di Salvatore Sfrecola

( tratto da. www.unsognoitaliano.eu )

Leggo su qualche giornale, ma soprattutto su Facebook, quale argomento ricorrente di coloro i quali vorrebbero votare SI, che il numero dei nostri parlamentari sarebbe superiore a quello di altri paesi. È stato dimostrato che non è vero, ma comunque vorrei aggiungere qualche considerazione proprio su questo aspetto, convinto che la rappresentanza politica sia conseguenza della specifica realtà storica e territoriale che giustifica la composizione delle assemblee legislative. Ora non è dubbio che, a differenza, per esempio, della Francia, caratterizzata da una realtà territoriale nella quale i centri urbani sono concentrati in poche realtà per lo più vicine alle grandi città, Parigi, Tolone, Marsiglia, in Italia, non solo la configurazione orografica del territorio ma la sua stessa storia ne fanno un Paese con oltre ottomila comuni che non è stato mai possibile ridurre, perché ognuno vuole gli uffici municipali sotto casa, così come non è stato possibile ridurre più di tanto i tribunali, perché tutti desiderano che la giustizia sia amministrata a portata di mano e non a cento chilometri di distanza. Questo è un dato a tutti noto ed è conseguenza della storia di questo nostro Paese, che è costituita da vicende municipali straordinarie dal punto di vista politico culturale, artistico, economico. Il nostro Paese, dopo la caduta dell’Impero romano, si è articolato in una quantità, altrove inesistente, di centri urbani nei quali si è concentrato il potere politico e intorno ad esso la cultura, l’arte e l’economia di quelle comunità. L’Italia dei mille campanili ha conosciuto principati, comuni e città libere, contee e marchesati ed oggi è l’Italia degli ottomila comuni, con annessi uffici postali e Stazioni dell’Arma dei Carabinieri in un contesto orografico peculiare che nel corso dei secoli si è tentato di superare con migliaia di chilometri di strade statali e provinciali delle quali la maggior parte di noi non ha neppure contezza. Questa Italia è costituita da un tessuto cittadino che ritroviamo vivo e vitale nell’esperienza di alcune tradizionali manifestazioni culturali, dalla Quintana di Foligno a quella di Ascoli ai tanti eventi in costume che ricordano ed esaltano vicende e abitudini del Medioevo e del Rinascimento, nei secoli in cui si è formata la coscienza della differenza di quelle comunità rispetto a quelle vicine, anche se distanti solo pochi chilometri, ma divise da esperienze municipali significative. Basta pensare alla Toscana ed alle divisioni tra fiorentini, senesi e pisani. Esperienze storiche e realtà culturali, ravvisabili anche nel linguaggio, che io continuo a considerare essere la ricchezza di questo Paese, che i turisti dimostrano spesso di riconoscere più di noi quando vanno ricercando, tra mille, quel castello, quella pieve o quel palazzo ducale che conservano opere d’arte con le quali nei secoli i rispettivi proprietari volevano stupire le popolazioni ed i vicini, a dimostrazione di un potere politico fortemente gestito e conservato, che oggi appartiene al cuore della gente. Questa varietà di ricchezze che, insieme, fanno la ricchezza dell’Italia, come vado da sempre ripetendo agli improvvidi fautori del separatismo e del federalismo, non può non essere rappresentata In Parlamento, un luogo nel quale si decidono le sorti della intera comunità nazionale nella salvaguardia necessaria delle realtà territoriali dove minoranze culturali e linguistiche non possono essere trascurate. Questo non vuol dire che dobbiamo avere ottomila parlamentari, quanti e più sono i comuni del nostro Paese. Però significa che quando alcuni mettono a confronto i numeri delle assemblee legislative di paesi europei o di paesi al di là degli oceani commettono un grosso errore che se è di ingenuità e ancora ammissibile, se invece trascura la nostra realtà significa che non è apprezzata, che non è in nessun modo valutato un contesto che deve guidare le scelte del legislatore costituzionale. E questo a tacere del fatto che, ripeto ancora una volta, i promotori della riforma costituzionale sono coloro i quali credono non nella democrazia parlamentare ma nella democrazia diretta, che sappiamo non si è mai realizzata in nessuna parte del mondo neppure nell’antica Grecia che viene ricordata come espressione di questa forma di partecipazione del cittadino alla vita della Polis. Noi siamo i discendenti di Cavour, del liberalismo democratico e guardiamo con attenzione alla realtà di alcuni paesi come il Regno Unito che, non va dimenticato, è stato il laboratorio delle idee della democrazia liberale come si è andata configurando nel tempo fin da quando un nobile signore francese, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, osservando come funzionava a Londra il sistema costituzionale nei rapporti fra il Sovrano, il Governo e il Parlamento ha definito la teoria della separazione dei poteri, che è posta a fondamento degli stati di diritto. E chi vorrebbe la democrazia diretta nella forma della piattaforma Rousseau altera il sistema delle libertà democratiche che ruotano intorno ad un Parlamento libero, effettivamente rappresentativo delle opinioni dei cittadini, ciò che si ottiene attraverso una legge elettorale che faccia delle Camere assemblee di uomini liberi, radicati nel territorio, scelti dalle comunità locali che ne conoscono le idee e sono in condizioni di valutare, di legislatura in legislatura, la loro capacità di realizzarle. Quindi, prima di toccare il numero dei parlamentari è bene riformare le regole della politica, attraverso una responsabilizzazione dei partiti che, pur essendo associazioni non riconosciute, decidono della nostra sorte, e una legge elettorale che realizzi una regola fondamentale della democrazia, quella che il rappresentante deve essere conosciuto e scelto dal rappresentato. 

