Legalità e trasparenza nella gestione dell’emergenza sanitaria
In relazione alle pressanti esigenze connesse al contrasto all’infezione da Coronavirus ed all’apprestamento e gestione delle necessarie strutture sanitarie, che impongono la realizzazione urgente di opere e la fornitura di beni e servizi, l’Unione Monarchica Italiana ritiene necessaria una profonda semplificazione delle procedure contrattuali, di spesa e di controllo. Tale intervento normativo, necessario ed urgente, non dovrà, tuttavia, trascurare il rispetto dei principi di trasparenza e legalità che devono caratterizzare ogni gestione di pubblico denaro.
Roma,02.04.2020
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi
PROVA GENERALE
di Giuseppe Borgioli
Il governo ha prorogato sino al 13 aprile le misure di quarantena per il contrasto alla pandemia di coronavirus. Da tre settimane gli Italiani di ogni categoria sociale e di ogni regione stanno attraversando questa vicenda dolorosa e paradossale. Chi scriverà la storia (vera) di questa vicenda epocale si troverà a cercare le risposte di una serie di drammatici paradossi-La sofferenza quando è una prova collettiva qualche volta migliora il carattere di un popolo, quasi sempre rende la gente più vulnerabile e sospettosa. Un fatto è certo: noi Italiani abbiamo subito disagi maggiori e nello stesso tempo abbiamo il triste primato dei contagiati e dei morti.Far quadrare questi dati empirici non è facile e sinora nessuno ha fornito spiegazioni convincenti. Nelle tre settimane trascorse le nostre città erano deserte, la gente costretta in casa impegnata talora in conflitti domestici alimentati dalla la ristrettezza e povertà della maggior parte delle abitazioni, ogni traccia di attività pubblica cancellata incluso il Parlamento. Il fantomatico piano “solo” attribuito al generale Giovanni De Lorenzo non era arrivato a immaginare uno scenario del genere. Non è proprio un acquerello idilliaco come gli spot zuccherosi della obbediente televisione (sia pubblica che commerciale) cerca di propinarci in nome del senso civico o dell’altruismo. Qualche buontempone ha sussurrato quasi un’immagine da colpo di stato. È da folli non aver messo in conto che il blocco delle attività commerciali e sociali avrebbe comportato in breve tempo la crisi economica della liquidità o più semplicemente la mancanza di reddito a disposizione delle famiglie per procurarsi beni di consumo di prima necessità. In altri termini, la invocazione di Papa Francesco la gente ha fame! A parte il quadro più complesso della recessione industriale che ci attende quando ritornerà la tanto sospirata normalità.Si tratta di bisogni urgenti che costringe molte famiglie a scegliere fra la tutela della salute e la fame. Gli assalti ai supermercati seguono questa logica. Non riguardano l’ordine pubblico. I cittadini si sono rivelati più responsabili degli uomini di governo. Purtroppo i provvedimenti presi dal governo hanno o avranno l’effetto di una aspirina contro il coronavirus.Vada per le mascherine che non si trovano ancora, ma le conseguenze economiche della quarantena estesa a tutta la nazione non poteva cogliere impreparati i nostri governanti. E sì che i disagi a cui con cinismo veniva esposta la parte più fragile della nostra società non si limitavano alla forzosa rinuncia del barbiere che ha angustiato le più alte cariche dello Stato.Un tempo si faceva conto sullo zio d’America che ci avrebbe tolto dagli impicci. L’Europea di oggi non ci sta più al gioco, non ò disposta ad abbonare al paese più indebitato dell’unione nuove spese. Il corona virus non può diventare un alibi per invocare la solidarietà degli altri.Il teatrino della politica registra l’ultima (in ordine di tempo) sparata del comico Beppe Grillo, leader politico suo malgrado. Dare un salario universale a tutti. Una misura che farebbe della repubblica l’unico esempio di comunismo distributivo, quando persino Cuba (non parliamo della Cina) riscopre il profitto.Giuseppe Prezzolini, il fondatore de La Voce (quella originale, quella vera) aveva lanciato dalle colonne del suo giornale il partito degli apoti, di quelli che non la bevono. Scambiare la pazienza degli Italiani per adesione per adesione alle verità ufficiali può rivelarsi un errore tragico per il regime.
Occorre un programma straordinario di opere pubbliche da finanziare con la sottoscrizione di un grande prestito nazionale
La gravità della crisi economica, determinata dal blocco di gran parte delle attività produttive a causa dell’infezione da Coronavirus, preoccupa fortemente l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) per le conseguenze che ne derivano alle persone e alle imprese, in assenza di un’adeguata risposta della classe politica all’emergenza sociale. Mentre artigiani, piccoli imprenditori e professionisti subiscono gli effetti drammatici della mancanza di risorse per il lavoro che non c’è, non si intravedono proposte adeguate alla gravità della crisi economica, che investe tutti i settori dell’economia, in una prospettiva di sviluppo della produzione e dell’occupazione.
L’Unione Monarchica Italiana ritiene che, per tornare a crescere, l’Italia abbia bisogno della mobilitazione di tutte le risorse disponibili, pubbliche e private, da impiegare in un grande programma di investimenti in opere pubbliche. Strade, autostrade, ferrovie ad alta velocità, porti, acquedotti sono necessari per favorire lo sviluppo del Paese con particolare attenzione alle aree del Meridione e delle isole da sempre svantaggiate, nelle quali le imprese subiscono il peso della mancanza di infrastrutture viarie e ferroviarie necessarie per favorire i commerci e quella straordinaria risorsa che è costituita dal turismo, del quale si ignora la capacità di muovere, oltre ai tradizionali settori della ricettività alberghiera e della ristorazione, il rilevante indotto costituito dall’artigianato e dall’enogastronomia. Sarà necessario anche un programma di manutenzione straordinaria delle infrastrutture esistenti e datate e di interventi a tutela dell’assetto idrogeologico del territorio.
L’Unione Monarchica Italiana auspica che la classe politica sappia delineare un programma di investimenti capace di favorire la crescita che possa riscuotere il consenso degli italiani i quali certamente contribuirebbero a finanziarlo.
Roma,01.04.2020
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi
di Salvatore Sfrecola
(da www.italianioggi.com)
Ancora un decreto legge, con nuove regole, “più stringenti”, secondo il Presidente del Consiglio che ha scelto la strada di adottare successive disposizioni a mano a mano che gli sono apparse più chiare le dimensioni dell’epidemia che ha letteralmente messo in ginocchio l’Italia da quando si sono verificati i primi casi di positività al virus, taluni presto mortali. L’epidemia, scoppiata in Cina sul finire dello scorso anno, come attesta il n. 19 che identifica il virus, era stata segnalata dall’Organizzazione mondiale della sanità (O.M.S.), fin dal 30 gennaio. In quella data, infatti, l’O.M.S. aveva emanato una “dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC)”, con specifiche “raccomandazioni alla comunità internazionale… circa la necessità di applicare misure adeguate”. Ed il Ministro della salute vi aveva fatto seguito il 31 gennaio, rappresentando a Palazzo Chigi “la necessità di procedere alla dichiarazione dello stato di emergenza nazionale”. Non c’era da attendere oltre. Ed il Consiglio dei ministri lo stesso 31 gennaio ha dottato la “dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. La leggiamo sulla Gazzetta Ufficiale n. 26 del 1 febbraio.
La delibera del Consiglio dei ministri, oltre a richiamare la dichiarazione e le raccomandazioni dell’O.M.S., premesso che, “considerata l’attuale situazione di diffusa crisi internazionale determinata dalla insorgenza di rischi per la pubblica e privata incolumità connessi ad agenti virali trasmissibili, che stanno interessando anche l’Italia”, individua, in “tale contesto di rischio”, la necessità dell’“assunzione immediata” di “iniziative di carattere straordinario ed urgente, per fronteggiare adeguatamente possibili situazioni di pregiudizio per la collettività presente sul territorio nazionale”.
Le parole mai come in questa occasione sono pietre: “rischio”, “assunzione immediata” di “iniziative di carattere straordinario e urgente” perché gli agenti virali “stanno interessando anche l’Italia”. Nonostante questa percezione del pericolo, tanto che viene dichiarato “per 6 mesi dalla data del presente provvedimento (31 gennaio 2020, n.d.A.), lo stato di emergenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, e la espressa esigenza di procedere con immediatezza, si deve arrivare al 22 febbraio perché il Consiglio dei ministri adotti il decreto legge n. 6, pubblicato il 23 febbraio sulla Gazzetta Ufficiale n. 45. Le ragioni della straordinaria necessità ed urgenza che consentono al Governo di adottare un provvedimento normativo con efficacia immediata vengono indicate nella dichiarazione dell’O.M.S. del 30 gennaio a proposito dell’“emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale”. Ed in 6 articoli viene dettata una serie di misure per evitare il diffondersi del virus “nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione”.
