Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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E’ COME LA PRIMA GUERRA MONDIALE E PUO’ PROVOCARE LA TERZA
di Giuseppe Basini
Non siamo nel settembre del 1939, come in troppi pericolosamente proclamano, abbiamo certo differenze ideologiche, anche profonde, ma niente di realmente paragonabile (a parte alcuni stati feudali o teocratici non però protagonisti) alle concezioni dogmatiche inconciliabili esistenti all’alba del secondo conflitto mondiale. E se anche ci sono, nelle grandi nazioni, protagonisti politici probabilmente capaci di delitti di stato, non ci sono tuttavia, com’era allora, dirigenze che comunemente pratichino stragi interne su basi di massa anche in tempo di pace. Però potrebbero risorgere, come già visto nella storia. Nel Luglio del 1914, invece, vi era un mondo multipolare senza chiare egemonie, con differenze certo tra le potenze, che andavano dalla democrazie borghesi, all’autoritarismo temperato, ma vi era un equilibrio di fondo, anche di valori, basato sulla tradizione diplomatica di classi dirigenti non improvvisate, che certo cercavano di accrescere la propria potenza economica e militare, ma mantenendo dei rapporti, se non di rispetto, almeno di rispettabilità. La prima grande guerra, rompendo quell’equilibrio di consuetudini, di rapporti commerciali, di cultura (e perfino di parentele dinastiche tra le case regnanti), che permeava la grande civiltà europea, competitiva certo, ma anche convintamente persuasa di partecipare a una comune civilizzazione, aprì la strada, col rapido e inevitabile indurirsi degli scontri, al risorgere della barbarie. Fu una guerra nata quasi per caso, per incidente, per l’accumulo di tensioni che la corsa agli armamenti, praticata per voglia di primeggiare, paura degli altri e perfino pura vanagloria, aveva innescato col suo carico di sospetti reciproci. Fu una guerra stupida, forse la più stupida della storia, tra paesi simili che non avevano alcun interesse a farla e che infatti uscirono –tutti- indeboliti, cominciando a perdere la loro influenza nel mondo fino alla progressiva scomparsa dei loro imperi e del primato della loro civilizzazione. Una guerra stupida, che divenne immensamente crudele e fu una guerra provocata soprattutto dalle parole. Sì, le parole, spesso pronunciate senza troppo pensare, ma che poi ci inchiodano, specie se pronunciate dai leader verso le loro pubbliche opinioni. I proclami sempre più incendiari delle cancellerie, il tintinnio di sciabole, le orazioni gonfie di iperboli degli intellettuali impegnati, la rimozione di tutte le ragioni degli altri, ci spinsero sempre di più sul piano inclinato della guerra, creando un’enorme ondata psicologica alla quale diventava impossibile resistere senza farsi travolgere, senza figurare vili o traditori. Arnold Toynbee, ammoniva che il dramma della storia “ è che quasi sempre le ragioni sono da entrambe le parti”, ma noi troppo spesso attiviamo una sorta di filtro mentale che lascia passare verso la nostra coscienza vigile solo le riflessioni e le informazioni che vogliamo ascoltare. E’ così si arrivò rapidamente alla deformazione degli avversari, alla loro identificazione coi mostri, i Tedeschi (il cui Kaiser solo un mese prima era “Il caro cugino” del Re d’Inghilterra) diventarono i “sales boches” che uccidevano i bambini (per noi, l’anno dopo, gli Unni), mentre i giornali di Vienna cominciarono a chiamare l’Italia “la perfida nemica del sud”, definendo colpevoli tutti e soli gli altri dei più abominevoli massacri, ai quali era naturalmente assoluto dovere morale opporsi. E così i massacri arrivarono davvero, dall’una e dall’altra parte e dal crollo di civiltà, cultura, buon senso e voglia di vivere, sorsero, alimentati da un terribile rancore, il comunismo e il nazismo. Perché ricordo questo oggi ? Perché rischiamo di far diventare il mondo accettabile del 1914 di nuovo quello inaccettabile del 1939, ma con in più un’aggravante assoluta, quella di vivere in un mondo con bombe termonucleari. Putin è un autocrate, ma non è Stalin, gli oppositori che manifestano in piazza a Mosca e che vengono arrestati e identificati (e che ricordano gli studenti americani ai tempi del Vietnam) all’epoca dell’Unione Sovietica sarebbero scomparsi subito perché fucilati sul posto, mentre certi resoconti che mostravano donne ucraine, che affrontavano con le parole i carri e i soldati degli occupanti, non mi hanno colpito solo per il loro coraggio e determinazione, ma anche perché alcuni soldati all’inizio cercavano di non sparare. Putin non è Stalin, ma finirà per