di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unosognoitaliano.eu )

Lepanto evoca una grande battaglia navale, la risposta dell’Occidente cristiano all’espansionismo islamico, aggressivo e violento, come ancora l’Europa conoscerà un secolo dopo, quando le armate ottomane saranno sconfitte sotto le mura di Vienna, e che oggi costituisce un pericolo alimentato dai grandi fenomeni migratori che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Lepanto fu il luogo di un grande scontro avvenuto il 7 ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra la flotta dell’Impero Ottomano e quella degli stati cristiani federati che misero in campo ingenti forze navali, la metà delle quali della Repubblica di Venezia, insieme ad altre provenienti dall’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia) dallo Stato della Chiesa, dalle Repubbliche di Genova e di Lucca, dai Cavalieri DI Malta, dai Ducati di Savoia, di Urbino, di Ferrara e di Mantova e dal Granducato di Toscana. La coalizione cristiana era stata promossa da Papa Pio V per soccorrere la veneziana città di Famagosta, sull’isola di Cipro, assediata dai turchi, strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. Il contesto è quello del crescente espansionismo ottomano diretto al controllo del Mediterraneo che minacciava non solo i possedimenti veneziani ma anche gli interessi spagnoli e degli altri stati rivieraschi italiani a causa delle scorrerie dei pirati che rendevano insicuri i commerci. In questo ambito Pio V ritenne fosse il momento di coalizzare gli stati cristiani contro l’impero ottomano. E così, l’armata, issato lo stendardo, un drappo di damasco rosso su cui era dipinto il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo, benedetto dal Papa, consegnato a Marcantonio Colonna in San Pietro l’11 giugno 1570, appianati i dissidi tra i vari sovrani, fu affidata al comando di Don Giovanni d’Austria. La flotta della Lega (209 galere e 6 galeazze veneziane, oltre ai trasporti e al naviglio minore), salpata da Messina il 16 settembre, riunita il 4 ottobre nel porto di Cefalonia, avuta notizia della caduta di Famagosta e dell’orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, l’eroico difensore della città, torturato a morte fino ad essere scuoiato vivo avendo rifiutato di convertirsi all’Islam, mosse il 6 ottobre verso il golfo di Patrasso, per cercare di intercettare la flotta ottomana. Il 7 ottobre 1571, domenica, Don Giovanni d’Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata, pronto alla battaglia. Che fu uno straordinario confronto nel quale prevalse la potenza di fuoco della flotta cristiana, superiore grazie all’artiglieria veneziana. La potenza di fuoco delle galeazze si dimostrò devastante, con l’affondamento/danneggiamento di circa 70 navi e la distruzione dello schieramento iniziale della flotta ottomana Nello scontro morì il comandante ottomano, Müezzinzade Alì Pascià. Cosa resta di Lepanto, al di là della battaglia descritta in modo puntuale dalle cronache e dai volumi che vi sono stati dedicati, da ultimo quello di Alessandro Barbero, che ha analizzato partitamente anche la posizione dei singoli comandanti e dei rispettivi sovrani? Resta l’immagine plastica dell’aggressività musulmana che non si è esaurita dopo la sconfitta, ma ha caratterizzato ancora i secoli successivi con l’occupazione di parti significative dell’Europa danubiana fino all’esaurimento dell’impero ottomano dopo la prima guerra mondiale. Ma non è finita. Ed ancora oggi l’Islam si affaccia minaccioso verso l’Occidente, come dimostrano le iniziative del dittatore turco Erdogan in medio oriente e nel bacino del Mediterraneo, fino ad intervenire in Libia, area strategica per l’Europa ed in particolare per l’Italia. La pressione dell’immigrazione economica, infine, consente al turco di contrattare con l’Unione europea aiuti in cambio del contenimento dei flussi migratori di coloro che provengono ad esempio dalla Siria verso la Grecia alla quale contesta aree marine di sfruttamento di giacimenti di idrocarburi. Soffiano venti di guerra. Che non ci sarà, ma forse l’Occidente non riuscirà ad essere unito e determinato come in quegli anni lontani.