Dal 31 gennaio al 22 febbraio per adottare un provvedimento d’urgenza sollecitato dall’O.M.S. per una emergenza condivisa dal Governo, tanto che ne stabilisce la durata in sei mesi. E intanto ne spreca quasi uno senza decidere. È evidente che nei palazzi del governo non si hanno le idee chiare sull’entità del fenomeno, nonostante la “rilevanza internazionale”, e sulle modalità per affrontarlo, ed anche se la Cina aveva fornito indicazioni precise, avendo chiuso immediatamente una intera regione, con regole severissime di quarantena. Ne parlano i giornali i quali si diffondono a considerare che quelle misure sono state adottate da uno stato che non è proprio una democrazia occidentale, come se il virus avesse effetti diversi a seconda del regime costituzionale del territorio nel quale si sviluppa il contagio.
Qualche considerazione di fondo. È evidente che se l’O.M.S. denuncia il pericolo a gennaio e ne indica la dimensione internazionale il pericolo era stato accertato ben prima, almeno settimane prima, come è necessario per acquisire gli elementi necessari per definire le dimensioni del pericolo. E non c’è dubbio che la stessa organizzazione internazionale ne abbia fornito anticipazioni al Ministero della salute che ha un rappresentante in seno all’O.M.S.. Sarebbe gravissimo se questo non fosse avvenuto, se la notizia fosse spuntata come un fungo il 30 gennaio. E se fosse così c’è qualcuno inadeguato, assolutamente inadeguato al ruolo.
Ugualmente è da ritenere che, in vista della dichiarazione di pericolo qualcuno avrebbe dovuto fare mente locale sulle forze in campo, cioè sulle possibilità di dare una risposta all’epidemia. Perché se nessuno si è mosso sono parecchi che vanno mandati a casa, tra i politici e tra i tecnici che occupano posti di responsabilità nel governo della Repubblica.
Sta di fatto che è apparso a tutti evidente che nessuno aveva pensato, ad esempio, a rifornire gli ospedali di mascherine protettive per i sanitari impegnati nei reparti, non solo di terapia intensiva. Questi, in particolare, si sono rivelati subito inadeguati quanto al numero dei letti, tagliati negli anni scorsi, nei quali il rigore ha duramente colpito la sanità pubblica, con difficoltà a far fronte al flusso dei malati, mentre le possibilità di riconversione di altri reparti si sono dimostrate macchinose. Anche perché, di fronte ad una emergenza come sarebbero stati curati i pazienti “ordinari”, quelli in cura per malattie oncologiche, gli infartuati, quanti hanno subito un ictus (a proposito le Stroke Unit?), i feriti in incidenti stradali, ecc.? Non se ne parla, ma si sa che queste persone spesso vengono pretermesse di fronte ad un soggetto positivo al coronavirus e da trattare in terapia intensiva. Gli altri possono morire?
Come sempre accade in Italia all’emergenza ha fatto fronte l’impegno, spesso eroico, nelle condizioni date, del personale medico e infermieristico, oltre che degli operatori del 118.
Si è sprecato un tempo prezioso che avrebbe consentito di definire un quadro generale di interventi su tutto il territorio nazionale e di individuare le “misure” necessarie per frenare il contagio. Si è preferito procedere “a vista”, come dimostra la progressione dei provvedimenti adottati in via di urgenza (i decreti-legge 2 marzo, n. 9; 8 marzo, n. 11, 9 marzo n. 14; 17 marzo n. 18; 25 marzo, n. 19) ognuno per integrare e correggere le precedenti disposizioni, e in attuazione degli stessi. Ne è derivato un groviglio di norme spesso poco comprensibili, pertanto continuamente modificate ed integrate, fino all’ultimo decreto legge che, a dire del Presidente del Consiglio, avrebbe anche il ruolo di costituire una sorta di testo unico delle norme sull’emergenza per mettere in ordine le precedenti disposizioni (cinque decreti legge in meno di venti giorni per una stessa materia non si erano mai visti). Anche i ministri della salute e dell’interno hanno emanato i loro decreti. Poi ci sono le ordinanze del Capo del Dipartimento della Protezione civile. Per parte loro le regioni hanno adottato autonomi provvedimenti, al fine di limitare il movimento delle persone.
