HA VINTO GARIBALDI

di Giuseppe Borgioli

Alessandro Sacchi mi ha chiesti di scrivere qualcosa nella ricorrenza della scomparsa di Camillo Benso di Cavour, impresa che –come dicono i giovani- mi intriga – al di sopra di ogni ricostruzione storica e biografica. Cavour fu padre della Unità della nostra Patria e la sua opera fu principalmente politico-diplomatica. I modi e i tempi della sua azione obbedirono a questa visione che fu unica nel panorama del Risorgimento. Porre le fondamenta di uno Stato diviso e frustrato non è facile. Le tante e diversa fazioni che agognavano alla unità politica della nostra Italia erano non poche e gli ideali che le animavano erano in contrasto fra di loro segnate dai personalismi. Unità interna per agire di comune accordo fu la strada difficile percorsa da Cavour, sin dalla prima giovinezza quando abbracciò le idee liberali a cui restò fedele per tutta la sua pur breve vita politica quando fece della Monarchia Sabauda il faro del suo progetto. Re e Patria furono il leiv motiv della sua milizia politica. Il pragmatismo fu una costante politica che si sposò con una vocazione spirituale ferma, che non ha mai conosciuto ondeggiamenti. Non fa fatica essere pragmatici quando i principi sono saldi. La diplomazia non è una semplice tecnica suggerita dagli avvenimenti quando restano chiari e irrinunciabili gli obiettivi da raggiungere.

Idealismo e realismo si amalgamano insieme in vista della azione comune come la linea ispiratrice di una grande politica conduce la passione e la razionalità dei grandi uomini. I patrioti animati da alti ideali furono molti e scrissero pagine entusiasmanti nel Risorgimento. Ho il dubbio che questa Italia sotto ai nostri occhi e che ò ancora il frutto delle nostre premure e preoccupazioni sia quella non dico sognata ma perseguita dal Cavour. Camillo Cavour mori giovane a cinquanta un anno e ci ha lasciato con la bocca amara di non aver assaporato il compimento della sua progettualità politica. Lui compi la sua esistenza quando Roma non era ancora capitale senza i conforti religiosi che gli furono negati e quando la articolazione della nuova Italia avrebbe avuto bisogno del tocco del suo ingegno. Come tante opere artistiche dobbiamo accontentarci della sua incompiutezza, del sacrificio di chi è venuto dopo di lui e ha cercato di interpretare le sue idee il suo messaggio privo di testamento. Gli avvenimenti storici che hanno fatto seguito alla morte di Cavour ci hanno spesso entusiasmato, qualche volta disarmato. La linea che ha prevalso nella vita della giovane Italia fu quella del pur generosissimo Garibaldi che ebbe il seguito dal mancato imperialismo di Francesco Crispi antesignano in politica estera di Benito Mussolini. Il progetto di Camillo Cavour forse era rimasto senza eredi diretti. Questa deviazione è stata pagata con il sangue del popolo Italiano. La pagina imperialista fu più crispina e mussoliniana, più garibaldina che cavourriana. La storia non si ripete mai e per procedere avanti ha bisogno di fare qualche passo indietro. A noi il compito di ricostruire lo Stato da dove ce lo ha lasciato Camillo Benso conte di Cavour.

di Giuseppe Basini

( tratto da: www.opinione.it)

