COMITATI DI AFFARI
di Giuseppe Borgioli
Le elezioni americane hanno incoronato Joe Biden, con il presidente uscente Donald Trump che chiede il riconteggio dei voti negli stati dati sino ieri in bilico dove il voto per posta è stato massiccio, sopra ogni previsione. Questa storia del voto per posta meriterebbe un discorso a parte. Come la più grande democrazia globale abbia istituzioni arcaiche. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti uno dei due candidati non riconosce la vittoria dell’altro. Due coinquilini alla casa Bianca sono troppi. È fuor di dubbio che Trump si sia trovato contro tutto l’establishment americano dalla finanza ai giornali, alle televisioni, all’industria, ai rappresentanti del partito repubblicano già emarginati dal nuovo indirizzo politico.Joe Biden è un moderato per definizione e vocazione. È il “Forlani” in versione nord-americana che ha ricoperto questo ruolo alla vice presidenza di Obama e che in molte occasioni della sua lunga carriera politica ha dato prova di duttilità e di capacità di adattamento alle situazioni. È il presidente delle contrattazioni con un curriculum degno del rispetto di tutti. È una tazza di rassicurante di camomilla dopo la scossa di Trump. Serve questo agli Americani? Serve questo uomo all’Occidente malato e al mondo? È troppo presto per dare pareri. Il mondo è sempre più tripolare. Insieme agli Stati Uniti, Cina e Unione Sovietica avanzano le loro candidature alla leadership globale. L’Europa è solo una comparsa che ha un vocabolario di buone parole ma non ha risorse per farle valere. Su questo mondo turbolento innumerevoli guerre locali o regionali innestano conflitti tradizionali.La quasi vittoria di Joe Biden ha un antefatto che non si può ignorare. Il vice presidente di Obama è stato prescelto per far fuori Trump. È una specie di “comitato di affari” i Clinton, lo stesso Bush, altri esponenti repubblicani della vecchia guardia hanno valutato il presidente Trump troppo ingombrante per muoversi in un salotto di porcellane come il mondo di oggi. Meglio Biden con il suo passo felpato, con il suo agire sotto traccia, con la sua prudenza diplomatica. Il capitale finanziario e industriale ha bisogno di questo. Basta risse. Wall Street ha capito che Trump non poteva più essere il candidato ad hoc. Così il povero Joe Biden è diventato un giocattolo nelle mani nella mai di soggetti estranei alla stessa dialettica politica. In America è cambiato poco, si è tornati ai vecchi modi gentili, alle alleanze tradizionali, alle rassicurazioni dei sorrisi e delle strette di mano che fanno prevalere il buon senso. La Cina che sembra diventare una falsa incognita della politica americana di Biden è pur sempre il maggior acquirente del debito pubblico americano. In più la Cina ha bisogno della tecnologia americana, soprattutto militare. Non si è una potenza globale con un parco risibile di porta aerei. Anche la Cina con il suo monoteismo politico è un gigante dai piedi di argilla. Alta ricerca in laboratori sofisticati da cui può uscire il virus della pandemia. Che è quasi peggio di una guerra batteriologica dichiarata in anticipo.
di Salvatore Sfrecola
(tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
Il giorno nel quale si festeggiano insieme l’Unità d’Italia e le Forze Armate suggerisce alcune considerazioni di fondo. La data è quella della conclusione della Prima Guerra Mondiale, per gli italiani la “Grande Guerra” (1915-1918), quella che ha completato l’unità nazionale, come l’avevano immaginata ed auspicata le migliori menti del Risorgimento, con Trieste e Trento annessi alla Madrepatria. Fu subito festa delle Forze Armate, festa di popolo perché i soldati i armi che hanno combattuto quella guerra erano italiani che, per la prima volta, combattevano fianco a fianco, dopo che per secoli “calpesti, derisi” avevano combattuto tra loro agli ordini di ottusi signorotti e capitani del popolo, in realtà per gli interessi di potenze straniere, così mortificando il senso di appartenenza. È facile cadere nella retorica nel ricordare quegli eventi, tra squilli di tromba, canti popolari e sventolio di bandiere, nel risentire il Bollettino della Vittoria diramato dal Comando Supremo alle 12.00 di quel 4 novembre 