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

 

Ricordo di Anita Garibaldi, all’indomani della morte, il suo sguardo, gli occhi vivaci, espressione di una volontà indomita, di una grande passione civile. Immagino che così fosse lo sguardo del suo grande Avo. Determinata ma sempre con un sorriso garbato, sapeva coinvolgere chiunque incontrasse per farne un convinto fautore della Fondazione Giuseppe Garibaldi, che presiedeva nel ricordo del Generale, dell’Eroe, del politico. Un pezzo della nostra storia nazionale perché del “Miracolo del Risorgimento”, come Domenico Fisichella ha definito quello straordinario periodo storico nel quale si è fatta l’unità con il concorso di uomini provenienti da ogni parte d’Italia e di ogni orientamento culturale e politico, Giuseppe Garibaldi è stato certamente determinante, esempio non comune di cosa vuol dire amare la Patria.Ce ne vorrebbero oggi uomini pronti a sacrificare il proprio particulare per l’interesse nazionale, come Lui che, repubblicano, non esita a schierarsi a fianco di Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, che ritiene, come la maggior parte dei politici e dei patrioti del tempo, l’unico capace di unificare l’Italia. E per questo entra, a tratti, in contrasto con Giuseppe Mazzini che, forse anche per l’esempio del nizzardo, si rivolge a Vittorio Emanuele, come aveva fatto al padre Carlo Alberto: “Io, repubblicano – scrive -, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”. Figlia di Ezio Garibaldi, nipote di Ricciotti, Anita è stata “degna erede della sua bisnonna” della quale portava il nome, che ha difeso, accanto al marito, lo stesso ideale di giustizia sociale”. Avrebbe potuto rinunciare a tale impegnativa eredità, “ha preferito servire la memoria di chi era il difensore degli oppressi presiedendo la fondazione “Garibaldi” e riunendo garibaldiani provenienti da tutto il mondo”, ricorda Christian Estrosi, già Sindaco di Nizza. Ed a Nizza tornava spesso per preservare e perpetuare la memoria dei suoi gloriosi antenati le cui lotte per l’unità d’Italia sono ancora attuali oggi. Oltre alla Fondazione Giuseppe Garibaldi, con la quale teneva vivo il ricordo degli eventi salienti dell’epopea garibaldina, come nell’annuale incontro al Gianicolo, Anita Garibaldi aveva dato vita al movimento “Mille donne per l’italia” con l’ambizione di ampliare il numero delle donne impegnate in politica in una realtà, quella italiana, che riteneva ancora molto maschilista. Giulio De Renoche, esponente monarchico di primo piano, la ricorda a Fiume, presso la comunità italiana, per premiare i giovani delle scuole medie di Croazia e Slovenia che avevano concorso ad illustrare l’Eroe dei Due Mondi, e ricorda la collaborazione sempre mantenuta con i monarchici del veneto in convegni e congressi, per tenere alta la memoria del grande avo e della sua azione per costruire l’Italia “nello spirito di Teano”. Perché in quella località della Campania il Generale, che aveva riscattato l’Italia meridionale dal dispotico governo dei Borbone in nome del Re delle libertà, aveva consegnato al Sovrano sabaudo le terre liberate. Alcuni anni fa, mi ricordava poco fa l’Avvocato Alessandro Sacchi, Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, in occasione della rievocazione dell’incontro di Teano Anita Garibaldi aveva incontrato il Principe Amedeo di Savoia Duca d’Aosta. Commossi, si ritrovarono nelle braccia l’una dell’altro.L’ultima volta che l’ho sentita, al telefono, Anita mi ricordava l’esigenza di tutelare la piana di Bezzecca da possibili intrusioni di chi voleva autorizzare un ricovero di pecore in quel campo nel quale rifulse l’eroismo dei garibaldini che nel 1866, nel corso della Terza Guerra d’Indipendenza, avevano invaso il Trentino forzando le difese austriache per aprirsi la strada verso Trento. Il Generale fu fermato dalla politica, da un’esigenza politica, e rispose da par suo: “Obbedisco”. Era il 9 agosto 1866 e quel telegramma a La Marmora è rimasto nella storia.