diventarlo se continua così, le bombe russe stanno diventando di giorno in giorno meno selettive e, come sempre, la guerra, da troppi alimentata, un terribile carnaio, mentre in occidente il livello di eccitazione è ormai preoccupante. L’Ucraina non è, per molti Russi, come l’Ungheria, una nazione diversa e indipendente da loro criminalmente occupata, ma un pezzo vivo di Russia (lo stesso termine di “Rus”, nasce a Kiev, che anzi fu la prima capitale di tutte le Russie) a loro sottratto da noi occidentali con la falsa promessa di un benessere europeo. E se oggi, per i terribili errori da Mosca commessi, gli ucraini sono diventati in maggioranza anti russi, anche laddove non lo erano (lo erano già nella parte occidentale abitata anche da Ruteni e Polacchi, annessa dopo la spartizione della Polonia con Hitler) anche noi occidentali (soprattutto Americani) non possiamo essere orgogliosi dei sanguinosi moti di piazza che fecero cadere il governo Yanukovich, incapace ma regolarmente eletto. Oggi tutti siamo colpiti dall’immagine di una popolazione più piccola e meno armata che si difende e la memoria corre inevitabilmente all’Ungheria del 1956, ma non è affatto uguale, anche se rischia di diventarlo. La Russia di oggi era un paese profondamente inserito nel commercio internazionale, si era trasformata in un paese ancora autoritario, ma non più totalitario, aveva ripudiato il comunismo e i suoi cittadini cominciavano a viaggiare, mentre i suoi uomini d’affari stringevano accordi in tutto il mondo. Guardava all’occidente la Russia e, paese in fondo di cultura europea e cristiana, si aspettava di entrarne a far parte a pieno titolo, convinta che gli anglosassoni, che da sempre hanno organizzato coalizioni contro l’avversario più forte, che oggi è la Cina, l’avrebbero ammessa. Era questo anche il disegno di Donald Trump, che aveva compreso come la tradizionale visione eurocentrica di De Gaulle non fosse necessariamente negativa per un’America desiderosa di concentrarsi su di sé e sul confronto con la Cina. Ma oggi, se non si ferma subito la guerra tenendo realmente conto anche della Russia, stiamo marciando verso un disastro, che sarà non solo umanitario, ma anche civile ed economico e che ci sarà comunque, mentre (ed è quello che temo di più) non ne conosciamo ancora le dimensioni. I Russi devono certo smetterla di pensare al passato e rendersi conto che, se pure una volta non era così, oggi gli Ucraini in maggioranza non li vogliono e che con la violenza non li piegheranno, anzi li faranno diventare più convinti di essere un popolo diverso da loro, gli Ucraini a loro volta considerino che non vi è solo una vicinanza dell’occidente, ma anche la volontà di una parte di esso di indebolire la Russia, che la parte di russofoni che si sentono legati alla Russia, non può essere semplicemente tacciata di tradimento e infine che l’eroismo non può sostituire la ragione. Ma noi occidentali dobbiamo renderci conto che spingere la Russia in braccio alla Cina è una follia che pagheremo per decenni, che la sottrazione dei beni della banca centrale russa è contro la credibilità delle regole del mercato, che l’esclusione dallo Swift darà forza al sistema alternativo cinese, che le sanzioni creeranno una divisione perché saranno un disastro solo per gli europei e non per gli americani, che l’ostracismo totale ai russi è pagato con sangue ucraino. Ma soprattutto tutti, proprio tutti, non possiamo dimenticare che viviamo in epoca nucleare e che è vero e proprio cinismo quello dei buonisti professionali, che si riempiono la bocca di frasi toccanti sulla democrazia, le vittime innocenti, la guerra giusta, creando di nuovo un’ondata psicologica, senza tenere le bombe atomiche in conto, senza vedere che il rifiuto di compromessi o prolunga un conflitto pagato duramente dagli ucraini o fa rischiare a tutti, in occidente e in oriente, l’Apocalisse (ma quella vera, Hiroshima, non quella degli ecologisti). La mancanza di leadership della presidenza Biden, che, a differenza dell’amministrazione repubblicana, ha ignorato i canali di comunicazione con la Russia, lasciando che i militari trattassero la politica come un risiko, ci ha portato in una situazione che sarà comunque un disastro, sicuramente per gli ucraini, probabilmente per i Russi, forse per tutti. Soprattutto se noi europei non sapremo unirci. La storica domanda, eticamente giusta, se si possa tollerare un’aggressione militare per riparare torti veri o presunti, che segna certo uno spartiacque tra violenza e diritto, oggi non può però avere la stessa risposta del passato. Oggi Chamberlain avrebbe ragione.