RITORNO A ITACA.                                                                                                                                                    di Giuseppe Borgioli 

Il viaggio di Telemaco. il figlio di Ulisse e di Penelope, è qualcosa di un capitolo del poema epico di Ulisse. La reggia di Itaca privata della presenza del suo Re è in preda al disordine. I Proci che si contendono la mano di Penelope e la successione di Ulisse, gozzovigliano nel palazzo reale teatro dei loro soprusi Non c’è più legge che sia rispettata e il popolo è il primo a soffrire di questa condizione. I Proci arroganti continuano a ripetere che il Re, il valoroso Ulisse, è orai morto sotto le mura di Troia o nel viaggio periglioso del ritorno di cui nessuno ha notizia. Il Re è morto, che Penelope si decida a scegliere il suo sposo per dargli un successore. Telemaco è troppo giovane. A lui non resta che assistere con la sofferenza che si accresce di giorno allo sfacelo della sua patria.Quello che un tempo era un Regno ordinato ora è precipitato nel caos. Bisognerebbe che Ulisse come per magia tornasse al suo posto per punire i prepotenti che abusano della sua assenza. Qui si eleva in questo desolante panorama di degrado la figura di Telemaco che parte alla ricerca del Re. Di suo padre. In questa impresa il giovane Principe è armato solo del suo coraggio e del ricordo del padre che non è stato dimenticato a Itaca. Telemaco insegue le voci di chi ha conosciuto il Re e ne piange il valore in tempo di battaglia e in tempo di pace. Questo l’aiuta a ricomporre l’identità del padre e a riaffermare la sua. Non è più un quasi orfano. È un Principe. Figlio di Re. Sventurata quella terra che non può più avvalersi della saggezza di un Re, resta preda degli avventurieri di tutti i tipi. Itaca è una metafora che abbiamo sperimentato e rivissuto in altri tempi e altri luoghi.Si può rimanere a lungo privi del Re? La reggia può rimanere a lungo riserva di caccia dei Proci di turno? Si può accettare che l’arbitrio si assida sul trono della giustizia ? Telemaco parte come in un pellegrinaggio laico alla ricerca del Re- padre perche non può accettare di vivere in questa situazione di minorità. La vicenda di Telemaco riassume nella sua grandiosità anche le nostre peripezie civili.Siamo tutti alla ricerca, come dice una canzone in voga, di un centro di gravita permanente, di una bussola che in un cielo coperto da nubi ci aiuti a ritrovate l’orientamento. Molti di noi hanno assimilato la politica nel sangue. Ma la politica non è un fine, non è il fine ultimo . Ci sono i valori oltre la politica. Sotto elezioni si moltiplicano gli appelli. Si cercano o si contrattano i voti. Si promettono mare e monti.E’ la stagione dei Proci.. Itaca è ancora senza Re, è orfana.Sempre secondo la mitologia e la poesia di Omero è il cane Argo che riconosce il suo Re.Quando la scuola era la scuola siamo stati educati alla luce dei poemi omerici e qualche volta stupidamente ci siamo chiesti a che servono quelle pagine. A niente, risponderà qualcuno più aggiornato di noi.Goethe sosteneva che se il popolo italiano fosse cresciuto al culto dell’antichità e dei poemi omerici anche il nostro costume civile sarebbe cambiato.