LA PERFIDA ALBIONE

di Giuseppe Borgioli

Si avvicina la scadenza della elezione del presidente della repubblica e il teatrino della politica si rianima. Il nervosismo sale e turba anche la flemma delle più alte cariche dello stato. Fare l’arbitro in una situazione ingarbugliata come questa comporta una responsabilità che i giochi in uso fra i partiti non riescono neppure a prefigurare. Tutto è lasciato agli equilibri di potere in una assemblea che non rappresenta più la nazione. I protagonisti lo sanno e agiscono come se fosse il corso normale degli eventi. Lo spettacolo deve continuare, a qualsiasi costo.

E’ accaduto un episodio di cronaca politica, saremmo tentati di definire minore, se non avesse implicazioni internazionali e non intaccasse i rapporti con gli alleati di oggi e di ieri che meritano il nostro rispetto. Il premier inglese Boris Johnson parlando della preoccupante ripresa della pandemia Covit si è lasciato scappare una osservazione sul carattere degli Italiani che può essere condivisa o contestata con la consapevolezza che il giudizio proviene da una nazione alleata che ci ha dimostrato nel tempo la sua amicizia. Fra amici possono correre dei giudizi che non assurgono a valutazioni politiche e non pregiudicano i buoni rapporti. Il premier Johnson ha osservato –più o meno – che la modalità Italiana di affrontare la pandemia ha le sue luci e le sue ombre e che in linea di massima gli Italiani non hanno molto a cuore le libertà personali come i popoli anglosassoni. Il Regno Unito è un esempio che è sotto gli occhi della storia ed è difficilmente contestabile. Benedetto Croce e il nostro Vincenzo Cuoco hanno sostenuto questa tesi sul nostro carattere e hanno scritto fior di saggi per risvegliare il nostro carattere nazionale.

Il presidente della repubblica si è sentito toccato in un nervo scoperto e ha replicato che gli Italiani amano la libertà ma hanno a cuore anche la “serietà”. Ogni riferimento alle dichiarazioni di Boris Johnson è , come si legge nei film , puramente casuale. Che cosa c’entra il riferimento non richiesto alla “serietà”? Ci sono popoli - proprio sotto il profilo della lotta alla pandemia – seri o non seri? Una fonte così autorevole come la presidenza della repubblica ci indichi la graduatoria della “serietà” e noi ne prenderemo atto. I rapporti internazionali sono già complicati e queste punzecchiature non ci servono, da qualsiasi pulpito provengano.

Abbiamo bisogno della massima solidarietà fra gli alleati per affrontare insieme, ciascuno con il proprio stile, le emergenze del nostro tempo.

Non so se il governo Italiano dia prova costante di “serietà” . In tutta franchezza non ci pare che Il Regno Unito, che ha mantenuto sempre accesa la fiaccola della libertà , abbia mai dato dimostrazione di “non serietà”.

A proposito di “serietà” ci sono 18 pescatori di cittadinanza Italiana, reclusi nelle carceri di bande libiche senza che le famiglie siano ad oggi state informate della sorte riservata ai loro cari che non hanno commesso alcun reato e senza che il governo Italiano abbia sentito il dovere df incontrarli. Questa sì che e “serietà”.

Alla fine della seconda guerra mondiale Winston Churchill appuntò la medaglia sul vessillo della Raf (l'aviazione del Regno Unito) che aveva salvato Londra, l’Europa e il mondo intero dai bombardamenti nazisti: “Mai tanti dovettero tanto a così pochi”. Altro che serietà.

di Giuseppe Basini

( Tratto dal volume "Prospettive dell'Italia 2020" della Fondazione Fare Futuro)

