Il Re di Svezia e l’importanza di un Capo di Stato che non deve rispondere ai partiti

A giudizio dell’Unione Monarchica Italiana dalla Svezia è venuta una lezione di civiltà politica e costituzionale, un Re che offre al mondo l’immagine di un Capo di Stato non condizionato dai partiti. Perché un Re non è eletto da una maggioranza alla quale, naturalmente, deve dar conto delle sue azioni e dalla quale attende la rielezione o la scelta di un collega di partito.

E così, Re Carlo Gustavo XVI va in televisione e denuncia “abbiamo fallito, abbiamo un gran numero di morti e questo è terribile”. La parola di un Re ristabilisce la verità sulla gestione della campagna contro l’epidemia da Covid-19 ed il popolo potrà giudicare l’azione del governo e della sua maggioranza.

Roma,18.12.2020

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

LA GENTE NON CANTA PIU’

di Giuseppe Borgioli  

Che strano periodo di vita attraversiamo…-che incredibile Natale stiamo celebrando con le strade vuote, i negozi visitati da gente che poco rassomigliano alle folle di una volta. Certo, il Natale non è fatto dal consumismo.  Ci Manca la gioia collettiva che possedeva le persone, povere o ricche che fossero.  Anche questa era una componente della religiosità. Non c’è più la gioia della festa, è sostituita dalla paura del futuro. A parte tutte le restrizioni, giustificate o arbitrariamente spuntate nella testa dei nostri fantasiosi governanti, l’atmosfera è cambiata. L’idillio dello scorso marzo, quando all’inizio della pandemia, la gente si riservava sui balconi a scambiarsi i saluti e a cantare, ha lasciato il posto ad un sentimento di vuoto che l’immagine del presidente Conte non riesce più a colmare con le sue buone maniere. Alla fine della favola di Andersen sarà proprio un bambino, nella sua indifesa ingenuità, a svelare l’arcano: il potere è nudo.  I bei vestiti di cui il potere si adornava erano inesistenti, era solo la trovata di due sarti lestofanti. Non so se questa favola si può adattare ai nostri giorni, ai signori della repubblica che continuano a farci la predica e sempre più spesso lasciano scivolare dalle loro labbra la parola ‘patriottismo’. Patriottismo di qui, patriottismo di là. Tutti sono diventati patrioti. Quando i politici della repubblica si sciacquano la bocca con la PATRIA (che è per noi veramente sacra) diffida, porta la mano al portafogli, non ti lasciare incantare dalle sirene. Parlano così spesso di PATRIA che dubito che il loro pensiero non sia rivolto alla tanto vituperata patrimoniale vero colpo di grazia a una delle virtù maggiori del nostro popolo, il risparmio. Ovviamente come sempre, a fin di bene.  Intanto dobbiamo fare i conti con una democrazia bloccata. Quando servirebbe sbloccarla, andare al voto è un lusso. La democrazia, almeno quella elettorale, va bene per i tempi ordinari e diventa la via necessaria per l’emergenza. L’abbiamo imparato dai nostri maestri liberali che la democrazia si attiva nelle emergenze, quando apparentemente non ci sono vie di uscita. Il denaro che arriverà dall’ Europa, se mai arriverà nella quantità attesa, darà una boccata di ossigeno alla nostra economia. Ci vuol ben altro per rimettere in moto (a pieno ritmo) il motore ingrippato dell’industria e del commercio. Lo sblocco dei licenziamenti sarà il momento della verità.  Allora la crisi economica rischierà di aggiungersi a quella economica e finanziaria. Non importa soffrire senza intravedere uno spiraglio. Il guaio è che errori vanno a riparare altri errori, toppe su toppe e il tessuto si lacera con il risultato di rendere il nostro ginepraio sempre più ingovernabile. Qualcuno resterà con l’ordigno del debito pubblico fra le mani. La repubblica meritava un’altre fine. A noi i quesiti a chi dovremo intestare questo fallimento che corrisponde a una guerra perduta senza averla combattuta. Anche sul vaccino il Regno Unito ha dato una piccola lezione di stile. La Regina Elisabetta si sottoporrà come i Suoi sudditi al vaccino: Lo farà rispettando il Suo turno. Un Re non ha bisogna di conquistare il primo piano, spintonando e scavalcando gli altri. Questi giochini lasciamoli alla repubblica e ai suoi uomini.

L’Unione Monarchica Italiana abbruna le Bandiere del Regno d’Italia per la scomparsa del Dott. Arturo Diaconale, direttore de L’Opinione, scrittore, liberale, uomo libero ed amico dell’U.M.I., stringendosi con affetto alla famiglia.