1918: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. E poi la descrizione della travolgente avanzata delle nostre armate. Fu davvero una guerra di popolo. E se l’Esercito, magna pars in quella guerra che giorno dopo giorno andava configurandosi come tutta diversa da quelle che avevamo conosciuto nell’800, evoca il popolo, questo, a sua volta, evoca la Patria, la terra dei padri. Un po’ di retorica, a volte, non guasta, dà corpo, esalta gli ideali più razionali, quelli messi a punto con il concorso di filosofi, politologi, storici. Questo spirito di condivisione dei valori comuni, anche nella distinzione delle scelte politiche, ha un grande valore, favorisce l’abbandono degli egoismi di parte in funzione del perseguimento degli interessi comunitari specialmente nei momenti di emergenza, come nel caso presente, nel quale una diffusa infezione virale esige misure drastiche di limitazione delle libertà individuali, anche di lavoro ed economiche, ma nella prospettiva del superamento dell’emergenza e della ripresa economica e sociale. Se questo è vero, se Forze Armate sono il popolo in divisa e se il popolo è Patria è stato un grave errore l’aver soppresso questa festa significativa che non ha mai avuto un sapore nostalgico del nazionalismo aggressivo. I cittadini, soprattutto i ragazzi, che visitavano negli anni scorsi le caserme, le base navali e aeroportuali erano affascinati da carri armati, incrociatori, aerei ed elicotteri ma non esaltavano la guerra che, sappiamo, “l’Italia ripudia… come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” . Anche perché vedevano nelle Forze Armate quelle strutture dello Stato efficienti che aiutavano i terremotati e gli alluvionati ed oggi, nella condizione di lotta al virus, sarebbero chiamati ad ammirare, sia pure a distanza di sicurezza, alcune delle tante strutture allestite dalla Sanità Militare, compreso l’Ospedale degli Alpini e capire che le Forze Armate sono lo Stato e la Patria. Il 4 novembre è una festività soppressa, nonostante il suo significato unificante e non divisivo, e qui emerge la modestia culturale della classe politica, tutta a partire dal 1946, la quale non si considera erede del movimento nazionale che ha unificato l’Italia ad opera di uomini di straordinario impegno politico e non riesce a percepire il valore democratico del popolo in divisa. È una grave mancanza di valori identitari che darebbero ai giovani il senso di un impegno nella società, professionale e politico, nel senso più nobile di un servizio alla comunità. Del resto la scuola, dove si coltivano cultura e insegnamenti professionali, è la cenerentola nel bilancio dello Stato, da anni.Quanti errori hanno commesso i nostri politici, soprattutto allontanando dalla vita pubblica coloro che avrebbero la possibilità di contribuire allo sviluppo della Nazione. Si sono erti in casta autoreferenziale per conquistare e mantenere il potere spesso lontano dalla gente comune della quale non comprendono i problemi, perché loro non ne hanno, non devono gestire attività imprenditoriali o commerciali bloccate mentre altrove, dalla Germania alla Francia agli Stati Uniti i loro colleghi continuano a produrre ed a commerciare, non devono preoccuparsi della clientela degli alberghi, dei ristoranti e dei bar che, privati dei turisti italiani e stranieri, stentano a sopravvivere. Non sentono il dolore delle famiglie, il disagio degli studenti e neppure colgono il pericolo di una protesta che dilaga e che potrebbe infiammare ancor di più le piazze delle nostre città. Sono lontani, non sanno e non studiano, come ha dimostrato il dibattito parlamentare alla Camera ed al Senato sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Un senso di pena per la mancanza di idee per la ripetizione di slogan e luoghi comuni, mentre Giuseppe Conte affermava che le misure di contenimento per gli anziani erano preordinate a metterli al riparo dal contagio, gli anziani che sono stati “protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico”. Non sa far di conto il Premier Conte, quei protagonisti di un momento felice della nostra storia dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale operarono negli anni ‘50-’60. Ammesso che avessero tra i 40 e i 60 anni, oggi il più giovane ve avrebbe almeno 100!