L'inizio di un nuovo secolo é un naturale periodo di bilanci anche per le nazioni e oggi siamo all'inizio di un secolo che segna un millennio, un periodo che sembra enorme rispetto alla nostra vita, ma che non lo é per la nostra Nazione. Perché siamo, a riflettere storicamente, la più antica nazione d'Europa . Fin da ben prima che cominciassimo a contare gli anni secondo il calendario cristiano, l'Italia già esisteva come provincia, come realtà culturale e come coscienza di sé, la cultura latina era condivisa in tutta la penisola e anzi l'intera Italia, con Catullo che nasceva a Verona, Plinio a Como, Virgilio a Mantova, Tito Livio a Padova, era ormai tutta protagonista della cultura Latina, tanto che Virgilio dedicava all'Italia un' ode nelle Georgiche e nell'Eneide chiamava Italia il luogo in cui i Troiani finalmente sbarcavano. E non a caso Dante a Virgilio si è richiamato.  Nazione lo siamo insomma da sempre e da sempre, di fatto, ai primi posti della civilizzazione mondiale. E’ difficile infatti trovare una civilizzazione che sia durata così continuativamente sulla scena mondiale come quella Italiana, dal diritto e dalla poesia della Roma Repubblicana all'urbanistica e all'architettura della Roma Imperiale, dalle cattedrali del Medioevo alla nuova cultura del rinascimento, dal metodo sperimentale di Galileo che segna la nascita della scienza moderna, alla scoperta dell'America che segna la nascita dell'era moderna e che fu consapevolmente ricordata nel messaggio del premio Nobel Compton, quando, grazie a Fermi e alla sua Pila Atomica, si aprì l'epoca nucleare : " Il navigatore Italiano é giunto nel Nuovo Mondo " . Faccio questo orgoglioso bilancio del mio Paese, all'inizio del nuovo millennio, per un preciso motivo, per richiamarne le energie, scientifiche, culturali e morali al servizio di una situazione mondiale che appare dal futuro drammaticamente incerto. Noi Italiani non sempre ce ne rendiamo conto, ma su scala storica stiamo vivendo un periodo di tranquillità, di benessere e anche di stabilità reale (sotto la grande instabilità politica) eccezionale in rapporto al resto del mondo ed anche in rapporto a quei non molti paesi che sono più ricchi di noi, per effetto del progresso economico, certo, ma anche di una antica tradizione, di una profonda solidarietà e soprattutto di una certa virtù di vivere, grazie alla quale pure la povertà è vissuta in maniera meno dura e più dignitosa da noi ( da ricco potrei vivere bene, a parte gli affetti, in qualunque parte del mondo occidentale, ma da povero, anche col nostro pessimo e mal governato stato, senza dubbio sceglierei l'Italia ). Ma nel resto del mondo non è affatto così e, soprattutto, quello che preoccupa è la rapida tendenza al peggio che è dato vedere (e questo anche da noi). E’ come se la Terra si fosse ripiegata su se stessa, con l'intero terzo mondo che sembra solo preoccupato di ripetere -in peggio- gli stessi errori da noi già fatti, mentre le grandi nazioni ricche di potenzialità hanno smesso di progettare il futuro. Come la Russia del ripiegamento economico e demografico, che, insieme alla tragica e sanguinosa prassi dittatoriale del comunismo, sembra aver perso però anche la religione laica del progresso, come gli Stati Uniti, che, a parte i due grandi sprazzi delle presidenze di Kennedy e Reagan, sono adagiati su di una mediocrità politically correct che sembra figlia della "noluntas" verde-radical chic. Come L'Europa, che, per colpa del direttorio di Francia e Germania, continua a non essere tale e, perciò stesso, a non poter sostituire e neanche affiancare il motore Americano. Certo, Trump, Putin e i federalisti europei sembrano voler arrestare questa tendenza, ma non mostrano realmente una visione del futuro sufficiente ad invertire la rotta e la Cina vuole solo diventare una grande potenza economica e militare e non mette certo libertà e democrazia tra i suoi primi valori. Complessivamente insomma si delinea lo scenario di un mondo bloccato, senza nessuna spinta nemmeno lontanamente paragonabile a quella sprigionatasi nel rinascimento o nell'ottocento, ma soprattutto nemmeno lontanamente paragonabile a quella