Il più delle volte che, negli anni, ho sentito nominare la parola altruismo od ho assistito ad una delle solite filippiche che i media, in questo solidali, fanno contro l’egoismo, ho provato un senso di fastidio, quando non una vera e propria ripulsa.  La sensazione era strana poiché, abituato da bambino a considerare l’altruismo una virtù e l’egoismo un vizio, non mi sapevo spiegare in termini espliciti questo malessere di cui, per coerenza, avrei dovuto provare dispetto, ma che invece sentivo, in fondo, originato da motivi non deteriori, che mi ripromettevo di mettere un giorno o l’altro a fuoco.  Avevo come la sensazione che i valori rappresentati nelle due parole si fossero profondamente modificati, sì da non ritrovare più in esse il significato tradizionale e che anzi questo egoismo di cui tanto si straparlava fosse, in qualche maniera che non sapevo precisare, imparentato alla lontana con la ben più nobile (e socialmente spendibile) libertà. Tale malessere sarebbe probabilmente restato un fatto personale del sottoscritto (ancorché fastidioso, perché rinnovantesi spesso) se non mi fosse capitato, una sera, di ascoltare casualmente alla radio, in una rubrica di colloqui con gli ascoltatori, una ragazza affermare il suo rifiuto della famiglia con la motivazione che essa era fonte di ingiustizia, in quanto si è portati ad amare di più il proprio familiare o parente (per estensione, è ovvio, si può risalire ai partiti, alle città, alle nazioni) che non lo sconosciuto. Mentre l’amore, per il vero altruista, dovrebbe essere equidistribuito tra tutti. Stavolta, la reazione all’affermazione della ragazza ed alle svaporate affermazioni di consenso dei conduttori, fu così vivace da, direi, quasi costringermi a pormi il problema.  Orbene, la ragazza aveva probabilmente ragione. Il vero altruista, l’altruista “ideologico”, dovrebbe in effetti amare tutti in maniera uguale, dato che il maggiore amore per il proprio padre o il proprio figlio, non è altro che una forma sublimata di egoismo: amo di più la mamma perché è la mia mamma, è mamma a me.  Amo di più il collega (camerata, compagno) perché ha le stesse mie idee e così via, solo che il problema a questo punto è cosa significa essere altruista ed ancora e molto di più, è “bene” essere altruista?  (È “buono” l’altruismo?) Probabilmente, non sarei arrivato a porre così radicalmente in discussione un valore tanto comunemente accettato, se non mi fossi reso conto che esso andava a cozzare contro altri valori, altrettanto storicamente accettati, ma superiori. Per capire il senso della domanda, occorre vedere da dove viene la gerarchia di “intensità di amore” tradizionale (papà, mamma, figli, patria, paese), su cosa essa poggia, ecco il punto. A mio avviso, essa si basa sul grado di identificazione che noi facciamo tra noi stessi e il soggetto (ente) amato, cioè è una scala in valori di egoismo, posta in un sistema di riferimento che ha come origine l’individuo. Da questa analisi segue, quindi, una importante constatazione: applicando questo genere di considerazioni ad ogni essere umano, si viene ad avere una rappresentazione della realtà che considera “soggetto” l’individuo, oltre a darne una descrizione che io credo fedele.  In altri termini, questo “egoismo” non sarebbe altro che il figlio della propria capacità di “sentire” autonomamente ed il padre della capacità di pensare e agire, del pari autonomamente, in conseguenza.  Di contro, l’altruismo egualitario, per essere prima ancora che auspicabile, possibile, ha bisogno che l’uomo non faccia più una tale scala di affetti, ma che consideri tutti gli altri esseri umani (ma anche al limite luoghi o pensieri) uguali e da questo, sempre se fosse possibile, la prima conclusione sarebbe che la realtà risulterebbe quindi percepita come uguale da qualsivoglia osservatore e che, dunque, il soggetto non sarebbe più l’individuo, ma eventualmente la somma di tutti gli individui. Poiché non solo ognuno di noi verrebbe a vedere gli altri come tutti uguali, ma verrebbe a sua volta visto dagli altri come identico ed indistinguibile da chiunque altro, per cui sarebbe indifferenziato, come ad esempio una sfera in mezzo ad altre sfere, una unità in mezzo ad altre unità.  Così l’individuo, guardando l’umanità attorno a sé, in qualunque direzione lo facesse, vedrebbe sempre lo stesso panorama, sempre uguale, sempre indistinguibile, perdendo ogni punto di riferimento e la possibilità di farsi una rappresentazione autonoma della realtà.  E allora l’unica rappresentazione originale di questa realtà, sarebbe una sorta di visione globale della collettività umana di se stessa, che riesce difficile però da definire logicamente, anche solo in astratto, se si vuole evitare che le parole si riducano a suoni privi di rappresentatività di qualcosa di reale, assumendo un ambiguo odore di magico, come ad esempio l’espressione “cervello collettivo”, sorta di totem da adorare e da temere. Vi è una curiosa analogia tra questo tipo di dilemma e la polemica che da molto tempo divide i biologi e cioè se il soggetto autonomo, dotato di personalità e di un progetto, sia la formica o il formicaio. Ecco, l’egoismo, introducendo contraddizioni tra i punti di vista, impedisce all’uomo di ridursi a semplice elemento del formicaio.  L’egoismo è poi infine intrinsecamente legato all’istinto di sopravvivenza, istinto assolutamente naturale e di tutti, perché, ricordiamolo, senza di esso saremmo probabilmente estinti. La seconda considerazione possibile, e cioè quella sperimentale che un esempio di mondo popolato di altruisti veritieri non si è mai visto (gli Stati cosiddetti collettivistici, sono in realtà quelli in cui le rigide gerarchie personali e le caste chiuse e privilegiate sono più evidentemente presenti) avrebbe dovuto per la sua evidenza essere forse posta per prima (e i polemisti di parte liberale lo hanno fatto per decenni) ma non lo ho ritenuto sufficiente.  L’altruismo ideologico non è infatti solo inesistente, ma è anche un cattivo sentimento, perché poggia sulla negazione dell’autonomia dei sentimenti dell’individuo e quindi della sua libertà.  Tale puntualizzazione è di estrema importanza, perché fino a quando non si chiarirà che tale ideale non è solo impossibile, ma anche sbagliato – non bello e soprattutto non buono – vi sarà chi cercherà di realizzarlo, provocando effetti catastrofici, andando dai casi più tragici di comunismo integrale come in Unione Sovietica o in Cambogia (se l’uomo non è altruista imponiamoglielo) fino ai semplici complessi di colpa ( talvolta però devastanti) indotti nel povero borghese occidentale, passando per le tristi forme di estraniazione alla famiglia, favorite da stati barbarici ripetitivi della prevalenza dell’antica tribù sui suoi membri.  In tutti i casi, comunque, l’annullamento dell’Io, dell’ego, è funzionale ai disegni liberticidi delle dittature, laiche o religiose che siano e inoltre nega una evidente realtà e cioè che solo i diritti “individuali” sono veramente collettivi, perché proprio di tutti e per tutti, mentre quelli oggi definiti collettivi, sono invece espropriazioni fatte da chi guida momentaneamente le istituzioni secondo personali convinzioni, legittime, ma certo non tali da costituire un quasi santificato bene comune.  Radicalmente diversa, dalla visione socialista, è invece la visione Cristiana, nonostante le interessate analogie tentate dai marxisti.  Così diverso e originale è il modo in cui Gesù di Nazareth affrontò il problema dell'altruismo (e in generale del bene) da giustificare il pensiero (anche presso un cattolico dubbioso e anticlericale come me) che un concetto così elevato, come la composizione tra altruismo e libertà da lui fatto, sia qualcosa in grado di superare la normale capacità umana di concepire, pur restando immediatamente e generalmente comprensibile.  La profondità della rivelazione di Gesù sta nel concetto che non vi è bene (in senso etico) senza la “volontà” di fare bene.  Non vi è altruismo vero, che non sia basato sul libero arbitrio, non vi è altruismo reale che non parta proprio dall’egoismo, dalla coscienza di sé ed infine il reciproco: non vi è male senza la volontà di fare male.  Nessuna religione è stata mai più individualista, nessuna più umana, fatta per l’uomo.  Giova ricordare a questo punto il discorso di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, a Ratisbona all’inizio del suo pontificato, dove mise in evidenza la differenza sostanziale tra il Cristianesimo ed altre religioni (l’Islam ad esempio) perché nel Cristianesimo la conversione o la conferma religiosa non vale nulla se non è completamente libera da costrizione e da condizionamenti.  Che è poi, alla fin fine, proprio quello che affermava anche Dante: “Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e alla sua bontate più conformato e quel ch’ei più apprezza fu de la volontà la libertate”.  