LA RABBIA DEI MODERATI
di Giuseppe Borgioli
La repubblica non è fondata sul lavoro? Si sa che l’assemblea costituente si divise aspramente sul questo basilare articolo. La sinistra puntava i piedi sulla dizione che la repubblica è fondata sui lavoratori. Questa proclamazione sembrava riecheggiare la formula sovietica con la supremazia fondata sui soviet. Da qui il compromesso costituzionale. Quelli che abbiamo visto protestare sulle piazze e sulle strade delle città Italiane erano e sono lavoratori che hanno visto perdere il lavoro senza nessuna sicurezza con la prospettiva di un misero ristoro pecuniario. Sono lavoratori e imprenditori che non chiedono denaro o sussidi. Forse è la prima volta che assistiamo a una proposta del genere. La loro protesta è fatta di dignità. Questo atteggiamento collettivo disturba i nostri governanti che sono abituati a ben altre richieste. Questo stato d’animo rassomiglia moto alla spinta che mosse il quaranta mila della Fiat che scesero in piazza per rivendicare il proprio lavoro. Anche allora la stampa e le televisioni paludate cercarono di minimizzare l’evento, anche allora tirarono fuori la storiella di infiltrazione estranee che non c’erano. Si disse che la marcia silenziosa del quarantamila di Torino era stata promossa e organizzata da Cesare Romiti che era l’amministratore delegato della Fiat. Balle. La marcia della ribellione su spontanea fu il rifiuto xi una logica che avrebbe avuto come conclusione l’eutanasia del lavoro. L’anticipazione di una economia del sussidio generalizzato che è sempre stato l’obiettivo dei l’obiettivo dei sindacati e dei partiti. Le cose andarono diversamente e per un po’ di tempo la nostra industria e la nostra economia si salvarono. La pandemia di oggi ha risvolti più subdoli che è difficile spiegare e che fatichiamo noi stessi a capire. Il professor Massimo Galli che è uno dei virologi più agguerriti in una intervista televisiva si è lasciato – se non abbiamo capito male – sfuggire una frase che non avremmo avuto piacere di sentire, una voce dal sen fuggita. Il Professor Galli ha detto (e pensato) che in dei conti la pandemia non ha visto morire nessuno di fame per avvalorare il concetto che per ora si muore di virus. Auguro di cuore che né lui né suoi familiari si trovi mai nella situazione di conoscere il morso della fame, della perdita di dignità, dell’indigenza che porta a stendere la mano a chi ha vissuto onestamente del proprio lavoro. Il presidente della repubblica nella sua olimpica serenità probabilmente anche lui non ha declinato nella sua vita la parola fame. Il suo invito tardivo alla collaborazione e all’unità nazionale avviene fuori tempo massimo. Vedremo l’esito delle elezioni americane che aiuteranno a trovare un bandolo della matassa. Per ora è buio completo e. Nessuno sa quando e come ne usciremo.
di Salvatore Sfrecola
( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)
La Corte costituzionale ha deciso a proposito della decurtazione delle pensioni voluta dal Governo giallo-verde Conte 1. E, all’esito dell’udienza del 20 ottobre e della conseguente Camera di consiglio, ha emesso il comunicato. Il titolo: “Pensioni di elevato importo: legittimo il “raffreddamento” della rivalutazione per un triennio, illegittimo il “contributo di solidarietà” oltre il triennio”. Ed ecco il testo:“La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Milano e dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, in relazione alle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di bilancio 2019 a carico delle pensioni di elevato importo. Le questioni avevano ad oggetto la limitazione della rivalutazione automatica per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a determinati importi (“raffreddamento della perequazione”) e la decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”). In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che è stato ritenuto legittimo il “raffreddamento della perequazione”, in quanto ragionevole e proporzionato. È stato ritenuto legittimo anche il “contributo di solidarietà” ma non per la durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato. Pertanto, il contributo rimarrà operativo per tutto il 2021. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane”. Non è bene commentare una sentenza che ancora non c’è. Infatti non lo facciamo, ma dal comunicato stampa possiamo trarre qualche elemento per brevi considerazioni con riguardo alle due misure oggetto del giudizio, il “raffreddamento della perequazione” e la “decurtazione percentuale per cinque anni delle pensioni superiori a 100.000 euro lordi annui (“contributo di solidarietà”)”. Ora non è dubbio che, pur in relazione alla finalità di “contenimento della spesa previdenziale”, le due “misure” sono molto diverse. L’una incide sulla “rivalutazione automatica” per il triennio 2019-2021, con una limitazione dell’aspettativa assicurata ai pensionati dalla legge che ne ha disciplinato il trattamento pensionistico, l’altra, il “contributo di solidarietà” attua un vero e proprio esproprio di parte della pensione di quanto previsto dall’ordinamento in relazione ai contributi obbligatori versati negli anni nei quali il dipendente ha prestato servizio, spesso anche al di là del periodo utile a pensione (40 anni). In tal caso contribuendo obbligatoriamente ad una esigenza di solidarietà. Orbene, alla provvista delle risorse necessarie per la spesa pubblica, compresa quella previdenziale, gli stati ricorrono di regola a carico della fiscalità generale che consente la modulazione del prelievo in relazione all’ammontare del reddito, con distribuzione equilibrata sulla platea dei contribuenti. Invece, con una disposizione, alla quale con ardua motivazione la Corte ha in passato negato la natura sostanzialmente tributaria, il “contributo di solidarietà” è stato inquadrato dal Giudice delle leggi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge ex art. 23 Cost. (tra le quali ricorrono senza dubbio i tributi), avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori, e di realizzare “un circuito di solidarietà interna al sistema previdenziale, evitando una generica fiscalizzazione del prelievo contributivo” (Corte cost., ord. n. 22 del 2003; sent. N. 178 del 2000).