 Dott. Arturo Diaconale

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

L’Amministrazione pubblica italiana ha fama di non essere all’altezza del ruolo. Chi l’ha studiata a fondo sa che “un tempo” non era così. L’Amministrazione ha unificato l’Italia dopo il 1861, ha ricostruito le zone danneggiate dalla prima guerra mondiale e l’intero Paese devastato dalla seconda nelle infrastrutture e nel tessuto urbano. Ed ha contribuito al rilancio dell’economia, al boom economico degli anni 60. Poi la progressiva perdita di efficienza, caratterizzata da procedure incerte nella legittimità e rallentate nei tempi. Come se il tempo non fosse rilevante, come se non fosse un costo per il privato, singolo o imprenditore, il quale si attende da un provvedimento della pubblica amministrazione un vantaggio per la propria attività. Naturalmente tutto questo non è sempre vero, non solo perché generalizzare è, per definizione, sbagliato e ingiusto, ma perché così trascina tutto e tutti nel generale discredito, con effetti psicologici gravissimi sugli addetti agli uffici pubblici, mortificando soprattutto coloro che credono nel loro ruolo di servitori dello Stato. Adesso che nella Pubblica Amministrazione molti lavorano da remoto, cioè da casa, naturalmente quando l’attività cui sono addetti lo consente, c’è chi non crede che questi lavorino effettivamente. Un dubbio che ha avuto anche il professor Pietro Ichino, studioso illustre ed avvocato lavorista, il quale, in un’intervista a La Verità, ha sostenuto che, “nella maggior parte dei casi quello che al ministero della Funzione pubblica chiamano smart working ha nascosto la pura e semplice sospensione dell’attività” perché, richiamando un’affermazione del ministro, “metà delle posizioni non è “smartabile” (copyright della stessa)”. E il Prof. Ichino aggiunge: “ho sempre detto che ci sono anche tanti dipendenti pubblici che in questo periodo … lavorano il doppio di prima. La difesa del prestigio della funzione pubblica passa proprio dalla correzione delle disfunzioni”. E parla di “letargo delle amministrazioni, molte delle quali non rispondono neanche al telefono, sono inaccessibili da remoto, mentre triplicano i ritardi nell’evasione delle pratiche. La cosa più inaccettabile – sostiene il Prof. Ichino – è proprio questa: che ancora oggi il ministero non sia in grado di dire con precisione quali amministrazioni sono attrezzate per l’accessibilità dei propri data-base, quali e quante sono le funzioni che effettivamente già oggi possono essere svolte da remoto, quanti dipendenti pubblici possiedono attrezzatura e la connessione necessarie”. Stimo il Prof. Ichino e condivido le sue analisi ma non giunge al cuore del problema, la responsabilità della classe politica nella definizione dell’ordinamento degli uffici e nella individuazione delle procedure e della dirigenza pubblica nell’organizzazione del lavoro. “Il pesce puzza dalla testa”, si dice in vari dialetti ovunque in Italia ed è una verità ignorata dalla politica. Ai capi degli uffici spetta organizzare il lavoro, dirigere il personale addetto e verificare la qualità e la quantità del lavoro svolto. Detto questo il Prof. Ichino sa bene che l’attuale assetto della pubblica amministrazione, delle carriere e delle mansioni, è conseguenza di Iniziative sindacali che, nel corso del tempo, hanno promosso passaggi di classe e di mansioni sulla base di selezioni assolutamente inadeguate che hanno portato masse di impiegati in posizioni funzionali superiori spesso senza una verifica delle professionalità richieste. In questo modo, la regola secondo la quale nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso e si prosegue nella carriera a seguito di adeguate selezioni è stata nel tempo del tutto disattesa in ragione di una comprensibile esigenza, quella di assicurare al personale, lungo gli anni, un miglioramento economico che in Italia è possibile conseguire esclusivamente attraverso una promozione o un passaggio di livello, come oggi si si dice. Con la conseguenza che, in assenza di una verifica delle capacità professionali in funzione delle nuove attribuzioni, molti si trovano a svolgere funzioni per le quali obiettivamente non sono preparati. Questo vale per tutti i livelli funzionali, dunque anche per la dirigenza pubblica che, secondo l’antico principio del divide ed impera, è stata moltiplicata per soddisfare due esigenze, entrambe estranee all’interesse pubblico: quella dei dipendenti che in questo modo acquisiscono una qualifica altisonante, per esempio di dirigente generale, ed un trattamento economico più remunerativo, e quella del potere politico che dividendo le strutture amministrative controlla meglio la dirigenza. Inoltre, il sistema di nomina dei dirigenti segue gli interessi della politica, nel senso che la nomina è effettuata normalmente per tre anni sicché, al momento del rinnovo, è lo stesso ministro che ha nominato a confermare la scelta. La conseguenza è una limitazione evidente dell’indipendenza del funzionario garantita dalla Costituzione quando afferma che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98). In realtà sono al servizio del politico di turno. Ripeto invano da anni queste considerazioni, convinto che la P.A. sia la risorsa più importante di chi ha responsabilità di governo, strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi indicati nel programma destinato a dar corpo alle politiche pubbliche. Ragione per cui la riforma della P.A., intesa come revisione delle attribuzioni, delle procedure finalizzate all’emissione dei relativi provvedimenti e del personale, dovrebbe essere la prima esigenza dei governi, nel senso che un Esecutivo che non abbia gli strumenti normativi ed il personale adatto aa applicarli inutilmente farebbe progetti perché non li vedrebbe realizzati. Sbaglia, dunque, la politica a denunciare l’inefficienza della P.A. perché l’attuale stato di cose è responsabilità di chi ha gestito il potere, cioè di tutti, perché tutti sono stati al governo negli ultimi decenni, inutilmente.

