Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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Le mele marce sono sempre di più. Inadeguato il reclutamento all’ingresso e nella catena di comando
di Salvatore Sfrecola
Le mele marce ci sono sempre state, dappertutto. Generali che hanno passato informazioni al nemico, funzionari del fisco e magistrati corrotti, agenti delle Forze dell’ordine infedeli, docenti delle scuole di ogni ordine e grado che hanno dato scandalo. E tutte le volte ci siamo indignati, come nel caso degli eventi delittuosi che si sente dire sarebbero avvenuti nella Caserma dei Carabinieri di Piacenza, dopo esserci stupiti che sia stato possibile. Continuiamo ad indignarci sempre più spesso e questo vuol dire che i casi sono aumentati. Che, in primo luogo, si è eclissato il senso dello Stato, la fedeltà alle istituzioni, il rispetto della legge per il pubblico dipendente che la Costituzione ricorda essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98) e deve adempiere le funzioni pubbliche che gli sono affidate “con disciplina ed onore” (art. 54). A monte c’è evidentemente un problema di adeguatezza dei soggetti inseriti nella catena di comando perché, secondo il detto popolare, antico ed efficace, “il pesce puzza dalla testa”. C’è un problema di reclutamento all’ingresso e nella progressione nelle funzioni. Che non è più orientato ad una rigida selezione professionale e morale dei pubblici dipendenti. Un tempo, oltre a prove scritte ed orali capaci di verificare la conoscenza delle materie professionali, c’era anche la “buona condotta”, un requisito che si basava sull’assenza di precedenti penali che, pur non dando luogo alla cancellazione dalle liste elettorali, quindi alla perdita del godimento dei diritti politici, potevano assumere rilevanza sul piano della condotta morale e civile del cittadino. La legge 29 ottobre 1984, n. 732, ha eliminato il requisito dallo Statuto degli impiegati civili dello Stato. Diminuite le prove selettive, disarticolato il sistema organizzativo con il ripetuto passaggio generalizzato alle qualifiche o ai livelli superiori, in conseguenza di una regola folle, tutta italiana, secondo la quale il trattamento economico cresce in modo significativo solamente se si è promossi ad una qualifica o ad un livello superiori, era inevitabile che avremmo assistito al progressivo sfascio delle strutture pubbliche. L’italica fantasia, con la complicità dei sindacati legati ai partiti politici, ha inventato ogni possibile trasformazione dei ruoli e delle funzioni. Non ci sono più da tempo il gruppo A, B e C, che distinguevano le carriere direttive, di concetto ed esecutive, non le qualifiche corrispondenti a strutture amministrative, la sezione con il Capo Sezione, la Divisione con il Capo divisione. Qualcuno avrà visto un famoso film, Monsù Travet, con Carlo Campanini che impersona un modesto impiegato ansioso di corrispondere alle disposizioni di un Capo Sezione sempre incombente. Una volta si cita il Commendatore, il Capo Divisione, mai il direttore generale. Oggi i direttori generali sono centinaia, spesso preposti a micro strutture, anche solamente di una decina di persone. Chi ricorda che il direttore generale era nel cosiddetto “ordinamento gerarchico” il grado quarto della Pubblica Amministrazione, che nelle Forze Armate corrispondeva a Generale di divisione. L’avete mai visto un generale a due stelle comandare una divisione di dieci soldati? Del resto la Provincia di Roma aveva un Generale di brigata alla guida della Polizia Provinciale, un centinaio di elementi, la consistenza di una compagnia. Roba da tenente o, al più, da capitano.
Ancora un esempio. Alcuni giorni fa, essendomi recato in un ufficio della Polizia Municipale di Roma in portineria mi ha accolto un agente molto gentile che sulla spallina recava due stelle. Un tempo erano le insegne di un tenente. Ancora. Quando si veniva fermati da una pattuglia dei Carabinieri la comandava un vice brigadiere o un brigadiere. Oggi la medesima pattuglia è formata da due o tre marescialli, un grado importantissimo nella struttura di comando, alla guida di una Stazione, il presidio territoriale dell’Arma. Ancora, non me ne vogliano gli amici generali, ma tutti questi Generali di Corpo d’Armata quando non ci sono Corpi d’Armata che ci stanno a fare, che senso hanno, se non per arricchire un biglietto da visita.
Come mai nei film polizieschi in America la polizia delle grandi città è comandata da un tenente o da un capitano? Il Tenente Colombo è passato alla storia del cinema.
Sviliti i gradi, sono risultate svilite le relative funzioni. Un disastro, insieme ai passaggi di livello senza vere selezioni, per finire con l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 165 del 2001 un “dirigentificio” di amici dei politici. Persone che non hanno mai vinto un concorso, anzi che non hanno mai pensato di farlo, si trovano dirigenti per essere stati al seguito del politico di turno. Con l’effetto di mortificare i funzionari di carriera nelle loro legittime aspirazioni. Altro si potrebbe dire. Ad esempio che i Carabinieri un tempo reclutavano direttamente i loro allievi e li formavano rigidamente. Oggi li prendono dall’esercito essendo diversamente addestrati e se sono fuorviati, quanto a senso dello Stato e dell’onore, non c’è più possibilità di addrizzarli. Mi fermo qui. Disgustato. Le mele marce sono davvero troppe.
L'opinione di Giuseppe Borgioli
QUANDO LA CASA BRUCIA
di Giuseppe Borgioli
I fondi messi a disposizione dall’ Unione Europea si prenderanno la consistenza di moneta sonante in tempi che non è dato prevedere. Per ora resta l’ammontare del debito che lasciamo come onerosa eredità ai nostri figli e nipoti. Oh, lo sappiamo anche noi poveri provinciali che il debito si vende…… sino a che si trova da venderlo altrimenti non resta che trovare l’acquirente, questa volta non cinematografico, della fontana di Trevi. Non è difficile l’esercizio della Cassandra in una situazione così disastrata. Le finanze pubbliche servono solo per escogitare voci di debito atte a sanare temporaneamente gli interessi sul debito. Marco Minghetti e Quintino Sella inorridirebbero. L’Unita d’Italia è stata falla su ben altre basi e in tutti decenni successivi la linea del Piave della buona finanza è stata osservato scrupolosamente. Anche all’indomani della seconda guerra mondiale, le finanze italiane seppero stare al passo con le necessità insorte. Come è accaduto improvvisamente che prendesse piede questa ubriacatura della spesa facile e del debito insolvente per definizione è un mistero che anch’io non riesco a spiegarmi. Illustri accademici, premi Nobel, e si parva licet i nostri esperti di economia che non volevano passare da provinciali si sono prodigati nel giustificare la moltiplicazione del debito con la illusione come nella commedia dell’arte che qualcuno pagherà. Oggi la situazione è così degenerata che nessuno ha il buon gusto di parlare del debito in società. Tutti fanno a gara, destra e sinistra, nel promettere e accennano al debito solo per dire come spenderlo. Conosco anch’io, perché le ho studiate, le teorie di Keynes e non faccio uno sforzo per capire le buone intenzioni dell’economista inglese cha infine ebbe ad affermare “perché non sono Keynesiano”. Spendere è più facile che risparmiare. Lo sanno bene i politici di mestiere che non pronunciano volentieri il monosillabo “no”. Sergio Ricossa aveva scritto in tempi non sospetti un divertente libretto dedicato principalmente alle nuove teorie economiche e monetarie: “I fuochisti della vaporiera”, poiché se la locomotiva del debito pubblico ha progredito a ritmi impensabili vuol dire che c’è stato chi non ha fatto mancare il combustibile. Negli ultimi 40 anni non mi risulta che ci sia stato governo o ministro delle finanze che sia andato in contro tendenza. Tutti, destra e sinistra, spendaccioni? Quale diabolico spiritello si è impossessato delle nostre menti e dei nostri stili di vita? Siamo stati frugali anche noi, per la verità siamo stati poveri. Forse proprio la nostra antica povertà ci ha portati al consumismo dei nostri tempi, al possedere come febbre collettiva. Ma le cose stanno prendendo una brutta piega e a nulla valgono le trovate furbesche. Mi ha molto colpito una intervista di un programma di storia alla Regina Maria Josè andato in onda la scorsa settimana. Alla domanda di un anonimo intervistatore come Sua Maestà avesse trovato la forza di fare quello che fece in un momento di vera emergenza, la Regina ha sussurrato con un fil di voce: “Quando la casa brucia…”
Addio, Pietro
L’Unione Monarchica Italiana china il Tricolore del Regno d’Italia per la scomparsa dell’’Avv. Pietro Luca di Windegg, conte, storico esponente monarchico, Membro del Consiglio dei Probiviri dell’Unione Monarchica Italiana, Membro della Consulta dei Senatori del Regno, stringendosi con affetto alla famiglia.
Conte Avv. Pietro Luca di Windegg
RADIO LONDRA – NOTIZIE DAL MONDO LIBERO
di Gaspare Battistuzzo Cremonini
La civiltà del duello
Nei mesi scorsi abbiamo assistito alla nascita di una nuova campagna denominata Odiare ti costa e volta, secondo i suoi organizzatori (tutti, pressappoco, riconducibili alla galassia del mondo liberal), a colpire gli ‘odiatori seriali’ o i ‘leoni da tastiera’, secondo le nuove denominazioni in uso: insomma coloro che scatenerebbero la loro ira trincerandosi dietro ad un computer o all’anonimato dei social.
Questa campagna, per quanto motivata dalle migliori intenzioni, disvela in modo plateale uno dei gravi problemi identitari che caratterizzano le comunità del capitale postmoderno: il passaggio dalla società dei soldati eroi a quella dei banchieri avvocati. ‘Con l’eliminazione del diritto del più forte si è introdotto il diritto del più furbo’, diceva Schopenhauer, e vien da credergli, magari semplicemente sostituendo a quel ‘più furbo’ un ‘più ricco’ (che poi in fondo spesso è la medesima cosa).
La frase del filosofo tedesco ci dice però che non è sempre stato così. Non si ricorreva sempre a tribunali, avvocati e denaro sonante per risolvere le contese che animavano le vite dei nostri avi, a torto troppo spesso considerate monotone.
E’ il 20 luglio del 1950 e il giovane Oscar Luigi Scalfaro, già in odore di buona carriera democristiana anche se non ancora di santità presidenziale, sta pranzando con amici nel ristorante romano ‘Da Chiarina’. Di colpo si alza e si dirige verso una signora che mostra le spalle nude (si è tolta un prendisole) e ne nasce un alterco tra lei e lui, col futuro Presidente che la rimprovera – secondo le ricostruzioni, - per la dubbia moralità mostrata nel porgere le spalle nude ai commensali.
Scalfaro cade male perché la signora è moglie di militare e figlia di alto ufficiale: il politico democristiano riceve un cartello di sfida a duello da entrambi nonché, infine, dalla stessa donna, valente schermitrice. Il futuro Presidente declina i cartelli di sfida (ma senza scusarsi, come avrebbe voluto il Codice) asserendo che la sua morale cristiana gli impedisce di accettare un duello: persino Totò però lo rimprovera, con una lettera aperta ad un giornale, pagando poi, si dice, l’ira dello Scalfaro quando questi diviene capo della Commissione Censura Cinematografica.
Lo ‘scandalo del prendisole’ tenne banco sui giornali ed in Parlamento per settimane, con i cattolici che difendevano l’operato di Scalfaro e i laici, di destra soprattutto ma anche di sinistra, che lo censuravano per via dello scarso coraggio dimostrato e lo tacciavano di fellonia. La vicenda infine si concluse, più o meno, con una vertenza legale e non se ne seppe più nulla.
Certo Scalfaro rappresenta benissimo il già citato passaggio dalla società epico-eroica alla società borghese-prosastica, dove nulla si vuol rischiare ed in cui più volentieri si paga il riscatto dell’onore col denaro piuttosto che con la vita.
Eppure di duelli famosi ce ne furono, letterari e non, italiani e non. Quello letterario più famoso, tralasciando magari la Disfida di Barletta immortalata nell’ Ettore Fieramosca del D’Azeglio, resta sicuramente quello tragico dell’Onegin di Puŝkin. Di quelli invece reali, val la pena ricordarne uno in cui noi italiani facemmo bella figura: avvenne il 15 agosto 1897, nei pressi di Versailles, e vide vincitore Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta, il Conte di Torino, cugino del Re d’Italia, sul principe Henri d’Orléans, reo d’aver infamato la reputazione dei soldati italiani, reduci dalla disfatta di Adua, sulle colonne del Figaro.
Duelli ne fecero Benito Mussolini, Raimondo Lanza di Trabia, Felice Cavallotti, Giuseppe Ungaretti, Marcel Proust, Lev Tolstoj ma anche donne, come testimonia il celebre caso della contessa di Polignac e della marchesa di Nesle, che si contendevano i favori d’un aristocratico amante.
Pensiamo soltanto a quante volte, anche in televisione o sui giornali, sentiamo politici o personaggi noti in genere che si lanciano offese le peggiori, come fossero acqua fresca, come si giocasse ‘a chi la spara più grossa’ e nulla avesse davvero valore; poi, appena conclusa la trasmissione, tutti a telefonare al proprio avvocato per intentare le solite cause per diffamazione delegando la difesa del proprio onore a qualche burocrate con carte bollate e tasse di registro.
Quanto sarebbe più utile far risorgere il duello d’onore! Non già per far spargere più sangue ma, al contrario, per insegnare alle persone a misurare le parole: se offendere ti potesse costare la vita o perlomeno una sonora ammaccatura, oltre che l’umiliazione d’aver perduto una tenzone, di certo chiunque starebbe assai attento prima di lanciarsi in affermazioni azzardate.
Del resto, per i più pavidi, il Codice del Duello ha sempre previsto la possibilità di scusarsi con educazione e di scampare la spada o la pistola.