Contemporaneamente la Corte aveva chiarito che, in linea di principio, il contributo di solidarietà non deve esorbitare dai “limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016). Con riserva di commentare quel che si leggerà nella sentenza, fin d’ora sembra opportuno sottolineare che il principio di affidamento non ha rilevanza esclusivamente interna, tra il pensionato e lo Stato, sia pure impersonato dall’ente previdenziale. Il mancato rispetto del patto intercorso tra lo Stato ed il dipendente, il quale in corso di attività ha puntualmente versato i contributi previdenziali previsti, nell’aspettativa, giuridicamente tutelata, di ottenere al momento del collocamento a riposo un determinato trattamento pensionistico, mina gravemente l’immagine e la credibilità dello Stato anche agli occhi degli investitori in titoli pubblici, i quali possono essere indotti a ritenere non affidabile uno Stato che manca alla parola data nell’ambito di un rapporto nel quale ad una prestazione (l’attività lavorativa del dipendente) deve necessariamente corrispondere una retribuzione attuale (in costanza di lavoro) e differita (in quiescenza), come definita nella legislazione. Ricordiamo anche come la Corte avesse sostenuto che un contributo sulle pensioni costituisce comunque una misura del tutto eccezionale, “nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza” (Corte cost., sent. n. 173 del 2016), cosa che, invece, è puntualmente avvenuta con la normativa oggetto del giudizio. Per essere solidaristico e ragionevole la Corte aveva segnalato che “le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura” (in termini ancora Corte cost., sent. n. 173 del 2016). In sostanza deve considerare lo standard di vita della persona, come realizzatosi nel tempo attraverso il trattamento stipendiale e, poi, quello pensionistico. Cosa che la dimensione del prelievo non assicura. Leggeremo, dunque, nella sentenza come la Corte, che aveva già ritenuto “al limite” della costituzionalità il precedente contributo di solidarietà istituito con l’art. 1, comma 486, della l. n. 147 del 2013, pur “misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta”, può aver giustificato un ulteriore contributo di solidarietà, peraltro con aliquote molto più elevate di quelle previste dal precedente e per un periodo ben più lungo, con l’effetto di trasformare un istituto eccezionale in uno strumento ordinario di alimentazione del sistema di previdenza, in manifesta violazione dei canoni di proporzionalità, ragionevolezza e legittimo affidamento. E, dunque, ha previsto che tre anni debba essere il limite, con riferimento “all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato”, che è evidentemente uno richiamo metagiuridico che mina l’affermata natura non tributaria della norma, in quanto il bilancio dello Stato si alimenta proprio da entrate di natura fiscale. La perdurante crisi del sistema previdenziale non può infatti ritenersi da sola sufficiente a giustificare la compressione del legittimo affidamento dei pensionati alla percezione del trattamento previdenziale come effettivamente già maturato ex lege. Al contrario, i medesimi soggetti che si sono visti gravati del contributo di solidarietà per il triennio 2014-2016, vedranno ancora una volta decurtato, e in misura nettamente superiore, i dovuti emolumenti pensionistici anche per il prossimo quinquennio 2019-2023. E c’è da scommettere che non sarà l’ultima volta.
Sicché la misura costituisce una mera “tassa sulla ricchezza”, rappresentata dall’entità della pensione percepita. Tassa evidente anche nelle dichiarazioni con le quali i decisori politici hanno accompagnato la scelta legislativa, insistendo sulla definizione di “pensioni d’oro”, così intendendo colpire i percettori di tali assegni, neppure per esigenze immediate del sistema previdenziale, considerato che le somme prelevate vengono accantonate, ma sostanzialmente per “punire” coloro che quegli assegni avevano percepito. Ci sarà adesso chi gioirà per questa pronuncia, trascurando che il mancato riconoscimento dei diritti maturati da cittadini che hanno versato allo Stato per anni contributi, a fronte della una promessa ad ottenere una determinata pensione, in violazione di principi elementari di diritto, attua una lesione che apre la strada ad altre possibili manomissioni di diritti fondamentali di natura economica che la Corte costituzionale avrebbe dovuto tutelare. Invece questo Giudice, che nasce politico, in quanto per due terzi formato da soggetti nominati o eletti dalla politica, con la giustificazione di essere in tal modo idoneo a percepire il comune sentire della gente rispetto alle regole della Costituzione, appare progressivamente sempre più sensibile alle esigenze della politica in un contesto, quello del circuito Governo – Parlamento dominato da una casta di una modestia mai in precedente vista. Che fa temere, in relazione alle crescenti difficoltà dell’economia e della finanza, nuove possibili manomissioni di diritti acquisiti. Di qui il titolo “Non c’è un Giudice a Roma”.
di Giuseppe Basini
Tutto deve essere vietato, tranne ciò che dev’essere obbligatorio. Di legge e di fatto. Questa sembra la tendenza in atto in questo primo scorcio di secolo. I diritti personali, i soli – ricordiamolo sempre – davvero di tutti e per tutti, sono sempre più minacciati e questa pare oggi essere la prospettiva di molti Stati, anche in quello che una volta era l’Occidente libero. Naturalmente agli occhi dei liberali classici (che hanno ben poco a che spartire con i “liberal”, spesso solo socialdemocratici tartufi) la tendenza non può che apparire molto pericolosa per le nostre libertà, ma forse è perfino peggio di quanto sembri. Un atteggiamento mentale molto diffuso è infatti quello di considerare le società moderne, basate su modelli in linea di massima democratici volti a realizzare uno stato di diritto, come un decisivo passo in avanti nella qualità e dignità della vita rispetto alle società antiche, quasi sempre prive di diritti individuali garantiti. Del pari il senso comune tende in Occidente a considerare i moderni Stati totalitari come una riedizione attuale delle antiche civiltà assolutiste, traendone una convinzione tutto sommato consolatoria, dato che gli Stati totalitari, dove esistono, sarebbero in fondo una cosa con cui gli uomini erano già abituati a convivere. Tale atteggiamento è basato sul semplice confronto formale tra le leggi arbitrarie degli antichi Stati e le costituzioni delle moderne nazioni, tra lo “status” giuridico dell’assoggettato, servo della gleba o schiavo, con quello del cittadino. È chiaro che su queste premesse, tra l’essere considerato praticamente proprietà del dominus o l’essere un uomo libero e fonte teorica prima della legittimità del potere, nessun dubbio è possibile, il salto di qualità sarebbe veramente enorme e bisogna consentire con tale opinione dominante. Se però si passa da un’analisi solo formale delle società e degli Stati, ad una sostanziale (che tenga conto cioè delle vere condizioni in cui queste società funzionavano e funzionano) le cose cambiano radicalmente. Pensiamo a un contadino lombardo nell’Europa dominata dagli Ottoni Tedeschi attorno al Mille, in teoria egli era un servo della gleba, legato alla terra proprietà del suo signore e, da lì risalendo, dell’imperatore, in una società organizzata a piramide in cui i ruoli erano rigidamente fissati astraendo completamente dal principio di libertà, nella pratica però l’oppressione effettiva che questa gerarchia esercitava sui singoli era drasticamente limitata da due fattori: l’estrema limitatezza delle strutture tecniche e la grande scarsità di popolazione. Di fatto il contadino di cui si parlava non aveva, tranne che in caso di guerra nella propria regione, nessuna interazione anche indiretta con il monarca assoluto (di cui anzi talvolta ignorava perfino l’esistenza). Non esistendo strumenti di comunicazione di massa come posta, radio, giornali, internet, era assai poco influenzato dall’alto, non esistendo una polizia centralizzata, schedari, organizzazioni collettive, tutto il suo rapporto con il potere si esauriva nel rapporto di dipendenza con il signorotto locale e con il prete (talvolta coincidenti), rapporto che consisteva poi, nell’essenziale, nell’andare a chiedere favori se il signore era magnanimo o nel farsi notare il meno possibile se era avido e prepotente. In un’epoca in cui il concetto di libertà personale come diritto innato era sconosciuto ai più, essa era vista come un problema esclusivamente connesso con la personalità del signore feudale, venendo a dipendere dalla buona volontà di quest’ultimo, che, quasi sempre, non aveva una cultura molto superiore ai suoi soggetti. Inoltre l’assenza di possibilità tecniche, quali quelle cui noi siamo abituati, aveva come logico corollario l’assenza dei bisogni che da esse sono scaturiti, senza mezzi di locomozione veloci e strade rapide aveva assai meno significato la libertà di circolazione, senza stampa la libertà di espressione aveva un significato solo formalmente uguale all’odierno e l’assenza di significative concentrazioni di cittadini rendeva quasi inesistente la spinta verso l’associazionismo politico. Il secondo e principale motivo, per cui un Europeo appartenente ai ceti popolari non poteva risentire molto, in concreto, della struttura autoritaria della società feudale, era la grande scarsità della popolazione. In un’epoca in cui le città erano niente più che grossi borghi, la maggior parte della popolazione viveva in campagna o in piccoli paesi sperduti tra monti e foreste, dove le persone erano poche e non ingeneravano quella sensazione di soffocamento che si prova quando si ha a che fare con moltitudini di esseri spesso desiderosi di fare le stesse cose (e talvolta allo stesso momento) e dove scarse erano le probabilità di incontrare qualcuno che non fosse conosciuto da anni. La vita aveva così il ritmo familiare delle cose legate alla terra e ad una ristretta cerchia di persone e l’uomo non correva il pericolo di smarrire la sua identità nella massa anonima. In altre parole il sistema autoritario era in buona parte vanificato dalle condizioni reali che assicuravano, pur senza la garanzia delle leggi scritte, un certo limitato, ma effettivo, grado di autonomia e libertà. Oggi invece la situazione è radicalmente cambiata e l’imponenza dei mezzi a disposizione dei governi può rendere concreto ogni disegno liberticida. Posti di blocco, controlli d’identità, schedature, anagrafi, polizie centralizzate, armi sofisticate, droni, lo Stato collettivista ha trasformato grandi scoperte tecniche in strumenti attraverso i quali la volontà del Tiranno e dei suoi rappresentanti, può effettivamente essere trasmessa dal vertice alla base, fino a regolare rigidamente la vita di ogni singolo cittadino, fino a spiare, giudicare, soffocare e punire ogni comportamento deviante. Radio, televisione di Stato, grandi network, ammaestramento scolastico, sono tutti canali attraverso i quali, se sapientemente orientati, può essere più facilmente ottenuto l’ottundimento delle coscienze, la scomparsa del senso critico e l’acquisizione di un consenso totalitario e massificante. In questo modo la tecnica ha enormemente modificato la situazione esistente all’epoca degli Ottoni. Del pari l’enorme aumento della popolazione e l’urbanesimo hanno fatto sì che l’uomo non si trovi più a vivere la sua vita in agglomerati di poche persone, ma al contrario si trovi in costante contatto con un grande numero di persone all’interno delle strutture di massa (città, fabbriche, uffici, trasporti) e che la collettività giochi nei suoi confronti un ruolo molto più decisivo che nel passato, obbligandolo a seguire determinate regole e moduli di comportamento, senza che egli abbia più la possibilità, che conservava nel passato, di usufruire di fatto di un suo spazio privato per vivere e in cui potere, assieme a poche persone, seguire proprie regole. Come si vede il problema di avere delle libertà riconosciute e statuite in modo formale appare assai più importante in una società moderna, in cui la tecnica rende il potere effettivo, che in quelle antiche e ciò mette in crisi la riposante convinzione di un generale progresso verso forme di società più civili, in quanto l’evoluzione verso forme statuali garantiste e democratiche è forse riuscita a mantenere un’uguale spazio di libertà per le persone e non come in genere si crede, ad aumentarlo. Si potrebbe anzi aggiungere che, storicamente, molte evoluzioni in senso liberal-garantista sono state determinate proprio dal presentarsi di nuove esigenze create dal progresso tecnico. L’assoluta esigenza di una struttura democratica del potere si è presentata nella storia nel momento in cui lo Stato diveniva in grado di costringere davvero il singolo, la diffusione dell’istruzione nel momento in cui diveniva indispensabile per vivere in società, la divisione dei poteri nel momento in cui gli strumenti dell’esecutivo divenivano troppo potenti, la libertà di stampa nel momento in cui diveniva strumento principe di comunicazione e persuasione. In questa visione, però, i Paesi retti oggi con un sistema totalitario, non sarebbero più dunque solo la riedizione moderna di un vecchio e tragico sistema di governo, ma, per la possibilità di rendere molto più efficace e di tutti i giorni la loro tirannia, un vero e radicale peggioramento. Insomma, sulla base del ragionamento svolto, si può affermare che il problema della tirannide assume ai giorni nostri un rilievo ben maggiore che in passato e inoltre non riguarda più solo le dittature conclamate, ma anche tante pseudo democrazie o “democrature”, che riducono le elezioni a un rito formale utile per mascherare con una democrazia finta una perdita di libertà personale vera. Le grandi potenze militari potrebbero trascinare oggi in una distruzione di massa praticamente immediata le loro intere popolazioni e quelle di tutti i Paesi loro assoggettati e, per questi ultimi, senza che nemmeno i loro governi ne avessero reale e tempestiva coscienza, le grandi organizzazioni internazionali decidono e dispongono al di sopra di tutti e soprattutto al di sopra di ogni reale principio democratico, mentre le multinazionali (e oggi le più aggressive sono cinesi) il problema non se lo pongono neppure, provano a imporre e basta. Gli Stati e i loro governi, per recuperare parte del potere internazionalmente sottratto, accoppiano i peggiori difetti dello statalismo burocratico ad una mentalità profondamente illiberale che, in nome di principi sempre più collettivistici, si fa polizia interna volta ad indirizzare e standardizzare i costumi e i comportamenti attraverso l’esaltazione, come prima virtù civica, dell’obbedienza. “Portare tutto il popolo al governo di sé