che oggi sarebbe necessaria. Perché non ci sarebbe nulla di troppo negativo in questo periodo che, ribadisco, contrariamente a quello che molti credono é di ripiegamento, se non fosse che l'essere sul punto di raggiungere i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta, introduce un rischio gravissimo di crollo esplosivo, definibile, a mio avviso, da un'equazione del tipo : mancato sviluppo = catastrofe = guerra e allora la vita ragionevolmente piacevole che in Italia riusciamo ancora a fare, potrebbe non durare a lungo, in un'epoca in cui non é più possibile ignorare i problemi mondiali, perché si finisce comunque per ritrovarseli addosso. E questo dal terrorismo alle guerre sante, dal grande fratello ai virus.  E allora é alla lunga tradizione di capacità storico-diplomatica di una nazione come la nostra, che bisogna attingere, per rimettere in moto, prima il processo di integrazione europea, poi quello di solidarietà atlantico-occidentale e infine quello di ricostruzione continentale comprendente anche la Russia, con l'obbiettivo di un gigantesco sforzo Euro-Americano per rimettere in moto ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, rivolti finalmente di nuovo all’espansione reale e non solo alla gestione elettronica e inquisitrice di una mediocrità virtuale e illusoria.  E questo a favore di tutto il Mondo. L'Italia, che é stata tra i primi a raggiungere la consapevolezza dell'impossibilità di risolvere problemi globali sulla base di una spinta puramente nazionale e che proprio per questo é ancora e nonostante tutto, una nazione europeista, deve porre le risorse di un'antichissima scuola diplomatica ( e il pensiero corre a Cavour ) a cui non è estranea la tradizione del papato, al servizio di una nuova grande iniziativa, nel solco della tradizione e dello spirito occidentale . I problemi interni del nostro paese sono ben poca cosa rispetto a quelli del mondo (e lo dimostra il fatto che possiamo baloccarci, come facciamo, con mille astruserie barocche, dal localismo, alle strane authorities, fino alle formule politiche a "geometria variabile", senza – finora - danni irreparabili) e non solo se riferiti al mondo in generale, ma proprio anche agli effetti diretti che producono sul nostro paese, visto che i cambiamenti che importiamo in Italia per i sommovimenti mondiali (dalla stagnazione all'effetto serra, dal ciclo economico all'immigrazione selvaggia, dalle ragioni di scambio alle tecnologie condizionanti) tendono a diventare sempre più importanti rispetto a quelli di origine interna. Insomma stiamo passando da un lunghissimo periodo storico in cui, molto spesso, la politica estera era un prolungamento di quella interna, ad un nuovo periodo in cui è quella interna ad essere determinata da quella estera. Se non riusciremo a risvegliare l'antico spirito pionieristico occidentale in una, massimo due, generazioni, la partita per il mondo sarà perduta e con essa anche quella per il nostro Paese. Ho in testa qualcosa di preciso dicendo questo, qualcosa che deriva dalla constatazione che é impossibile, senza perdere insieme benessere, libertà e pace, accettare i limiti dello sviluppo. Intendendo con questo che é mia opinione che, senza la pianificazione urgente di una prima ondata di colonizzazione dello spazio vicino, l'umanità entro questo o il prossimo secolo, conoscerà una discontinuità (catastrofica) prima di riprendere il cammino, ma da un livello molto più basso. L'orgoglio che provo e che ho sempre provato (e che prima di me provava mio padre) di essere italiano, mi spinge a credere che un’ Italia indipendente saprà e potrà risvegliare la scintilla di un nuovo Rinascimento scientifico ed umanistico che apra la strada alla conquista dello Spazio vicino, allo stesso modo che fu nei nostri monasteri e nelle nostre accademie che si determinò il primo. Ad ogni modo che sia l'America a riprendere quello spirito di avventura che oggi sembra appannato, l'Europa o chiunque altro, noi dovremo dare il nostro contributo, meglio se tra i primi. E non ci tragga in inganno la sproporzione numerica, anche Firenze, anche Venezia, erano piccola cosa all'alba del