Gli errori dell’Occidente con la Russia dopo il 1992 e l’assenza di una visione razionale: una lezione per il futuro
di Davide Simone
Il 4 giugno del 1990, Michail Gorbačëv pronunciò un memorabile discorso davanti agli studenti e ai professori della Stanford University. Nell’intervento, l’allora primo ministro sovietico dichiarò conclusa la Guerra Fredda*, aggiungendo: “E non mettiamoci a discutere su chi l’abbia vinta”. Non erano casuali, quelle parole, né lo era il loro utilizzo; Gorbačëv voleva infatti mettere in guarda gli americani dalla pericolosa seduzione di una “wishful thinking” , ovvero considerare vinto il cinquantennale confronto e messo all’angolo l’ex avversario. Un avvertimento caduto nel vuoto, quello del padre della “perestrojka”, dal momento in cui gli USA e i loro alleati scelsero (a cominciare dal 1992 e principalmente con Bill Clinton e George Bush jr) una politica sempre più unilateralista e di “potenza” di stampo ottocentesco, abbandonando i principi dell’ “equal footing” e del “predictability” che avevano regolato i rapporti con Mosca dal 1942** e cercando così la marginalizzazione (e, de facto, l’umiliazione) del gigante dell’Est. L’allargamento della NATO ai paesi dell’ex Patto di Varsavia (percepito dai russi come una grave minaccia alla loro sicurezza nazionale) nonostante le promesse e l’intervento privo del placet ONU in Serbia, nonché quello in Iraq sulla base di motivazioni rivelatesi artificiose, sono il risultato di questo nuovo “concept” atlantico, diverso dal “new democratic order” di impronta rooseveltiana e dal “new thinking” liberale ed inclusivo tra Gorbačëv e il primo dei Bush. Da qui, l’inevitabile ritorno ad un clima di sospetto e paura nei confronti di Washington da parte dei russi ed alle antiche pulsioni revansciste e scioviniste, su cui la disastrosa congiuntura economico-sociale pre-putiniana ha giocato un ruolo propulsivo di importanza fondamentale. Leggendo le considerazioni sull’argomento di Dinesh Joseph D’Souza, ex consulente per la comunicazione di Ronald Reagan e convinto repubblicano, potremo notare e verificare la totale mancanza di realismo di una fetta del movimento d’opinione statunitense (e occidentale) e delle istituzioni del Paese sui rapporti con la Russia e su quella fase storica:” Per la terza volta nel XX secolo, gli USA hanno combattuto e vinto una guerra mondiale. Nella Guerra Fredda, Reagan è stato il nostro Churchill: è stata la sua visione e la sua leadership a condurci alla vittoria”. Il presuntuoso manifesto di una vera e propria “pax americana”, dunque, un’illusione tanto anacronistica quanto pericolosa, destinata a riesumare i fantasmi dei Versailles. Anche, e lo si è accennato, le politiche predatorie portate avanti ai danni della Russia da Attori statuali e non-statuali dopo il crollo del comunismo rientrano nel calderone di questi errori, gravi, di cui oggi paghiamo le conseguenze. La fragile Russia post-comunista andava, insomma e per concludere, aiutata e seguita, più e meglio, non trattata come un partner minore o un mercatino dell’usato. L’auspicio è che dopo quest’ultima crisi l’Occidente sviluppi una nuova linea di approccio verso il grande vicino, indipendentemente da chi ne sarà alla guida e indipendentemente dalle valutazioni contingenti sulla disputa ucraina. E’ nell’interesse di tutti.