Ed è proprio il valore della libera scelta ciò che conta, dato che, siccome comunque vada, sia che i singoli uomini siano buoni o cattivi, alla fine i conti in ogni caso per l’umanità torneranno (“le vie della Provvidenza sono infinite”) è solo per lui – l’individuo – che la sua scelta conterà veramente e l’altruismo è, così, un regalo che si fa a se stessi.  L’altruismo non come reazione, ma come forma, una forma alta, di egoismo, restando cioè se stessi : persona, individuo, unico e irripetibile.  Far del bene a se stessi, facendo del bene agli altri, questo il messaggio del Cristo.  Far bene agli altri, dunque, non è far torto a se stessi, l’unico bene vero essendo però quello che si fa spontaneamente e secondo la propria natura, che non deve essere per tutti quella di San Francesco e che non ha niente di condannabile, se è invece quella dello scienziato chiuso nella sua ricerca o dell'industriale che investe ogni soldo nella crescita della sua azienda.  Senza dover scomodare il laico Sigmund Freud, che poneva il “piacere” come prima motivazione di tutto (da quello sessuale fino a quello provato nel curare dei lebbrosi e sentirsi buono) di nuovo, le vie della provvidenza sono infinite, forse quello scienziato scoprirà nuove radiografie o un vaccino. Forse l’avarizia di quell’industriale sarà la forza di quell'azienda e lavoro per migliaia di persone, forse addirittura la loro anima è molto meno in pericolo di quella di preti scarmigliati che li additino come “egoisti borghesi” al pubblico ludibrio, facendo scandalismo di professione e costruendosi una carriera di immagine e di opportunità sullo sfruttamento del bene ridotto a personale, vanitosa e minacciosa privativa.  Oggi che nel mondo, dall’aborto alla libertà di culto, tante sono le minacce collettivistiche (solo uno stato etico che si consideri il proprietario ultimo degli esseri umani, può concedere il primo e vietare la seconda) da cui è colpita la chiesa in materia di fede, il maggiore scandalo sono proprio quei preti con una concezione immanentistica del loro ruolo, che scambiano la rivelazione per un programma politico, la chiesa per un sindacato e se stessi per uomini di spettacolo.  L’Occidente, storicamente, è il luogo dove Stato e chiesa sono separati e questo è stato possibile, anche perché vi fu chi disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare”.   Ed il compito di ricordarlo sempre è di tutti, laici e religiosi.  Una religione individualista fondata sul libero arbitrio, questo ai miei occhi (non voglio imporre questa visione a nessuno) è il Cristianesimo, questo e insieme religione occidentale, laddove spinge a fare, a intraprendere (la parabola dei talenti) o, se vogliamo, è l’Occidente liberale ad essere Cristiano secondo la lezione Crociana. Il Cristianesimo (ad onta della Santa Inquisizione e della Compagnia di Gesù) come religione individualista e fondata sul libero arbitrio, dunque, se non proprio liberale, certo religione libera.  Ma non solo, religione portante in sé l’idea dell’iniziativa privata e dell’imprenditoria e, infine, anche religione con in sé lo spirito della ricerca scientifica, fatto che il processo a Galileo e il rogo a Giordano Bruno – figli di una funesta stagione di intolleranza clericale e integralista – hanno nascosto, ma che non ci devono far dimenticare come sia stato anche nei chiostri Benedettini e Domenicani, che si andò riformando quella mentalità di interesse per le leggi della natura, che seppe esprimere uno spirito di ricerca. E questo ancora prima di arrivare alla Rivoluzione galileiana, che, infatti, non si produsse in Italia per caso. Nessuno me ne voglia per questa invasione di campo, ma così la vedo io e così riesco a conciliare (per quanto possibile) l’uomo di scienza, il liberale e l’uomo di tradizione che sono in me.  Dalla misura in cui il Cristianesimo saprà far proprio il dubbio (e dunque la tolleranza) in un mondo in cui l’integralismo religioso sta facendo nuovamente drammatica apparizione, dal modo in cui si concilierà con la scienza in un mondo sempre più modificato da questa, dalla capacità di dare alla gente il suo messaggio di trascendenza (che è la vera e prima sua grande funzione) abbandonando le tentazioni di mondanità sociale e di potere “gesuitico”, dipenderà la sua possibilità di essere la consolazione dei moltissimi che ne hanno bisogno, anche nel nuovo millennio. Ed io me lo auguro. Egoisticamente

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu )

C’è stato chi, giusto ieri, alla vigilia della “giornata del ricordo”, si è scusato per le leggi razziali a nome della Famiglia reale all’epoca regnante. Le scuse sono sempre un gesto meritevole del massimo apprezzamento. Costituiscono un gesto di umana pietà per le vittime di quell’immane tragedia alla quale l’Italia ha dato un apporto limitato ma non per questo meno grave. Anche una sola vittima, infatti, avrebbe macchiato l’onore di un popolo di antica civiltà, erede della romanità sempre tollerante e permeato di spirito cristiano. Eppure non è servito ad evitare un’ingiustizia che ho fatica a capire come possa essere avvenuta. Come gli italiani non abbiano percepito l’infamia di un pubblico funzionario escluso dal suo ruolo, nonostante il giuramento di fedeltà allo Stato ed al Re, e quella del bambino allontanato dalla scuola.

Da liberale e, pertanto, lontano anni luce da ogni totalitarismo non capisco neppure come un regime che, come ha ripetutamente raccontato, tra gli altri, Bruno Vespa, godeva del consenso della assoluta maggioranza degli italiani abbia pensato un tale orrore che è anche un errore politico ad iniziativa di un leader che aveva dimostrato in altre occasioni di saper cogliere i sentimenti degli italiani, come aveva fatto nel prendere in mano, lui socialista e libertario, la fiaccola, si direbbe oggi, dell’interesse nazionale messo in forse nel drammatico dopoguerra dall’aggressione comunista, all’interno, e dagli effetti del tradimento degli alleati a Versailles.

Oggi chi si scusa in nome di Casa Savoia e del Re fa bene se lo fa in nome del popolo italiano per quelle leggi promosse dal Governo ed approvate dal Parlamento, Camera e Senato, che il Sovrano non poteva non promulgare dopo ripetuti dinieghi. Fa comodo, tanto ai fascisti ancora esacerbati per il risultato del Gran Consiglio del Fascismo che il 25 luglio 1943 restituiva i poteri statutari al Re, quanto agli antifascisti nemici del Risorgimento, scaricare le responsabilità sul Re che i più benevoli vorrebbero avesse abdicato, dimenticando che sarebbe stato un disastro a guerra perduta non avere un interlocutore con gli angloamericani per un armistizio doloroso ma necessario.

Tutti comunque fanno finta di trascurare che in un ordinamento costituzionale il Capo dello Stato non governa ed è tenuto a promulgare una legge approvata dal Parlamento. Anche oggi la Costituzione prevede all’art. 74 che il Presidente della Repubblica, il quale, prima di promulgare una legge, “con messaggio motivato”, abbia chiesto alle Camere “una nuova deliberazione”, se nuovamente approvata “deve” promulgarla (comma 2).

Spero che questa polemica ingiusta nei confronti di Re Vittorio Emanuele III finisca per rispetto della verità storica che ci dice di un Re che ha retto contro le prepotenze di un regime che si era presentato come pacificatore e, come tale, il governo presieduto da Benito Mussolini era stato accolto dalla maggioranza di una Camera (il Senato di nomina regia non dava la fiducia ai governi) liberamente eletta. Poi nel prosieguo, incrementandosi le norme liberticide, anche delle prerogative sovrane, le opposizioni si sono volontariamente messe fuori del circuito parlamentare, mentre il regime occupava tutti gli spazi, perfino nell’esercito, la cui fedeltà al Re si consigliava di non mettere alla prova, comandato da generali acquisiti al regime con promozioni ed onorificenze.

È stata una pagina buia della nostra storia con italiani che per denaro hanno denunciato ebrei ed altri che, anche nelle condizioni peggiori, nell’Italia occupata dai tedeschi, li hanno protetti e nascosti anche a rischio della vita. Come sempre le persone ignobili sono state numericamente meno di quelle che con generosità hanno fatto onore alla Patria.

Le leggi razziali, chi le ha volute?


Non c’è dubbio che scusarsi a nome di una Famiglia o di un Popolo costituisca un gesto nobile di onestà intellettuale e di cristiana pietà considerato che, nel caso delle leggi razziali, ad esse sono seguiti lutti di gravità inaudita. È tuttavia una scusa che deve lo Stato italiano, considerato che quelle leggi, proposte dal Governo ed approvate dalle Camere, non potevano non essere promulgate da un Re costituzionale dopo plurimi rifiuti. Anche oggi ai sensi dell’art. 74, comma 2, della Costituzione repubblicana il Capo dello Stato “deve” promulgare una legge approvata dal Parlamento. Lo ricorda agli immemori l’Unione Monarchica Italiana, segnalando che l’eventuale abdicazione del Re avrebbe messo definitivamente l’Italia nelle mani del regime che quelle leggi aveva voluto e che godeva, come ha ricordato nel suo ultimo libro Bruno Vespa, dell’assoluto consenso degli italiani. Molti dei quali a guerra perduta, com'è noto, si sarebbero rapidamente “scoperti” antifascisti.