L’Italia in pillole

di Giuseppe Borgioli

All’assemblea costituente e negli anni successivi quando la sinistra aveva la vittoria in tasca, Pietro Nenni, il leader del socialismo, e Palmiro Togliatti, il capo carismatico del PCI, erano critici sul regionalismo. Rimase famosa lo slogan di Nenni che paventava la riduzione dell’Italia in pillole. Un piccolo assaggio di questa profezia l’abbiano sperimentato nell’era del Covid-19 quando ciascuna regione ha messo in campo le sue ricette e le sue norme. Il governo avrebbe dovuto riservarsi la funzione di concertatore ma ben presto sono emersi numerosi i conflitti di competenza. Il federalismo a geometria variabile si è risolto in un livello discreto di confusione. Il ministro Boccia competente per i rapporti stato-regioni si è trovato nella necessità di faticose trattative che si sono concluse   spesso con il compromesso. Non abbiamo mai creduto sulla alternativa o regionalismo radicale o centralismo burocratico. L’unità d’Italia ha dato i suoi frutti migliori quando ha saputo declinare la centralità delle funzioni politiche con la varietà delle tradizioni locali e regionali.  Nella Monarchia questa duplicità è fonte di libertà e pluralità- Si pensi si nomi dei reggimenti che un tempo erano riferiti anche ai territori di reclutamento. La Monarchia ha sempre esaltato la diversità che non sia disgregazione. Semmai il centralismo e l’uniformità sono propri della visione giacobina e rivoluzionaria della società. Lo stesso richiamo di “cinque stelle” alla piattaforma Rousseau sottende a questa aspirazione alla democrazia diretta, all’ uniformità della rete, all’appiattimento della persona con il suo bagaglio di sentimenti e di emozioni. Le regioni nacquero principalmente come compartimenti statistici, in qualche caso riproducevano i confini dei gli stati preunitari. Il dato unificatore fu il Re. Che cosa sarebbe stata l’Italia senza Vittorio Emanuele II che giustamente appelliamo “Padre della Patria”? Che nessuno si scandalizzi se diciamo che senza la svolta unificatrice di Casa Savoia, le voci dei patrioti avrebbero dato vita a tante invocazioni d’Italia senza un quadro concreto di azione. Come vede il ministro Boccia, prima di lui c’è una storia viva. L’Italia non è nata ieri anche se qualcuno ha l’ardire di additare questa crisi come la più grave della storia nazionale, quasi fosse la prima. Mario Draghi il “super Mario” nel suo discorso al meeting di Comunione e Liberazione ha detto con l’autorevolezza che gli è congeniale che i giovani non possono essere considerati assistiti a vita. È vero, i giovani hanno tutto il diritto di essere presi sul serio. Hanno anche diritto a essere riconosciuti e trattati come figli adulti di una nazione che ha una storia alle spalle e non è un brefotrofio.

di Salvatore Sfrecola

(tratto da:  www.unsognoitaliano.eu )

Il nuovo strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (SURE), pensato per aiutare a proteggere i posti di lavoro e i lavoratori che risentono della pandemia di coronavirus, è dotato di 100 miliardi di euro in forma di prestiti, concessi agli Stati membri a condizioni favorevoli. Di questi 28 circa saranno destinati all’Italia e concorreranno a coprire i costi direttamente connessi all’istituzione o all’estensione di regimi nazionali di riduzione dell’orario lavorativo e di altre misure analoghe per i lavoratori autonomi introdotte in risposta all’attuale pandemia di coronavirus. Naturalmente l’Europa ci chiederà garanzie quanto alle procedure di erogazione ed ai controlli. In questo contesto, si è fatto notare ieri nella Conferenza stampa indetta dall’Associazione Magistrati della Corte dei conti, la limitazione della responsabilità per danno erariale alle sole ipotesi di dolo, tra l’altro nella configurazione penalistica, costituisce una garanzia insufficiente in caso di condotte gravemente colpose che, se il decreto legge semplificazioni sarà approvato com’è scritto, non saranno più perseguibili con possibilità di condannare il responsabile al risarcimento del danno. Ecco dunque che i magistrati contabili spiegano le ragioni della loro opposizione alla nuova norma che svuota completamente la responsabilità per danno erariale. Non è una rivendicazione corporativa, spiegano, ma un’azione a tutela del pubblico erario e nell’interesse dei cittadini che pagano imposte e tasse. E, appunto, anche della credibilità dell’Italia difronte all’Europa che metterà a disposizione ingenti risorse per la ripresa dell’economia. Ci tiene molto l’Associazione Magistrati della Corte dei conti a sottolinearlo in una conferenza stampa via teams, che manda in onda la protesta nei confronti del Governo che nel decreto-legge “semplificazioni” ha escluso che i pubblici amministratori e dipendenti siano chiamati a risarcire danni commessi con “colpa grave”. Si fa notare l’evidente contraddizione di un Governo che, mentre dice di voler semplificare le procedure amministrative e contabili, invece di mettere a disposizione dei suoi funzionari strumenti operativi più adeguati, attua un preventivo “colpo di spugna” in favore di disonesti e incapaci che abbiano causato danni all’erario con una condotta caratterizzata da gravissima negligenza e imperizia o trascuratezza delle regole. Insomma, non si aiutano i bravi, che sono senza dubbio la maggioranza, ma incapaci e disonesti. È una lesione grave dell’interesse pubblico alla corretta gestione della finanza e del patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, ha sottolineato il Presidente dell’Associazione, Luigi Caso, che è anche l’interesse dei cittadini-contribuenti cioè di quanti, pagando imposte e tasse, assicurano ai bilanci pubblici le risorse necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica. Oggetto specifico di queste critiche è l’art. 21 del DL semplificazione il quale, dopo aver integrato l’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, secondo il quale la responsabilità per danno erariale può essere affermata solo in caso di dolo o colpa grave, specifica che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” Ma la lesione degli interessi pubblici lamentata dal magistrati della Corte dei conti sta al punto 2 dove si legge che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. La critica è scontata per chiunque abbia un minimo di conoscenza delle procedure amministrative. Dov’è la semplificazione? L’eventuale azione di responsabilità della Corte dei conti è sempre successiva alla realizzazione di un’opera pubblica o all’emanazione dell’atto. “Pertanto – sottolinea l’Associazione Magistrati –, eliminando la colpa grave non si accelera nulla e, quindi, è più corretto parlare di norma di deresponsabilizzazione. Non è neanche corretto dire che la norma serve a superare la c.d. “paura della firma”, che andrebbe combattuta rendendo più chiare le leggi. Invece, si preferisce lasciare in piedi una legislazione oscura e contraddittoria ma si assicura la totale irresponsabilità di chi deve attuarla (non si cura la febbre ma si rompe il termometro)”. E ricorda che nel 2019, a fronte di 28.722 denunce di danno, vi sono state 23.939 archiviazioni e 1.162 citazioni, cui hanno fatto seguito 934 condanne in primo grado. Nel corso dell’anno è stata recuperata all’erario la somma di euro 299.061.268, per lo più riferita a sentenze pronunciate negli anni precedenti. In parte somme dovute a sprechi di somme messe a disposizione dell’Unione Europea. Una norma assurda, dunque, che deresponsabilizza i pubblici amministratori e funzionari escludendo la “colpa grave”, quella “intensa negligenza, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, grave disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni, macroscopica violazione delle norme, un comportamento che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”. Un esempio che fa capire: chi ha sbagliato nella manutenzione del Ponte Morandi non lo ha fatto con dolo ma con colpa grave. Che senso ha una riforma che esclude queste responsabilità, tra l’altro a tempo, con effetti perversi su procedure che durano anni? Chi l’ha scritta evidentemente non conosce le regole. Considerazioni per il Governo ma anche per il Parlamento in sede di conversione del decreto-legge appena all’inizio.

