrato il tema magistratura a tutto tondo osservando come “da anni la politica della non responsabilità fa di tutto per offrire alla magistratura più poteri di quelli di cui ha bisogno e per invocare l’intervento della magistratura su ogni aspetto dello scibile umano. Prima di chiedere alla magistratura di non sentirsi onnipotente – aggiunge Vietti – bisognerebbe chiedersi cosa ha fatto la politica in questi anni per non far sentire onnipotente la magistratura”.
E quanto al malfunzionamento del Consiglio Superiore è categorico. “Io capisco – dice – che oggi ci si chieda se sia il caso oppure no di sciogliere un CSM che fatica a funzionare. È una decisione che spetta al capo dello stato, ovviamente, ma è una decisione che non rientra nel perimetro delle ipotesi impossibili perché il funzionamento di questo organo viene compromesso non solo quando non funziona più ma anche quando funziona male. E onestamente si fa un po’ di fatica nel dire che il CSM in queste condizioni funzioni bene, così come si fa fatica a riconoscere che la politica sia particolarmente interessata a farlo funzionare meglio: conosciamo i problemi del CSM da anni e da almeno dieci mesi sono su tutti i giornali. E negli ultimi dieci mesi la politica non ha fatto nulla per sanare alcune delle ferite che si sono aperte”.
Ma non finisce qui. Con il consueto buon senso del politico di lungo corso, Michele Vietti ricorda come “un CSM ostaggio delle correnti è evidente che non può funzionare ma non può funzionare per ragioni assolute e non per ragioni legate a singoli episodi. Lo dico nel modo più semplice possibile. Riportare le correnti al loro ruolo fisiologico – al loro essere luoghi di elaborazione e di confronto di idee anche contrapposte – significa ricordarsi che la camera di compensazione delle correnti è l’Anm e non il Csm. Il Csm non è, come finge di non ricordare qualcuno, l’organo di autogoverno della magistratura, ma è ‘organo di governo autonomo all’interno del quale devono convivere anche anime diverse da quelle togate. Oggi ho l’impressione che le correnti abbiano perso il loro ruolo di dialettica ideale e abbiano assunto una logica di potere. E il ragionamento che ne consegue è: farò carriera non se sarò più bravo ma se sarò più garantito dalla mia corrente”. E, questo, ovviamente, aggiungiamo noi, non è nell’interesse di un corpo di magistrati che nella sua stragrande maggioranza è costituito da professionisti fedeli al dettato costituzionale il quale impone che i giudici siano “soggetti soltanto alla legge” (art. 101). Come, del resto, i cittadini desiderano che siano i loro giudici. Perché sia assicurata quella “certezza del diritto” che è garanzia per tutti, indipendentemente dalle idee politiche e dalla bravura dell’avvocato che ne tutela le ragioni.