*la conclusione della Guerra Fredda fu sancita ufficialmente da Boris El’cin e George H. W. Bush nel febbraio del 1992
**i primi contatti tra USA, Regno Unito ed URSS sulla sistemazione post-bellica si ebbero agli inizi del 1942
Ucraina – Perché l’ANPI quella mattina non si è alzato
Se il dialogo e la diplomazia sono e devono rimanere gli strumenti più importanti per risolvere la crisi ucraino-russa ed evitare imprevedibili escalation, l’invio di armi (leggere e difensive) a Kiev è tuttavia una scelta fondamentale e irrinunciabile, sul piano morale come sul piano strategico (indebolire la posizione di Putin a livello negoziale e creare una resistenza che lo scoraggi dal compiere altre aggressioni in futuro). Ci sono quindi tre ipotesi che possono spiegare l’approccio dell”ANPI: 1) l’associazione ha virato su un pacifismo utopistico, in contrasto con la propria natura ontologica (è un’organizzazione fondata da partigiani combattenti) e la propria storia (più volte ANPI ha sostenuto e appoggiato la resistenza armata dei popoli contro gli invasori esterni e gli oppressori interni) 2) l’associazione è ossificata al vecchio pregiudizio anti-atlantico novecentesco e ad un’immagine novecentesca della Russia (i passaggi sulla condanna dell’espansionismo, comunque discusso e discutibile, della NATO ad Est, potrebbero confermare quest’ultima ipotesi) 3)l’associazione condivide il pregiudizio, diffusissimo tra una certa sinistra, dell’Ucraina post-Maidan come Paese sostanzialmente “fascista” (nei suoi comunicati sono stati fatti riferimenti anche al Battaglione Azov, a Svoboda e al Fronte Destro)
E se ad invadere fossero stati gli USA?
Nota: Putin non ha allertato le forze nucleari, come invece sostenuto dal Presidente nazionale ANPI
Putin è davvero “pazzo”?
La “Teoria del Pazzo” (Madman Theory) fu una dottrina concepita da Richard M.Nixon in base alla quale gli USA, prima potenza termonucleare e convenzionale, avrebbero dovuto dare l’idea di potersi lasciare andare a gesti dalle conseguenze apocalittiche, imprevisti ed imprevedibili per e da una democrazia occidentale. In buona sostanza, pur non sotto un pericolo diretto, Washington non escludeva l’ipotesi di un ricorso “preventivo” all’opzione nucleare contro i suoi nemici ed avversari.
Ideata per esercitare pressioni negoziali su Hà Nội ai tempi della guerra del Vietnam (l’utilizzo di ordigni nucleari “tattici” sembrò più volte sul tavolo), si pone come un’ integrazione ed una maturazione della teoria della dissuasione, rivolta in prevalenza contro quei soggetti ed Attori (statuali e non statuali) non controllabili o difficilmente controllabili.
Una forma di “propaganda”, quindi e all’atto pratico, che stavolta sembra aver fatto propria Vladimir Putin nella vicenda ucraina. Il ricorso alla minaccia nucleare (a dire il vero una costante nella storia sovietico-russa dal 1949 ad oggi) e l’affermazione secondo cui sarebbero “pronti a tutto” (appunto come le menti instabili e fragili) stanno non a caso inducendo molti a pensare che il leader del Kremlino sia un folle, un uomo fuori controllo e pertanto pericolosissimo e capace di qualsiasi cosa. E’ tuttavia assai improbabile che uno Stato complesso e articolato come quello russo, in gran parte erede di quello sovietico nei suoi meccanismi di funzionamento, consenta il comando ad un soggetto non più padrone di sé stesso. Un’idea più vicina alla suggestione che alla razionalità pragmatica.