Roma,23 gennaio 2021

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

di Giuseppe Basini

( tratto da: http://opinione.it/editoriali/2021/01/22/giuseppe-basini_coronavirus-tv-stato-conte-speranza-renzi-draghi-grillo-corrida-covid/)

La brutta sensazione, come un’arietta fredda insinuante e pungente, cominciò a circolare nel Palazzo poco prima del Santo Natale, segnalandosi con una improvvisa e circospetta gravità di espressione, che, intravista da principio sui volti dei maggiori papaveri rossi, era arrivata poi, come un’onda anomala, fino a quelli di peones, segretarie e faccendieri. Eccezion fatta per pochi, era però più una vaga sensazione di pericolo che una reale conoscenza, come il timore di qualcosa di alieno venuto a turbare compiaciute esistenze di Corte, un qualcosa di nuovo e preoccupante, ritenuto prima impensabile.  In realtà, piccoli segnali premonitori però c’erano.  Ad esempio, già da giorni, in luogo della solita corsa ad apparire in tivù per i commenti politici, si era vista la novità di una serie di costumati e quasi dignitosi dinieghi e, nel mausoleo della tv di Stato, i funzionari più pronti ad annusare il vento avevano notato lo strano e inusitato fenomeno.  Inoltre, man mano che i giorni delle vacanze, intristiti dal Coronavirus e dai divieti polizieschi del governo, scorrevano lenti, facce solitamente allenate a un abituale sorriso di sufficienza, cominciavano a sbiancarsi (a seconda anche dei temperamenti e delle condizioni del fegato) ma tuttavia ancora prevalevano stupore ed incredulità : “Ma no dai, non è possibile, ma figurati se i nostri onorevoli sono disposti a rischiare di tornare a casa, e poi per aprire la strada a quelli, ma, dico…a quelli!”.  Solo nella stanza del gran cerimoniere del governo, il premier senza partito né elezione, ma dotato di un riconosciuto e levantino sussiego da sartoria, la chiusura ermetica delle porte sembrava indicare che forse davvero qualcosa non andava (si mormora che nottetempo avesse perfino sognato Matteo Renzi che gli offriva caramelle insieme a Draghi). In verità, c’erano anche altri segni, Franceschini il duttile, volpino e serioso, si preoccupava assai di mettere agli atti “io però l’avevo detto e ridetto”,  mentre Di Maio il dotto ripeteva meccanicamente  “ non guardate me, io mi son dimesso da più di un anno”, senza però riuscire a togliersi di dosso quell’eterna aria di essere lì solo per caso. Speranza infine, con fanciullesca impudenza, proprio non si capacitava che, nel bel mezzo di una pandemia, potessero pensare di licenziare un ministro così bravo e risolutore come lui.  Tra i parlamentari i segnali erano ancora più preoccupanti. Bersani continuava a borbottare “ecco cosa si guadagna a indebolire la Ditta”, Fiano a parlare dell’attualità dell’antifascismo, Delrio a starsene zitto e serio, mentre Renzi si mostrava il più indignato di tutti, anche se qualcuno giura di averlo visto, in aula, girare sovente il capo per nascondere un riso irrefrenabile.  Pian piano la situazione scivolava su di un piano inclinato, verso un sempre più inevitabile scontro al Senato, terreno instabile e infido.  Tentativi, autorevoli e non, vennero posti in atto per evitare o almeno rallentare la corsa verso il baratro.  Niente, perfino gli appelli dell’uomo più serio, misurato e competente della repubblica, l’elegante e nobile Beppe Grillo del Vaffa, caddero nel vuoto.  Mentre tutti si domandavano se la corrida sarebbe stata di tipo spagnolo, con la morte di uno dei duellanti oppure portoghese, dove lo scontro è solo mimato, i penultimatum si susseguivano l’uno all’altro.  E il giorno della verità alla fine arrivò, sotto forma di conferenza stampa, per annunciare la pace o la guerra (o la corrida). Arrivati alla corrida, più per caso che per scelta, le prime evoluzioni dei banderilleros si svolsero nell’arena della camera, terreno più favorevole al governo, ma subito si vide dalle veroniche che il modello era quello portoghese, il torero non aveva nessuna voglia di uccidere il bestio, anzi, dichiarava apertamente di volersene astenere. Ma il rischio del Senato restava.  Anche se il Renzi furioso si era talmente intimidito da balbettare che lui, per carità, scherzava e che anzi aveva sempre ammirato il ciuffo e la pochette del Conte, la folla chiedeva però a gran voce lo scontro e il cambio del torero. Naturalmente, approssimandosi l’ora della verifica tutti, protagonisti e portaborse, corsero verso i televisori, ma non in grandi sale attrezzate, con cameramen, giornalisti, clienti e postulanti, no, piuttosto in stanzette ridotte, riservate, quasi come alla ricerca di luoghi più intimi, più adatti – se del caso – a elaborare il lutto. E così, quando la pendola del castello batté le 12 (pardon, le venti ed era la Rai) erano tutti di fronte a uno schermo.   Alle 20,30 in punto la notizia deflagrò, incontenibile.  Veicolata dalle veline delle agenzie la situazione mostrava che la fortezza governativa, vecchia terra di conquista, caro Palazzo culla di tanti sogni di belle carriere, stava crollando poiché la maggioranza, ormai irrimediabilmente divisa, non era più maggioranza.  