di Davide Simone

 

Informale e shockante, pirotecnica e sorprendente, la comunicazione di Donald Trump non è mai improvvisata, tantomeno la conseguenza di una mente borderline. Al contrario, risponde a indirizzi ben precisi, spesso legati alla "teoria dl dominio" e alla "teoria dei giochi". Nulla, insomma, è lasciato al caso, dai gesti alle parole, dai post sui social alle espressioni del viso.

Vediamone, adesso, alcuni passaggi fondamentali

La comunicazione "verbale" e la comunicazione "mediatica":

-l'uso di terminologie semplici e in coppie antinomiche (vincente/perdente, buono/cattivo, sveglio/addormentato, ecc)

-l'uso del "caps lock"

-l'uso della punteggiatura enfafica (punti esclamativi, interrogativi, puntini di sospensione)

-l'uso del "present continuous" (ambivalente e generico, quindi duttile)

-l'uso dei superlativi e degli accrescitivi

Tutti questi accorgimenti rientrano nel cosiddetto "KISS" (Keep it simple and stupid), ovvero una strategia per semplificare il discorso, renderlo accessibile alle masse e coinvolgente, facendo leva sull'emotività

La comunicazione non-verbale:

-Trump stringe la mano stando a destra dell'altra persona, apparendo così (anche in virtù della sua altezza e della sua stazza), in una dinamica dall'alto verso il basso, ossia di dominio

-durante la stretta di mano, Trump dà spesso una pacca all'interlocutore, come a mostrare di essere lui il padrone di casa, cioè ancora una volta in una situazione di vantaggio e supremazia

-durante la stretta di mano, Trump tira spesso a sé l'interlocutore, anche qui per sottolineare una posizione di controllo e dominio

-Trump usa le mani come simbolo di virilità. Non manca infatti di decantarne le lodi, definendole grandi e belle. Del suo stesso cervello ribadisce, metaforicamente, le dimensioni, definendolo "grande"

-stando seduto, Trump tiene il busto eretto ("postura di forza") e le mani a guglia. Usata quando ascolta, la scelta delle mani a guglia serve a far vedere di essere lui, ancora una volta, a controllare la situazione, ma qui in un contesto rilassato, come fosse un maestro saggio che lascia parlare i discepoli per poi giudicare quello che hanno detto

-il dito indice puntato, come per impartire ordini e indicare la strada. Con il palmo verso il basso evoca il codice cavalleresco, per la precisione la stoccata, e quindi la sottomissione dell'altro. La cosa è ancor di più enfatizzata quando Trump serra le dita nella morsa della mano, facendo "uscire" solo l'indice

-sia in piedi che da seduto, lo abbiamo accennato, Trump cerca una "postura di forza", anch'essa mutuata dal mondo miliare. In piedi, la schiena è dritta e rigida, le mani lungo i fianchi, senza cedimenti. Seduto, è sempre dritta e le gambe, pur flesse, restano in asse rispetto al resto del corpo. Non le accavalla, non le muove.

-nei momenti di difficoltà, da seduto, Trump assume una posa con le braccia conserte. La schiena è sempre dritta, le braccia davanti al busto, incrociate in modo rigido, le mani che scompaiono evidenziando gli avambracci, il mento alto e un sorriso accennato. Difende e contrattacca.

Secondo i giornalisti e politologi Peter Oborne e Tom Roberts, autori del saggio "How Trump Thinks: His Tweets and the Birth of a New Political Language", la punteggiatura di Trump avrebbe questi significati:

-virgolette = cinismo

-più punti interrogativi = incredulità

più punti esclamativi = incredulità estrema

Caps lock = collera

Il sistema linguistico-verbale, ricordiamolo, incide solo per il 10% nella comunicazione umana

Riferimenti bibliografici: Fabio Di Nicola, "Il marketing della paura. Donald Trump e il codice della comunicazione politica";  Bérengère Viennot, "La lingua di Trump"