Cosa c’è dietro la retorica apocalittica di Putin e perché non è una novità
“Il ruggito atomico di Elstin”; “Missili russi puntati sull’Europa”; così titolarono i principali quotidiani italiani, e non solo italiani, nei primi giorni della campagna NATO in Kosovo. Come sappiamo, al di là delle minacce non ci fu nessuna iniziativa frontale della Russia, sebbene non mancarono alcuni momenti di tensione (ad esempio l’incidente di Pristina e il dietrofront aereo del ministro degli Esteri russo Evgenij Primakov mentre era in viaggio diplomatico verso gli Stati Uniti).
Una certa retorica apocalitico-millenaristica non è nata con Putin (“conseguenze mai viste per chi dovesse interferire in Ucraina”, “siamo pronti a tutto”, “conseguenze militari se Svezia e Finlandia entreranno nella NATO”, gli annunci sull’allerta nucleare*, ecc) ma è una costate di Mosca, anche dopo il 1992 e anche ai tempi di Medvedev. Una scelta comunicativa che di fatto tradisce debolezza ma che non può avere nessuno sbocco concreto e pratico (Putin sa di non poter attaccare un membro NATO, per questo ha mosso adesso la sua guerra ibrida a Kiev).
Sempre restando alla comunicazione e alla sfera politica, con la sua mossa Putin ha allontanato giocoforza anche quegli alleati esterni prima irriducibilmente dalla sua parte, ovvero certe destre fulminate sulla via di Mosca (pure grazie a lauti finanziamenti) dopo un settantennio di atlantismo e americanismo fanatico e quelle sinistre radicali ancora legate al mito sovietico che fino a ieri bollavano come “nazisti” e “fascisti” tutti i resistenti ucraini, sulla base di un must tipico delle scuole propagandistiche di impronta socialista. Un errore nell’errore, di nuovo.
L’URSS, è bene ricordarlo, non morì nel 1992, ma molto prima. Morì a Berlino Est, a Budapest e a Praga.
*L’arsenale nucleare russo è sempre in stato di allerta (come quello statunitense) e prevede tre chiavi di attivazione distinte e separate, una per il presidente, una per il ministro della Difesa e una per il capo di Stato maggiore. .A decidere non è solo il capo dello Stato
La “sindrome da accerchiamento”: un problema non solo russo
La “sindrome da accerchiamento”* tra i motivi dell’operazione in Ucraina non è una prerogativa, un vulnus, della sola mentalità russa. Anche nel mondo occidentale, a ben vedere, è presente, e per certi versi più forte e diffusa.
Raccontarsi come perennemente in declino, guardare ad ogni avanzamento dei BRICS come ad un insopportabile e pericolosissimo smacco ed una certa sopravvalutazione della Russia (in realtà surclassata su quasi ogni aspetto), lo dimostrano, e le nostre politiche proiettive (anche oltre il diritto internazionale) ne sono una conseguenza diretta.
Lo stesso allargamento della NATO ad Est, a dispetto delle rassicurazioni fornite nel 1990 a Gorbačëv, rientra in questa “sindrome da accerchiamento” occidentale, sebbene in questo caso sia/fosse in parte giustificata dalla storia russa e dalla presenza di aggressivi revanscismi pure nella Russia eltsiniana.
*Accusata da Mosca da Ovest come da Est. Si tratta di un retaggio delle invasioni e degli attacchi portati dagli Svedesi, dai Cavalieri Teutonici e dai Lituani, prima, e dai Polacchi, dai Francesi e dai Tedeschi poi (ad Ovest) e dai Mongoli e dai Tartari, prima, e dai Cinesi poi (ad Est).
Comunicato stampa di giovedì 24 febbraio 2022
Ucraina: appello dei monarchici italiani – prevalga il buon senso
L’aggressione militare russa all’Ucraina costituisce un evento di straordinaria gravità, che dimostra la fragilità dei rapporti internazionali, in presenza di governi autoritari, non rispettosi dei diritti degli stati e delle persone.
L’Unione Monarchica Italiana fa appello ai governanti dei paesi coinvolti nel conflitto perché prevalga il buon senso, si passi dalle armi della guerra a quelle della diplomazia e si ristabiliscano rapporti internazionali nel reciproco rispetto dei diritti.
I monarchici italiani auspicano un immediato “cessate il fuoco” e il ritorno a condizioni capaci di assicurare ai popoli pace e prosperità.
Roma, 24 febbraio 2022
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi