Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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Il “danno erariale” quale alibi di un Governo incapace di semplificare
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu )
Alla ricerca di alibi all’inconcludenza conclamata dell’azione amministrativa del Governo, Giuseppe Conte ha sposato acriticamente la tesi di quanti ritengono che la lentezza della burocrazia sia effetto del “timore della firma”, che i funzionari avrebbero in ragione della possibile imputazione di danno erariale da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. E pertanto, con l’art. 21 del decreto-legge semplificazione, in corso di conversione, ha previsto l’eliminazione tout court della responsabilità per “colpa grave” in caso dall’attività del funzionario o dell’amministratore pubblico sia derivato un danno erariale, cioè un pregiudizio alla finanza o al patrimonio dello Stato o di un ente pubblico, territoriale o istituzionale. Il Governo con questa norma, che è augurabile il Parlamento non converta in legge, dimostra due cose gravissime: di non considerare che si parla di danno alla finanza o al patrimonio pubblico, cioè ad un bene pubblico, in sostanza di tutti, e che la “colpa grave”, intesa quale requisito soggettivo per l’imputabilità del danno, consiste in una straordinaria negligenza, imprudenza o imperizia, che i romani sintetizzavano in una espressione estremamente eloquente: “non comprendere ciò che tutti comprendono”. E siccome Giuseppe Conte è un giurista, anzi un civilista che sovente ha difeso dinanzi alle Sezioni giudicanti della Corte dei conti, sa bene che la colpa grave è fattispecie che non si può espungere dalla responsabilità, pena la riduzione a zero del risarcimento per danno che lo Stato deve pretendere dal dipendente che non faccia il suo dovere. Ma c’è un altro e, per certi versi, più rilevante aspetto. Il timore della firma che il Governo cerca di esorcizzare escludendo la responsabilità in caso di colpa grave è addebitabile allo stesso Governo e al Parlamento. È, infatti, evidente per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Pubblica Amministrazione che il timore di sbagliare, che frena l’azione dei pubblici dipendenti, è conseguenza della farraginosità delle norme, non di rado illeggibili e confuse, come dimostra la giurisprudenza del Giudice amministrativo, Tribunali Amministrativi Regionali e Consiglio di Stato, che censurano quotidianamente comportamenti delle pubbliche amministrazioni viziati da violazione di legge o da eccesso di potere, cioè da un grave sviamento nell’esercizio della funzione pubblica. È sempre colpa dei funzionari distratti o impreparati? Non di certo. Il pubblico dipendente si trova spesso ad applicare norme di difficile interpretazione che richiedono chiarimenti con circolari anch’esse non di rado inintelleggibili. Giuseppe Conte ed i suoi ministri guardino all’interno degli apparati, considerino le norme che i funzionari sono tenuti ad applicare e si renderanno conto che il timore della firma è indotto non già dal timore della Corte dei conti ma dalle norme che devono applicare e che il potere politico ha predisposto in relazione ai vari procedimenti. Se si vuole semplificare si deve agire sulle attribuzioni delle amministrazioni e sui procedimenti che devono essere chiari, capaci di realizzare in tempi brevi (il tempo è un costo per l’Amministrazione e per i privati) le aspettative dei cittadini e delle imprese. È così che decolla l’economia mortificata dal blocco totale delle attività in ogni settore e non supportata da misure idonee alla ripresa, altro che esorcizzazione del danno erariale. È solo un mezzo di distrazione della gente che non conosce le regole e offende i funzionari onesti e preparati i quali non desiderano essere considerati degli incapaci che hanno bisogno di una tutela illogica e ingiusta, a protezione dei disonesti e degli incapaci.
L'opinione di Giuseppe Borgioli
LE NICCHIE DEI SANTI
di Giuseppe Borgioli
Lo strapotere dei partiti, noto come partitocrazia, sta dilaniano la nostra vita pubblica. Non c’é settore di attività dalla pubblica amministrazione, alle professioni, all’economia, alla cultura che non sia preso di mira dai partiti che dettano le loro regole. Tutto ciò che è commestibile è soggetto alla pratica della spartizione senza nemmeno preoccuparsi dello scandalo. L’olfatto degli Italiani si è abituato ai miasmi della vita pubblica. Uno dei padri della Patria, Marco Minghetti, scrisse un libro profetico dedicato ai partiti nella pubblica amministrazione che dovrebbe essere riletto se fosse stato ripubblicato e in circolazione da qualche parte, cosa di cui dubitiamo. Uno degli appuntamenti con la politica è la riforma della legge elettorale. Non è la prima volta che la repubblica si dà nuove regole d’ogni volta abbiamo dovuto tirare la marcia indietro. Ora a scadenza ravvicinata abbiamo in agenda anche il referendum costituzionale per la riduzione dei parlamentari, che di per sé non è una gran riforma capace di far decollare il nostro destino politico. Ma i “cinque stelle” l’hanno pretesa e oggi è al veglio del giudizio popolare. Soffermiamoci sulla legge elettorale che dovrebbe costituire il cuore di un sistema parlamentare. Per farla breve i principi che sovraintendono alla materia sono due: ii principio proporzionale e il principio maggioritario: Il principio proporzionale garantisce la rappresentatività del corpo sociale e il principio maggioritario assicura a chi ha vinto le elezioni di governare. Rappresentanza e governabilità sono i binari su cui scorrono le istituzioni politiche. Ci sono altri accorgimenti per far funzionare al meglio le istituzioni. Sicuramente le disposizioni di sbarramenti elettorali o soglie al di sotto delle quali non si riconosce rappresentanza parlamentare ai partiti sono finalizzate a impedire la dispersione dei voti e la atomizzazione della politica. I partiti si accingono ad affrontare questa scadenza more solito , ciascuno tenendo di mira il suo tornaconto elettorale. Ogni partito vorrebbe fissare la soglia sotto la quantità dei voti attribuiti dai sondaggi. Ciascun partito guarda alla legge elettorale per penalizzare o bloccare l’avversario. Una riforma elettorale nasce in un clima politico e culturale particolare. Per fare una legge elettorale coraggiosa ed equa occorre un ubi consistam che si riassume nello spirito della nazione. Non resta che predisporci alle discussioni infinite come fu nelle varie edizioni della bicamerale Il sistema dei partiti è più rinvigorito che mai. Aveva ragione Giovan Battista Giorgini, uomo politico devoto a Casa Savoia e al liberalismo nonché nipote di Alessandro Manzoni, che esortava l’opinione pubblica a vigilare. Non lasciate le nicchie perché vi ritorneranno il santi.
Come la politica ha sfasciato l’amministrazione pubblica: la moltiplicazione dei dirigenti ed la mortificazione dei quadri
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
L’Amministrazione pubblica italiana ha costantemente meritato la “A” maiuscola. Nella fase di formazione dello Stato unitario e nella ricostruzione del Paese, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, ha dimostrato elevata professionalità in tutti i settori, amministrativi e tecnici; il “Genio Civile”, tanto per fare un esempio, ha rapidamente ripristinato le più importanti infrastrutture viarie e ferroviarie danneggiate o rese inservibili dagli eventi bellici. Tuttavia, da alcuni decenni i cittadini e le imprese ne denunciano in tutti i settori una generalizzata inefficienza, oggetto di ricorrenti segnalazioni da parte della stampa, e nulla fanno i governi di apprezzabile ed apprezzato per superare questa situazione, nonostante sia evidente che la politica al governo realizza gli obiettivi indicati nell’indirizzo politico emerso dalle urne e condiviso dalle Camere attraverso l’opera degli apparati amministrativi. Dovrebbe essere, dunque, prima di tutto il Governo a percepire l’esigenza di disporre di un apparato capace di realizzare gli obiettivi delle politiche pubbliche. E i governi in qualche modo sembra ne siano consapevoli. Infatti, fin dal dopoguerra è sempre stato previsto un ufficio della Presidenza del Consiglio, retto da un Ministro senza portafoglio, in vario modo denominato: riforma burocratica, riforma della pubblica amministrazione, semplificazione e quant’altro la fantasia ha consentito di definire. E tuttavia, ancora oggi, pressanti sono le esigenze di semplificazione dei vari procedimenti soprattutto di natura autorizzatoria. Il governo Conte gli ha dedicato un apposito decreto che unanimemente viene ritenuto assolutamente inadeguato. Basti pensare che, per esorcizzare il timore della firma, come si è letto più volte, è stata eliminata la responsabilità per danno erariale nelle fattispecie della “colpa grave” che, come abbiamo spiegato più volte, costituisce una gravissima negligenza e imperizia. Il fatto è che sfugge al Governo, e, quindi, alla politica, che l’Amministrazione pubblica non funziona per colpa della politica, perché è la politica che fa le leggi le quali delimitano attribuzioni e competenze degli uffici ed è la politica che definisce le procedure le quali costituiscono quell’inestricabile groviglio di adempimenti che costituiscono un peso per i cittadini e per le imprese, sconsigliate dall’investire (soprattutto le estere, abituate ad amministrazioni che non solo non frappongono ostacoli ma agevolano chi vuole intraprendere attività di produzione o di commercializzazione di beni). Quelle procedure, viste dall’operatore della P.A. rendono difficile la definizione delle pratiche per l’incertezza delle norme, spesso scritte male quando non incomprensibili. In questo contesto si manifesta il timore di sbagliare.Da qualunque parte affrontiamo il tema dell’Amministrazione incontriamo difficoltà e inefficienze e siccome, come dice un detto popolare, il pesce puzza dalla testa, è evidente che tra le varie disfunzioni, ad esempio riguardanti il reclutamento e la progressione nelle carriere che ha portato in posizioni di responsabilità soggetti assolutamente inadeguati, ce n’è una gravissima che sta scolpita in una norma di legge la quale consente al potere politico di nominare liberamente dirigenti. Senza una selezione, senza concorso, una serie di soggetti vicini alla politica assumono nell’ambito dell’Amministrazione responsabilità dirigenziali particolarmente importanti con un effetto deleterio. In quanto vengono assegnate funzioni rilevanti a soggetti privi di professionalità e di esperienza e perché queste promozioni mortificano i funzionari di carriera, quelli che un tempo si chiamavano direttivi, che nel privato sono i “quadri”, la forza della struttura, diretti da persone inadeguate e perché queste nomine tolgono spazio alle loro legittime aspirazioni. Alla ricerca dei più recenti motivi di disagio si ricorda negli anni 1992-1993 (Governo Amato – Ciampi) la scriteriata privatizzazione del rapporto di pubblico impiego proseguita nel 2001 con quella assurda riforma, fortemente voluta dall’allora Ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, che, con il sistema dello spoils system, ha inaugurato la stagione della dirigenza sottoposta al politico di turno.
Dopo la riforma della dirigenza attuata con la legge 748/1972, che prevedeva l’accesso con regolari procedure concorsuali aperte a tutti, con regole certe che consentiva ai migliori di raggiungere determinate posizioni di vertice, purtroppo le forze politiche hanno trascurato il merito e la legalità, con l’effetto di determinare un diffuso malcontento tra gli addetti ai lavori, costretti a sopportare macroscopiche ingiustizie. La situazione gravissima si è progressivamente aggravata per il fatto che la norma di riferimento, la quale prevede l’assunzione di estranei con funzioni di dirigente, nata per sopperire ad eventuali, rarissime situazioni di mancanza della specifica professionalità, è diventata, di fatto, un “dirigentificio” di gente spesso senza arte né parte. Ho premesso che la norma avrebbe un senso, perché può accadere che l’Amministrazione abbia bisogno di una professionalità che al suo interno non possiede. Caso rarissimo, tuttavia, perché l’Amministrazione italiana ha tutte le professionalità necessarie. Ha giuristi, economisti, statistici, medici, ingegneri di ogni specialità, civili, navali, aeronautici, per fare qualche esempio. Si tratta, quindi, nel caso in cui un’Amministrazione avesse l’esigenza di una professionalità al momento assente, di acquisire dalla struttura che, invece, la possiede, in comando o in altra forma qualunque di collaborazione, il professionista che occorre. Invece l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 ha creato un meccanismo perverso che consente la nomina di dirigenti anche tratti dalla stessa Amministrazione, un tempo previo un fittizio collocamento fuori ruolo, per apparire estranei, oggi neppure perché la norma è stata integrata dal duo Madia Renzi che ha reso possibile le nomine interne. A leggerlo com’è scritto l’art. 19, comma 6, sembra destinato all’assunzione di candidati al premio Nobel. Infatti, afferma che gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. Cominciamo col dire che il riferimento a magistrati, avvocati e procuratori dello Stato è come uno specchietto per le allodole. Dovrebbero fare come i gamberi, tornare indietro. Mentre le “concrete esperienze di lavoro” riferite alle amministrazioni “che conferiscono gli incarichi” è una palese contraddizione con la prevista assenza di professionalità. La ciliegina sulla torta dell’interesse della politica sta nella durata degli incarichi, che “non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Insomma il dirigente non solo ha ottenuto la nomina ma attende anche la conferma dallo stesso ministro che lo ha nominato, una condizione che lo rende naturalmente “prono” alla volontà politica dalla quale dipende il suo status. Considerato anche che “il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali”. La tanto sbandierata distinzione tra politica e amministrazione, stabilita dall’art. 3 del decreto legislativo n. 29 del 1973, finisce qui. Il politico si è tirato fuori da ogni responsabilità e la scarica sul funzionario che opera sulla base di direttive politico-amministrative. E la politica lo rassicura escludendo che possa essere chiamato a rispondere per “colpa grave” in caso causi un danno al bilancio pubblico. Con buona pace dei Costituenti, i quali avendo previsto che i pubblici dipendenti debbano essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), li ritrovano al servizio del politico di turno.
14 agosto 1897: un duello per l’onore delle armi italiane
di Domenico Giglio
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
Tra le tristi conseguenze della battaglia d’Adua del 1° marzo 1896 vi furono le migliaia di soldati italiani prigionieri degli abissini ed i commenti sfavorevoli nei loro confronti della stampa straniera, specie francese forse dimentica dei rovesci subiti in altre battaglie da truppe francesi ed inglesi in Africa. Uno dei commenti meno nobili fu scritto dal principe Enrico d’Orleans e pubblicato dall’importante quotidiano francese “Figaro”, il 21 aprile 1897. Ora non poteva rimanere senza risposta questa ignobile offesa ai soldati italiani e fu un principe di Casa Savoia (dinastia la peggiore in Europa come decenni dopo ebbe la sfrontatezza di scrivere un certo Romita!), Vittorio Emanuele, Conte di Torino, nipote del Re Umberto, in quanto figlio del fratello, Amedeo, Duca d’Aosta, ad esigere la riparazione, sfidando a duello, era l’uso dell’epoca, il principe francese. Dopo tutti i preliminari, secondo le regole cavalleresche, magistralmente riportati, dagli originali manoscritti nel volume fuori commercio, edito da Mondadori (senza data) grazie al contributo di Lucio Zanon di Valgiurata, dopo avere avuto l’autorizzazione alla pubblicazione da parte del Re, la mattina alle 5 del 14 agosto 1897, nel “Bois des Marechaux”, località vicino Parigi, avvenne lo scontro alla spada tra i due Principi. Dopo una scalfittura per parte al quinto assalto, la spada del Conte di Torino procurò unna ferita, non mortale, all’addome del principe francese, subito soccorso dai medici presenti, come riportato nel verbale “ayant reçu dans la parti inferieur droit de l’adomen un coup d’epeè”. Così con la vittoria del Principe Sabaudo terminò il duello che ebbe ampio risalto sulla stampa estera e nazionale, restituendo così onore al soldato italiano e prestigio al Regno d’Italia ed alla Casa Regnante, “lezione di onore di italianità, data da un Savoia”.