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu )

Alla ricerca di alibi all’inconcludenza conclamata dell’azione amministrativa del Governo, Giuseppe Conte ha sposato acriticamente la tesi di quanti ritengono che la lentezza della burocrazia sia effetto del “timore della firma”, che i funzionari avrebbero in ragione della possibile imputazione di danno erariale da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. E pertanto, con l’art. 21 del decreto-legge semplificazione, in corso di conversione, ha previsto l’eliminazione tout court della responsabilità per “colpa grave” in caso dall’attività del funzionario o dell’amministratore pubblico sia derivato un danno erariale, cioè un pregiudizio alla finanza o al patrimonio dello Stato o di un ente pubblico, territoriale o istituzionale. Il Governo con questa norma, che è augurabile il Parlamento non converta in legge, dimostra due cose gravissime: di non considerare che si parla di danno alla finanza o al patrimonio pubblico, cioè ad un bene pubblico, in sostanza di tutti, e che la “colpa grave”, intesa quale requisito soggettivo per l’imputabilità del danno, consiste in una straordinaria negligenza, imprudenza o imperizia, che i romani sintetizzavano in una espressione estremamente eloquente: “non comprendere ciò che tutti comprendono”. E siccome Giuseppe Conte è un giurista, anzi un civilista che sovente ha difeso dinanzi alle Sezioni giudicanti della Corte dei conti, sa bene che la colpa grave è fattispecie che non si può espungere dalla responsabilità, pena la riduzione a zero del risarcimento per danno che lo Stato deve pretendere dal dipendente che non faccia il suo dovere. Ma c’è un altro e, per certi versi, più rilevante aspetto. Il timore della firma che il Governo cerca di esorcizzare escludendo la responsabilità in caso di colpa grave è addebitabile allo stesso Governo e al Parlamento. È, infatti, evidente per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Pubblica Amministrazione che il timore di sbagliare, che frena l’azione dei pubblici dipendenti, è conseguenza della farraginosità delle norme, non di rado illeggibili e confuse, come dimostra la giurisprudenza del Giudice amministrativo, Tribunali Amministrativi Regionali e Consiglio di Stato, che censurano quotidianamente comportamenti delle pubbliche amministrazioni viziati da violazione di legge o da eccesso di potere, cioè da un grave sviamento nell’esercizio della funzione pubblica. È sempre colpa dei funzionari distratti o impreparati? Non di certo. Il pubblico dipendente si trova spesso ad applicare norme di difficile interpretazione che richiedono chiarimenti con circolari anch’esse non di rado inintelleggibili. Giuseppe Conte ed i suoi ministri guardino all’interno degli apparati, considerino le norme che i funzionari sono tenuti ad applicare e si renderanno conto che il timore della firma è indotto non già dal timore della Corte dei conti ma dalle norme che devono applicare e che il potere politico ha predisposto in relazione ai vari procedimenti. Se si vuole semplificare si deve agire sulle attribuzioni delle amministrazioni e sui procedimenti che devono essere chiari, capaci di realizzare in tempi brevi (il tempo è un costo per l’Amministrazione e per i privati) le aspettative dei cittadini e delle imprese. È così che decolla l’economia mortificata dal blocco totale delle attività in ogni settore e non supportata da misure idonee alla ripresa, altro che esorcizzazione del danno erariale. È solo un mezzo di distrazione della gente che non conosce le regole e offende i funzionari onesti e preparati i quali non desiderano essere considerati degli incapaci che hanno bisogno di una tutela illogica e ingiusta, a protezione dei disonesti e degli incapaci.