Il Governo, mancando le forze, rischiava la fine. Ricerche affannose di fonti alternative, telefonate ai giornali, internet ( ah, i bei tempi quando c’erano le Botteghe Oscure! ) nulla pareva dare conforto, la situazione stava precipitando.  La crisi sembrava aperta.  Lo stupore si cambiò in dolore, i deputati di prima nomina guardavano ansiosi gli astuti decani della maggioranza, cercando motivi di speranza, ma questi restavano muti, solo occupati a darsi un contegno e fingere di aspettare gli eventi. Si videro scene inusuali: cronisti, operatori e curiosi, scendere velocemente di numero nelle postazioni governative, per infittire quelle dei partiti di opposizione, parlamentari di sinistra divenuti parchi di commenti, quasi afoni e gente comune di destra desiderosissima invece di parlare, anzi di urlare. Nel Palazzo, presidiato dalle forze dell’ordine in mascherina, ma semideserto, il grande temporeggiatore, “Quinto Giuseppi Massimo l’Indossatore”, forse ancora asserragliato nel fortilizio o forse evaporato, non dava segni di vita né tantomeno di presenza politica (quest’ultima in effetti mancante anche prima), mentre alcuni dei suoi sodali, un po’ basiti, giravano in tondo attorno alle rovine, senza assembramenti, ma con atteggiamenti e idee molto confusi.  Si mormora, infatti, che Zanda, nella notte, abbia raggiunto uno stato di fissità facciale preoccupante, quasi pietrificata, Zingaretti abbia pensato di chiedere al fratello se, in ipotesi, ci potesse essere una parte anche per lui (magari come assistente di Catarella). Maria Elena Boschi, sempre elegante, sembra abbia accennato al suo “spleen”, mentre la Laura Boldrini pare abbia prospettato di emigrare in Africa, beninteso con un prestigioso incarico Onu.  I grillini invece, spaesati come sempre, furono uditi lamentarsi di come, nella scatoletta aperta, non ci fosse più tonno, proprio adesso che i ristoranti erano chiusi, mentre il noto garantista Bonafede pesantemente redarguiva Speranza per non aver sprangato il parlamento per il Covid.  Sembra ci siano stati fenomeni concentrici pure fuori dal Palazzo, perché osservatori dell’ammiragliato britannico hanno segnalato come branchi disordinati di sardine abbiano attraversato lo stretto di Gibilterra, abbandonando per sempre il Mediterraneo.  A commento Buscaglione avrebbe detto “che notte, ragazzi, quella notte”.  Sembrava la notte del crollo di un vecchio e sbilenco equilibrio, del nostro locale muro di Berlino, di un sistema sempre più autoritario, ma ormai sgretolato e rabbioso, il giorno della fine di tante compiaciute vanità.  Qua e là discorsi pensosi, ma poco seri “e ora dove finirà il Paese?” con la testa in realtà rivolta a una gradita e ben pagata consulenza culturale, ora a rischio. È così che un mondo un po’ fatuo, rimasto tale nonostante la protervia pasticciona del lockdown, ha cominciato ad andarsene, un mondo che in realtà era già finito, ma non se ne era accorto. E allora, scomparso Don Camillo ad opera di un Papa occupato a distruggere la tradizione, Peppone, per la nostalgia, ha provato a suicidarsi.  Sembrava tutto finito.  A pensarci bene però, forse non tutto era perduto, no, bastava… non prenderne atto. La brillante intuizione, suggerita proprio dal machiavellico fiorentino, era : se io, invece di votarti contro, mi limito a darti una “non sfiducia” e tu fai finta di niente e non ti dimetti, tutti restiamo in Parlamento felici e contenti, così tu fai in tempo a farti il tuo partito, io il mio e alla lunga speriamo di prendere un po’ di voti al Partito Democratico e ai Cinque Stelle, perché la destra sarà pure il nemico, ma questi sono molto peggio, sono dei concorrenti.   Il patto dei campanili tra l’uomo di Rignano sull’Arno e quello di Volturara Appula fu così siglato nottetempo, nella sagrestia di una piccola chiesa sconsacrata dei gesuiti e la recita, che tale era stata, subitaneamente terminò. Giù il sipario e applausi. E qui posso anche chiudere, ma non prima di aver ricordato ai colleghi di sinistra, che spero non se la prendano troppo per questa bonaria presa per i fondelli (anche perché vedo che cercheranno vanamente di continuare a governare come nulla fosse) che prima o poi si dovrà comunque votare e questa volta per davvero, nelle elezioni politiche e che allora la gente potrà dimostrare di avere o no gradito la pièce teatrale che le avete proposto nell’ultimo anno, invece di un vero governo.  Se, come credo e spero, le elezioni non andranno bene per voi, potrete sempre riflettere sul fatto che anche le sconfitte hanno un pregio, perché ricordano la democrazia a chi – non è un po’ il vostro caso? –  pensa invece di essere naturalmente predestinato al potere. Compagni, non siete predestinati al potere e neanche all’opposizione. Dipende dai cittadini elettori, della cui libertà spesso, troppo spesso, vi scordate completamente. Auguri.                                     