Nella “patria del diritto” è il colmo. Ritardi, sovrapposizione di norme, molte delle quali arrivano con evidente ritardo in un crescendo che dimostra almeno due cose, che bisogna ripensare la distribuzione delle attribuzioni e delle competenze in materia di emergenze sanitarie, e che sarebbe stato necessario provvedere prima, molto prima, al blocco delle attività non essenziali ed a stabilire il divieto “a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute” (art. 1, lettera b) del dPCM 22 marzo 2020), per evitare alle persone di spostarsi da zone ad alta diffusione dell’infezione verso altre almeno parzialmente immuni, con effetto di portare il contagio in giro per l’Italia.
L’esempio più eclatante della confusione che regna a Palazzo Chigi e dintorni ce lo dà il modulo della dichiarazione di responsabilità in ordine alle “comprovate esigenze” di spostarsi. Siamo alla quarta versione! Si tratta solo di un modulo, di un semplice modulo. Il solito spiritoso su Whatsapp ha suggerito un apposito raccoglitore perché è probabile che il quarto modulo non sarà neppure l’ultimo.
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Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, un patriota
di Giuseppe Borgioli
In questi giorni ricorreva l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine dove trovò la morte fra gli altri Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Comandante del Fonte Militare Clandestino che nella Roma occupata rappresentava la parola del Re. Medaglia al valore alla memoria, il suo nome ha subito un’operazione di silenzio quasi che il suo ricordo desse fastidio al nuovo regime repubblicano. La menzione doverosa e frettolosa nelle celebrazioni delle Fosse Ardeatine che si sono susseguite negli anni, e niente più. Intanto il sacrificio dell’Ufficiale piemontese avrebbe indotto a spiegare che cosa ci faceva nella Roma occupata e il ruolo da Lui ricoperto nella resistenza patriottica come rappresentante legittimo del governo del Re. Come è stato messo a tacere il contributo di sangue e di coraggio del Ricostituito Esercito Italiano raccolto in una straordinaria e puntuale documentazione da Gabrio Lombardi uno dei protagonisti di quelle giornate. Tutto è stato sepolto dalla retorica resistenziale che mirava a enfatizzare sottolineare la parte avuta dal partito comunista (e azionista): i Savoia, cioè lo Stato legittimo, andavano screditati per cancellarli dalla memoria degli Italiani. Da qui il tentativo di sottacere ed espungere dalla storia quei capitoli che costituiscono l’identità di un intero popolo. Noi stessi monarchici abbiamo spesso citato Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo per dire che nella resistenza c’eravamo anche noi, che non era solo un affare delle bande comuniste e delle formazioni azioniste. C’eravamo anche noi con le tradizioni, con il nostro patrimonio morale e militare. Sotto questa luce c’è qualcosa che non va. Quel “anche noi” non rende giustizia della verità storica. È troppo riduttivo. C’eravamo noi, soprattutto noi a garantire il carattere nazionale e patriottico della resistenza. Giacomo Noventa, un pensatore solitario, aveva chiarito questo aspetto. Dobbiamo distinguere resistenza e antifascismo. L’antifascismo fu per quei pochi che lo professarono un tributo alla coerenza che va ammirato. L’adesione alla resistenza per il giuramento di fedeltà al Re fu un’altra cosa. Fu prima di tutto una scelta in qualche caso drammatica, sempre difficile. L’intruppamento nella repubblica sociale rispondeva di più ad un bisogno di coerenza formale verso il dittatore (Mussolini), verso un’alleanza (italo-tedesca). Obbedienza e fedeltà non sono sinonimi. I fascisti avevano il motto credere, obbedire, combattere. Se si è fedeli al Re si è ad una Dinastia ad una storia. La scelta dell’otto settembre 1943 fu questa, la scelta per una Dinastia e uno stato che garantiva al di sopra di tutto e di tutti l’unita della nazione. Non si può dire lo stesso delle bande e formazioni partigiane che avevano tutte delle bandiere ideologiche da sventolare, dei programmi politici da lanciare a guerra finita per conquistare il potere. L’attentato di Via Rasella a 33 militi per altri di origine altoatesina, da cui prese il via la rappresaglia della Fosse Ardeatine, fu progettato e attuato dal partito comunista romano. Fu un’azione criminale, senza ma e senza se che costò la vita a 330 persone. Non c’era in gioco un obiettivo militare o strategico. Solo una lotta di potere per la supremazia fra i gruppi partigiani romani. È per questo che Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo rifiutava la qualifica di partigiano, si riteneva e lo era un patriota.