stesso” non viene più correttamente inteso come massimo possibile autogoverno di ognuno su se stesso e il proprio ambito, come dovrebbe essere in una società aperta, ma come delega totale in bianco ad una struttura, idealizzata come “tutti noi” quasi in maniera metafisica, chiamata Stato, mentre chi esiste veramente e cioè il governo e la sue burocrazie, impone a tutti i cittadini quelle che sono le volontà e gli interessi dei gruppi di potere organizzati (e la tendenza sembra quasi volersi estendere fino ad ipotizzare in prospettiva, l’incubo del Super Stato Mondiale). Ripetiamolo, ci danno una democrazia collettiva finta e per pochi, al posto di una libertà individuale vera e per tutti. Questa involuzione, in movimento sempre più avvertibile dai primi anni del Novecento, ha trovato una forte accelerazione nelle grandi guerre, con una distruzione di vite, legami, tradizioni, consuetudini, che, con la giustificazione della “necessità” ha reso più facile la spoliazione dell’autonomia delle persone, trasformate in docile carne da cannone (indipendentemente dalla “democraticità” dei regimi) e, a seguire, in cittadini meno indipendenti, come ad esempio con la progressiva de-monetizzazione dell’oro e le limitazioni al suo commercio, che hanno reso difficile sfuggire alle scelte esclusive delle banche centrali, divenute sempre più uniche padrone dei valori reali di ciò che uno porta in tasca (e oggi si vuole pure abolire il contante per “tracciarci” meglio). Tutte le crisi, vere o presunte, sono state recente causa e alibi di grave perdita di libertà personale, una libertà che solo nell’Ottocento era stata finalmente riconosciuta come un diritto naturale ed inalienabile e non come semplice concessione revocabile. L’enorme efficienza dei nuovi ritrovati tecnici e principalmente dei computer collegati in rete, ha poi permesso, ad un potere che non ha mai smesso di volersi considerare assoluto (e che tende addirittura ad affidarsi a ciechi algoritmi), di dirigere, condizionare e massificare i cittadini e di soddisfare questa volontà di dominio senza rinunciare alla produttività di un mercato formalmente aperto, portando come risultato ad una ibridazione tra tendenze totalizzanti che definisco, per provare a rispettare il significato delle parole, Capital-Comunismo. Contro il nuovo Leviatano Hobbesiano globale, sono sorte per fortuna delle resistenze spontanee, che potremmo definire come liberal-nazionali per la loro difesa dei diritti della persona e delle comunità, ma che non si sono ancora rivelate sufficientemente efficaci, perché sporadiche e non collegate tra loro. L’ironia dei tempi vuole che forze sorte per contrastare la globalizzazione massificatrice, debbano coalizzarsi internazionalmente tra loro per resistere davvero ad uno strapotere lontano e pervasivo, però si può fare, si può dar vita ad una “Internazionale della Libertà” in cui si possa uniti contenere la minaccia globale almeno nelle conseguenze più liberticide e poi ognuno padrone a casa sua in tutto ciò che sia possibile. Ancor più nel nostro continente, dove, così come partiti a chiara connotazione autonomistica hanno compreso che solo all’interno di una forte nazione possono sperare di difendere il focolare tradizionale, risulta anche evidente che è solo in un’Europa realmente federale e democratica (e difesa) che si possono salvaguardare le storie dei popoli che la compongono. Purché però si applichi un principio liberale di sussidiarietà, che l’Europa cioè non faccia ciò che possono fare le nazioni, queste non si sostituiscano ai poteri locali e che questi ultimi non ritengano di poter imporre, ai liberi cittadini e alle loro proprietà, regole e comportamenti assurdamente irreggimentati, spesso secondo mode o semplici opinioni personali di sindaci e mini governatori guappi, che, alla lunga, potrebbero innescare forme di disobbedienza civile alla Thoreau. E che le crisi, dalle guerre alle pandemie, non siano pretesto per il ritorno a poteri assoluti, come purtroppo sembra dato di vedere con il nuovo coronavirus. Il Covid-19 è una pericolosa malattia e come tale va trattata, non è un castigo di Dio per i nostri peccati e si cura aumentando i fondi e snellendo le procedure per la ricerca di vaccini e farmaci antivirali e insieme rafforzando i reparti di terapia intensiva, non con provvedimenti di polizia volti più a modificare i costumi criminalizzando i cittadini, che a prevenire realmente e questo tanto per far vedere che si fa qualcosa, quando invece si distrugge solo l’economia e la vita civile (oltre a trascurare di fatto tante altre gravi malattie). Mentre le statistiche, testarde, indicano una diffusione della pandemia, oltre che al 95 per cento asintomatica, largamente indipendente dai differenti tentativi di quarantena (pandemia virale, ricordiamolo, non batterica) e, anzi, in Europa, i Paesi più colpiti siano quelli