LE NICCHIE DEI   SANTI

di Giuseppe Borgioli

Lo strapotere dei partiti, noto come partitocrazia, sta dilaniano la nostra vita pubblica. Non c’é settore di attività dalla pubblica amministrazione, alle professioni, all’economia, alla cultura che non sia preso di mira dai partiti che dettano le loro regole. Tutto ciò che è commestibile è soggetto alla pratica della spartizione senza nemmeno preoccuparsi dello scandalo. L’olfatto degli Italiani si è abituato ai miasmi della vita pubblica. Uno dei padri della Patria, Marco Minghetti, scrisse un libro profetico dedicato ai partiti nella pubblica amministrazione che dovrebbe essere riletto se fosse stato ripubblicato e in circolazione da qualche parte, cosa di cui dubitiamo. Uno degli appuntamenti con la politica è la riforma della legge elettorale. Non è la prima volta che la repubblica si dà nuove regole d’ogni volta abbiamo dovuto tirare la marcia indietro. Ora a scadenza ravvicinata abbiamo in agenda anche il referendum   costituzionale per la riduzione dei parlamentari, che di per sé non è una gran riforma capace di far decollare il nostro destino politico. Ma i “cinque stelle” l’hanno pretesa e oggi è al veglio del giudizio popolare. Soffermiamoci sulla legge elettorale che dovrebbe costituire il cuore di un sistema parlamentare. Per farla breve i principi che sovraintendono alla materia sono due: ii principio proporzionale e il principio maggioritario: Il principio proporzionale garantisce la rappresentatività del corpo sociale e il principio maggioritario assicura a chi ha vinto le elezioni di governare. Rappresentanza e governabilità sono i binari su cui scorrono le istituzioni politiche. Ci sono altri accorgimenti per far funzionare al meglio le istituzioni. Sicuramente le disposizioni di sbarramenti elettorali o soglie al di sotto delle quali non si riconosce rappresentanza parlamentare ai partiti sono finalizzate a impedire la dispersione dei voti e la atomizzazione della politica. I partiti si accingono ad affrontare questa scadenza more solito , ciascuno tenendo di mira il suo tornaconto elettorale. Ogni partito vorrebbe fissare la soglia sotto la quantità dei voti attribuiti dai sondaggi. Ciascun partito guarda alla legge elettorale per penalizzare o bloccare l’avversario. Una riforma elettorale nasce in un clima politico e culturale particolare. Per fare una legge elettorale coraggiosa ed equa occorre un ubi consistam che si riassume nello spirito della nazione. Non resta che predisporci alle discussioni infinite come fu nelle varie edizioni della bicamerale Il sistema dei partiti è più rinvigorito che mai. Aveva ragione Giovan Battista Giorgini, uomo politico devoto a Casa Savoia e al liberalismo nonché nipote di Alessandro Manzoni, che esortava l’opinione pubblica a vigilare. Non lasciate le nicchie perché vi ritorneranno il santi.