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

Riprendo il tema dei Senatori “a vita”, già oggetto di un mio intervento su La Verità di ieri, segnalando che è mia ferma convinzione che essi non dovrebbero votare la fiducia al Governo in quanto privi di legittimazione popolare. Forse non tutti sanno, infatti, che il Senato del Regno, che era composto da altissime personalità della vita politica, istituzionale e culturale del Paese, “nominate” dal Re, “Camera di garanzia, di riflessione e di revisione – una posizione che politicamente tendeva a mettere l’Assemblea vitalizia in ombra rispetto a quella elettiva” (Vittorio Di Ciolo, Senato, In Enciclopedia del Diritto, vol. XLI, 1166), non dava la fiducia al Governo. Il Senato, spiega Santi Romano (Il Diritto Pubblico Italiano, Giuffrè, Milano, 1988, 133), “non è organo rappresentativo del popolo, com’è invece l’altra Camera” e pertanto solo l’assemblea elettiva si riteneva fosse legittimata, in virtù del voto popolare, ad esprimere tale scelta. Nella Costituzione repubblicana i Senatori a vita, sulla base dell’art. 59, comma 2, sono “nominati” dal Presidente della Repubblica tra i “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. La scelta del Presidente della Repubblica non è in alcun modo condizionata da una proposta governativa, in quanto il decreto di nomina è controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 89, comma 2, della Costituzione. Al contrario, vigente lo Statuto Albertino, il decreto reale di nomina era adottato previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, n. 9, R.D. 25 agosto 1876, n. 3289 e 2 R.D. 14 novembre 1901, n. 466), controfirmato dal Ministro dell’interno e registrato alla Corte dei conti. Dal momento della comunicazione della nomina da parte del Presidente del Senato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del Regolamento, i Senatori a vita acquistano le prerogative della carica e tutti i diritti inerenti alle loro funzioni. Con la conseguenza che, secondo la dottrina (Vittorio Di Ciolo, cit. 1196), una volta immessi nell’esercizio delle loro funzioni, sono equiparati ai senatori elettivi sia sul piano formale che sostanziale, “per cui nessun obbligo, nemmeno di correttezza, incombe quindi sui senatori a vita di astenersi dal voto, anche quando quest’ultimo si riveli decisivo ai fini dell’adozione o reiezione di un provvedimento all’ordine del giorno”. Dissento da questa interpretazione, convinto che le ragioni per le quali i senatori del Regno non davano la fiducia al Governo siano valide anche nell’ordinamento repubblicano in conseguenza della mancanza di una legittimazione popolare che sola può giustificare l’espressione di un consenso ad una “questione di fiducia” posta dal Governo. Ritengo che, pur In assenza di un impedimento formale, personalità che hanno illustrato la Patria per “altissimi meriti” dovrebbero sentire il dovere di non partecipare alle votazioni che hanno ad oggetto la fiducia al governo. Dovrebbe, infatti, essere nelle corde di un personaggio di tale levatura morale una sensibilità istituzionale per la quale è evidente la differenza fra chi è nominato e chi è eletto. Non è un fatto formale. È una delle regole fondamentali della democrazia rappresentativa, nella quale la sovranità appartiene al popolo “che la esercita nelle forme” della Costituzione (art. 1), cioè con il voto.