Rinascimento, eppure, dalla letteratura, alla scienza, alla finanza, cambiarono il mondo. La possibilità di comprensione e di guida dei nuovi avvenimenti, se ci sarà, non nascerà da grandi masse o da moltitudini urlanti, ma dalle università e dai chiostri. Oggi che l'Italia, pur possedendo le chiavi di lettura di ogni singolo progresso scientifico, non è percepita da nessuna parte del mondo come potenza aggressiva o egemone, la possibilità concreta di influenzare l'atteggiamento delle altre nazioni potrebbe essere notevole, purchè si sappia cosa volere, dove andare e come . Potrebbe essere un'altro millennio di fondamentale presenza della cultura e dello spirito italiano . La Spagna della regina Isabella sappiamo dov'è oggi, a Bruxelles, a Mosca, a Pechino e al di là dell'Atlantico, ci servono però altri "navigatori italiani" per noi e per tutti gli altri. Al nostro interno, il principio della libertà trova, nella realtà italiana di inizio secolo, uno dei luoghi che maggiormente necessitano di una rivoluzione liberale e di una politica che sia conseguente . La riscoperta di libertà e tradizione è necessaria quanto mai nel nostro paese, per procedere verso un futuro che sia umano, di progresso e iscritto in un progetto comune. Lo spirito illuminista e risorgimentale, la cultura liberale, l'assunzione consapevole di tutta la storia Italiana ( dalla tradizione monarchica, ai nazionalisti, al sentimento cattolico) l'ottimismo nel futuro, la visione occidentale, l'Europa, sono tutti tasselli che devono trovare armonico posto nella visione di insieme di uno sviluppo di società nazionale, coerente con la storia e compatibile con le necessità e l'ambiente, che proponiamo all'Italia. E allora in Italia tutte le forze tradizionaliste devono riconoscersi per quello che sono, nei fatti, nelle aspettative e nel solco della grande tradizione della Destra Storica : il movimento Italiano per la Libertà (politica ed economica) e la Nazione. Libertà e Nazione, perchè è tradizionale il riconoscimento del valore della libertà della persona e contemporaneamente del suo radicamento in una comunità che è quella nazionale. E questa la base di un modo di pensare chiaro, patriottico, democratico ed Europeo, su cui chiamare a raccolta i cittadini, spronarli ed indicar loro la strada del recupero della libertà e della tradizione nazionale. E dello stato di diritto, che, dall’abbandono del giusnaturalismo in poi, non ha fatto che regredire e oggi (e purtroppo soprattutto in Italia) sembra soccombere di fronte ad una magistratura tendenzialmente autoreferenziale che, associata al populismo antipolitico, al posto della democrazia sembra quasi volersi rifare a un potere sapienziale assoluto premoderno, come fondamento di uno stato di polizia dotato di modernissimi strumenti tecnici.  E' una linea occidentale, quella che proponiamo, ma tutta dentro la tradizione italiana, una linea di Destra Storica che, entrati nell’era moderna con l’illuminismo e gli empiristi inglesi, prende forza con Carlo Alberto e Re Vittorio, Cavour e Sella, continua con Mosca e Pareto, Salandra e Sonnino, passa per Einaudi e Croce, fino a toccare De Gasperi e Pio XII, Malagodi e Pella, Sogno e Tatarella, Maranini e Martino, una linea sottile, ma che, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna d'Italia. E' una linea rigorosamente garantista, perchè la democrazia non è una parola e una giustizia democratica non è tale, se i diritti del cittadino vengono calpestati in nome di un giustizialismo che faccia di giudici intoccabili dei poteri insindacabili. E’ una linea che considera libertà personale e democrazia beni essenziali da difendere e tutelare in ogni circostanza, anche in presenza di una pandemia, per evitare che possa realizzarsi, sotto mentite spoglie,. una via sanitaria alla tirannia. E’ una linea che vede nella rigorosa difesa e diffusione della proprietà privata la prima base dell’essere davvero libero cittadino.  E' una linea che ci vuole in Europa da Italiani orgogliosi di esserlo, condizione necessaria per essere veramente europei. E’ una linea volta a costruire un futuro che non dimentichi la storia della nostra civilizzazione.