che hanno segregato di più, si è però diffuso un comportamento imitativo intollerante, volto a criminalizzare brutalmente chi, virologo, politico, scienziato o cittadino comune, osi esprimere dei dubbi sulla via, più politica che sanitaria, finora seguita. Vorrebbero, per questa strada, espellere la morte dalla vita, ma così riusciranno solo ad espellere la vita dalla vita, riproponendo l’obbedienza come prima virtù civica al posto della libertà. Il presidente del Consiglio italiano, con aria paternalistica, è arrivato a dire che non pensa di mandare normalmente la polizia a controllare dentro le abitazioni private e ciò non è per niente rassicurante, ma è invece gravissimo, perché significa che, per ora se ne astiene, ma crede di averne un diritto che assolutamente non dovrebbe avere. Così come non avrebbe il diritto di governare esautorando il Parlamento, attraverso l’uso di decreti emergenziali della presidenza del Consiglio, in luogo di decreti legge, altrettanto rapidi, ma sottoposti però alla controfirma del presidente della Repubblica e al controllo del Parlamento. E questo non è nuovo, i regimi non hanno mai coltivato il dubbio, che pure è lo stimolo della Scienza e il sale della democrazia, ma hanno sempre cercato il “nemico del popolo” ed è questo che ha prodotto lo spaventoso costo umano delle dittature e oggi rischia fortemente di riproporsi dappertutto, se anche le democrazie divengono “democrature”, profittando dello spirito gregario di popolazioni incautamente terrorizzate. Può succedere, nelle vicende umane, che davvero si debba dar luogo, nelle dovute forme, a circoscritti provvedimenti restrittivi, ma per vera, assoluta e razionale necessità, non perché si consideri, alla fin fine, la libertà come cosa di poco o nessun conto. Sembrano voler vuotare il mare col cucchiaio, invece di fare navi più solide. La scienza, quella vera, che procede per dimostrazioni ed esperimenti e non per ipotesi urlate, troverà, il prima possibile, una cura efficace per la malattia, speriamo che, per allora, democrazia, libertà ed economia, non siano inutilmente morte. Contemporaneamente all’eclissi dei valori di libertà si assiste, da tempo, all’indebolimento di ogni ordine sociale basato su valori di competenza, cultura e tradizione, sostituito da una indifferenziata moltitudine anonima da cui non si emerge più per quella che una volta si chiamava “chiara fama”, ma per semplice notorietà, comunque ottenuta. Calciatori, rockstar, presentatrici, vallette, sono diventati i maître à penser dell’amplificatore mediatico, con grande seguito, ma senza giustificato prestigio. Il denaro, comunque accumulato e lo scandalismo, comunque praticato, diventano i principali segni di distinzione, mentre una diffusa ribellione contro le competenze e l’industriosità, viste come segno di diseguaglianza, tende a distruggere ogni ordinamento spontaneo e a produrre disgregazione, con il risultato che masse disordinate e fanatizzate ogni tanto si scatenano con furia iconoclasta contro ogni ordine non poliziescamente imposto, in una società di cui non rispettano più i simboli e la storia, arrivando a distruggere statue di Cristoforo Colombo o antichi Budda e portando, come risultato finale, alla sostituzione di una società organica, libera e responsabile, proprietaria dei suoi beni e indipendente, con uno “Stato organico”, accentratore, autoritario e spesso servo di istituzioni globalizzate. Anche le più belle conquiste della modernità, come la ricerca scientifica e la medicina, che per la prima volta nella storia hanno cominciato ad emancipare davvero l’uomo dalla fame, dalle malattie e dalla schiavitù indifesa verso il Fato, sono ormai sottoposte a censure ideologiche pregiudiziali da scalmanati inconsapevoli, che mitizzano una natura inabitata e odiano l’opera degli studiosi e dell’homo faber, urlatori che ai vaccini in fondo (e neanche tanto in fondo) preferiscono le segregazioni. Alla fine è sempre la libertà, così come avevamo imparato a conoscerla e a goderla in numero sempre crescente lungo l’arco di un secolo e mezzo, la libertà come diritto e non come concessione, la libertà come reale autogoverno, che rischia davvero di scomparire. La libertà per cui tanti, nei secoli, hanno dato la vita. Una libertà che sembriamo disposti a barattare con la pace, mentre, per questa via, perderemo la libertà ed avremo la guerra. Speriamo che il senso di se stessi (che chierici opportunisti, aspiranti autocrati e religiosi ottusi, chiamano egoismo), la razionalità e l’ottimismo, tornino ad imporsi, magari grazie ad una grande impresa che ci ridia il senso di avere ancora un futuro, come potrebbe essere forse l’espansione nello Spazio, per ritrovare il significato di una vita degna di essere vissuta, crescendo nella libertà. Nessuno sa quando e come ne usciremo, ma, che nel vaso di Pandora, ci sia almeno anche la Speranza.