                                                                                                        

di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )

Ho votato NO, come è noto ai lettori di questo giornale ed a quanti hanno seguito su Facebook i miei post. Ha vinto il SI, come era largamente prevedibile, in ragione del fatto che il messaggio, secondo il quale la riduzione dei parlamentari avrebbe assicurato un risparmio, è parso subito ai più condivisibile. Sorretto da potenti mezzi pubblicitari, a cominciare dalla presenza televisiva continua degli esponenti del Si come Di Maio, l’idea che meno deputati e meno senatori alleggeriscano i bilanci delle Camere è sembrata l’occasione giusta per “dare una lezione” alla “casta”, la classe politica dipinta da una diffusa vulgata come un’accolita di persone dedite ad arricchirsi, nullafacenti e incompetenti, come si legge sui social. Trascurando che, se non cambiano le regole che guidano la scelta dei candidati, ed in assenza della possibilità per gli elettori di individuare chi ritengono meritevole di rappresentarli, se i partiti continuano a scegliere fannulloni e incompetenti il risultato del referendum popolare avrà semplicemente ridotto fannulloni incompetenti, senza migliorare l’efficienza delle Camere, ciò che, in fin dei conti, vogliono gli italiani. E così, a fronte di una adesione parlamentare alla riforma quasi plebiscitaria, condivisa da alcuni partiti, perché chiaramente timorosi di non apparire quelli che non vogliono risparmiare e difendono le poltrone, il 30% dei NO è un risultato notevole. E già emergono sui giornali i problemi che la riforma comporta come, ad esempio, la revisione dei collegi elettorali che diventeranno naturalmente enormi (al Senato ci sarà un eletto ogni 302.420 abitanti, contro gli attuali 188,424; alla Camera uno ogni 151,220 contro gli attuali 96.006). Per non ripetere, come si è costantemente detto nel corso della campagna referendaria, degli effetti del taglio lineare (percentualmente uguale per tutte le regioni) che danneggia alcune realtà (Basilicata ed Umbria perdono il 57,1% dei propri rappresentanti) che non è aspetto di poco conto in un Paese molto variegato sul piano culturale, economico, ambientale e turistico come l’Italia, in presenza di una classe politica, che non vuole assolutamente, come è stato dimostrato nel tempo, restituire al cittadino la scelta del parlamentare che lo rappresenterà, per mantenere quella che sostanzialmente è una forma di cooptazione ignota alle democrazie rappresentative. Oggi chi vota sceglie un partito, una lista e con il suo voto assicura l’elezione, in relazione al numero dei seggi attribuiti alla lista, a coloro che sono stati collocati nella posizione utile da parte delle Segreterie dei partiti. Infatti, si dice che i parlamentari italiani sono nominati e non eletti. Ed è per questo che ho costantemente fatto riferimento all’esigenza di procedere, prima del taglio dei parlamentari, o anche contestualmente al taglio dei parlamentari, ad una riforma della legge elettorale che a mio avviso dovrebbe essere maggioritaria basata su collegi uninominali. Ma già oggi si sente dire da Di Maio, che gongola per il successo facile della lotta alla casta ottenuto sollecitando più la pancia che la testa dei cittadini, che infatti votano SI ma abbandonano il Movimento 5 stelle, che si dovrà fare una legge proporzionale. L’unica che favorisce la creazione di piccoli gruppi perché, se lo sbarramento non è elevato, come in Germania dove è stabilito al 5%, anche un partitino come Italia Viva di Matteo Renzi, che lotta per giungere al 3%, può avere il suo spazio e una capacità di interdizione rispetto ad iniziative politiche ed a scelte parlamentari. Alla faccia della governabilità-Quindi la vittoria del SI è una vittoria di Pirro se non accompagnata da una riforma elettorale che restituisca il diritto di scelta ai cittadini, che ridimensioni il potere delle Segreterie dei partiti. Abbiamo detto più volte, e lo ripeto in questa occasione, che questa legislatura è condizionata dall’elezione del Presidente della Repubblica perché dal 2018, cioè da quando si è aperta, tutto appare finalizzato a questo obiettivo, dei partiti, naturalmente, e dello stesso Presidente, perché è umano che il Presidente ambisca essere rieletto e che agisca in conseguenza per mantenere il consenso dei partiti che lo hanno nel 2015 lo hanno portato al Quirinale. Non è questa la democrazia rappresentativa nella quale crediamo. Ed allora ecco che si affacciano nel dibattito politico proposte, come il passaggio alla Repubblica presidenziale, che alcuni leaders politici ripetono senza sapere bene di cosa si tratta. Certamente nella speranza che il Presidente sia della propria parte. Per alcuni l’Uomo della Provvidenza, purché sia della parte giusta perché altrimenti sono guai. Basta pensare a quanto avviene oggi quando il Presidente eletto dal Parlamento non appare un arbitro imparziale. È stato sempre così, con esclusione della presidenza di Luigi Einaudi, una personalità di cultura liberale, un grande economista, un accorto uomo di Stato il quale non rispondeva neanche al suo partito ed aveva il senso della estraneità del Presidente agli interessi di parte, in ragione anche della sua cultura risorgimentale e monarchica, tant’è vero che alla vigilia del referendum del 1946 aveva scritto in favore della scelta monarchica. Così identificando nel Capo dello Stato una figura di arbitro realmente imparziale.

ETEROGENESI DEI FINI

di Giuseppe Borgioli

È una espressione che viene dalla filosofia di Hegel e che a scuola mi ha fatto sudare le fatidiche sette camicie.  Il significato è semplice e facile da ridurre alla esperienza quotidiana della storia e della cronaca.  Molti eventi non sono compresi dai fini che ci proponiamo con le nostre azioni e i nostri disegni.  La storia progredisce proprio non totalmente racchiusa dalle nostre previsioni. Facciamo un esempio concreto. Abbiamo votato per il taglio dei parlamentari. Sappiamo il risultato ufficiale del referendum ma non sappiamo e forse non sapremo mai il dato dell’affluenza alle urne soprattutto nelle regioni non interessate dal voto amministrativo che ha esercitato la funzione di traino per la partecipazione (bassa) degli elettori. Sulle ragioni del no molti hanno scritto con argomenti che facevano appello alla dottrina più che ai risentimenti. Prendiamo atto che il referendum è passato, non è il primo che perdiamo, brogli a parte. Non ci sfugge la genesi tutta politica (demagogica) del quesito che è stato sottoposto agli elettori. Ecco che spunta l’eterogenesi dei fini. I risultati si vendicano delle nostre intenzioni. Ora il Parlamento dovrà legiferare sulla nuova legge elettorale. Ciascuno tirerà fuori dal taschino un testo secondo le convenienze del proprio gruppo politico. Nel contrasto degli interessi c’è caso che esca una legge elettorale particolarmente punitiva di quelli che presumevano di trarne vantaggio. Ancora l’eterogenesi dei fini. Le leggi elettorali andrebbero concepite in un clima di unità nazionale perché prevalesse l’interesse generale. Così consigliano i politologi che hanno prodotto una vasta letteratura sull’argomento. Ci sono dei principi empirici sui quali nessuna persona seria discute.  Il sistema proporzionale andava bene nella prima repubblica quando la spaccatura politica era netta o almeno era tale sul proscenio, ad uso e consumo del pubblico. Oggi la tendenza è di garantire la governabilità e di far sì che all’indomani del risultato elettorale si conosca già il nome del vincitore e del vinto. Sistemi elettorali diversi ispirati a principi diversi. Nel corso della storia dell’Italia Unita, Casa Savoia ha fatto ricorso alternativamente a questi sistemi che conservano la loro legittimità. L’importante è tener fermo il concetto che quando si scrivono le regole bisogna coinvolgere tutti o non escludere a priori nessuno. Altrimenti succede che come si giocava da ragazzi e c’era sempre qualcuno prepotente che voleva decidere per gli altri. Ve lo ricordate?  “il pallone è mio e comando io”. La risposta era pronta con la prontezza che hanno i ragazzi. “Se il pallone è tuo, gioca da solo”.